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Eunice mi scherní, mentre io la volevo baciare
soavemente, e m’offese. «Da me va lontano — mi disse —
povero diavolo. Sei bovaro, e vorresti baciarmi?
Baciar non so bifolchi: soltanto so premere labbra
di cittadini. Tu, baciar non potrai la mia bocca
bella, neppure in sogno. — Che vaga presenza è la tua!
Che parlantina sciolta! Che urbane facezie, sai dire!
Come sai far lusinghe, che frasi incantevoli adopri!
Come la barba hai molle, com’hai delicate le chiome!
Sono le labbra tue tutte sudice, hai nere le mani,
sei puzzolente: va’ lungi da me, ché da presso mi sporchi».
E si sputò, cosí dicendo, tre volte nel seno.
Poi, tutto mi squadrò, dalla testa giú giú, sino ai piedi,
facendo uno sberleffo coi labbri, e guardandomi storto;
e mi rideva di gusto sul muso, mostrandomi i denti,
con una ghigna spocchiosa. Il sangue mi prese a bollire,
e per il cruccio, in viso divenni di porpora, come
per la rugiada una rosa. E quella, mi lascia, mi pianta.
Ed io mi rodo il cuore di bile, perché m’ha beffato,
galante come sono, cosí, quella trista sgualdrina.
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