I suicidi di Parigi/Episodio primo/X
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X.
Ciò che si cerca e ciò che si trova.
Sergio era partito da due giorni, per non so quale inauguramento di statua di grande uomo in una città di provincia.
Madama Thibault era uno di quei misteri delle grandi città, cui si sospettano, cui si indovinano anzi, ma cui non si riesce mica spesso a spiegare.
Il solo uomo che conoscesse il totale di questo logogrifo era il dottore di Nubo, perchè egli era stato in parecchie occasioni, come per tanti altri, il suo medico, il suo confessore, il suo complice, il suo coadiutore, il suo consigliere, e chi sa se non vi ebbero pure tra loro relazioni di altra natura.
Il dottore aveva conosciuto questa donna in una circostanza terribile. Egli aveva prestato i soccorsi del suo ministero al signor Thibault, che era stato portato in casa sur una barella, ferito a morte in duello. Poi, il dottore era restato medico della giovine bella vedovina.
Il signor Thibault aveva guadagnato una fortuna considerevole nel commercio dei grani. Quella fortuna era nel suo portafogli. Perocchè, egli andava a farne collocamento, quando una provocazione — sotto la forma di uno schiaffo — sopraggiunse, — e vi mise ostacolo.
Gli eredi non trovarono becco di quattrino di quella fortuna.
E si disse, che la vedova avesse rubato i parenti di suo marito; che il dottore le avesse tenuto il sacco nell’operazione.
Tutto codesto, nel fondo fondo, era presso a poco falso. Madama Thibault non aveva sottratto che un centinaio di mille franchi, tutt’al più.
Nondimanco, ella menava una grande esistenza!
Per giustificarla in un modo meno sgustevole, ella lasciava correre, senza troppo contraddirli, gli altri rumori sull’origine di sua ricchezza. La verità però l’è la seguente:
Madama Thibault aveva un magnifico appartamento nella via di Provence. Attiguo al suo appartamento, eravi un piccolo alloggio ove dimorava Sergio di Linsac. Se si fosse spostato la libreria di costui, sarebbesi scorto, dietro questo mobile, una piccola porta praticata nel muro, la quale aprivasi addirittura in un armadio a specchi, nell’appartamento vicino, nella propria camera da letto di madama Thibault. Augusta poteva amar così il poeta a suo comodo, senza che il mondo ne avesse giammai potuto indovinar nulla e neppur sospettarlo.
Bisogna però soggiungere che Sergio di Linsac non era iscritto nel bilancio di rendita di madama Augusta Thibault. Ella lo amava di cuore, lo amava dei sensi e la partita saldavasi così.
Ma la buona dama non si contentava della diaria un po’ magrina del poeta.
Alla sommità della via di Clichy, eravi a quell’epoca una gran casa, con un’immensa corte, nel fondo della quale prendeva origine una scalinata di servizio. La gabbia della scala nascondeva quasi una porticina a vetri colorati, che non aprivasi mai, sporgendo in un piccolo giardino, affitato allora al proprietario di una palazzina dietro la casa. La porta a vetri era dunque interdetta.
Madama Thibault aveva affittato il quarto piano di quella casa, per allogarvi una povera vecchia paralitica sua parente, a cui portava affetto. E come la signora Thibault bruciava di carità a mo’ delle divote, ella recavasi colà due o tre volte la settimana, onde largir sussidii alla congiunta, e restava a favellare a lungo con lei.
A lungo, diceva ella, ripetevano altri. In realtà madama Thibault non vi si tratteneva che cinque o sei minuti. Poi, discendeva con cautela, apriva la porticina vetrata, di cui possedeva la chiave, e si trovava nella stufa della palazzina — l’entrata principale della quale era nella via di Amsterdam, n. 97.
Quella palazzina apparteneva al principe di Lavandall.
Questi era iscritto sul bilancio d’introito di madama Thibault ad una quota variante, tra i 90 ai 100,000 franchi, l’anno.
Quando madama Thibault riesciva, verso le cinque, dalla palazzina del principe, e traversava il cortile della casa della via di Clichy, i portinai, se per avventura sbirciavanla dal loro covo, sclamavansi:
— La santa donna! quante consolazioni reca dessa all’inferma!
— Ed a voi, eh! — madama Pillet? — soggiungeva la cuoca del secondo piano.
Il signor Pillet degnava sorridere.
Quelle visite occupavano un tantino l’ozio dei lunghi giorni di madama Thibault.
Ma le notti erano altresì così lunghe, così solitarie, così silenziose! Non piacendole ricevere visite in casa, se ne andava al teatro od a far visita altrui.
Madama Thibault aveva un intendente che avrebbe sconcertato tutti gli etnografici del mondo, se si fossero avvisati di classificarlo e determinare a quale nazione appartenesse. Costui non aveva tipo, e parlava tutte le lingue come sua lingua nativa. Forse, rimuginando bene, noi avremmo potuto riconoscere, sotto l’epiderme di babbo Timoteo, l’antico capo degli zingari di Nicastro, lo zio Tob. Ma noi non abbiam tempo, in questo momento, di occuparci di codesta scoverta, che aveva fatto tanto onore alla scienza del dottor di Nubo.
Due mila franchi l’anno di salario, nudrito, vestito, alloggiato, ed altri piccoli accessori, facevano del babbo Tob, o Timoteo, un miracolo di fedeltà. Per lo manco, lo si diceva. La signora Thibault, del resto, non se ne lamentava. Il babbo Tim o Tob era discreto come i geroglifici della piramide di Louqsor.
Questo intendente l’accompagnava.
Si vedeva dunque madama Thibault in una baignoire, fino al secondo atto — talvolta fino al terzo, se la commedia l’interessava. Poi, nell’intermedio, l’intendente giungeva, gettava una pelliccia sulle spalle della padrona, discendeva, apriva lo sportello di una vettura che l’aspettava alla porta del teatro. Augusta entrava. L’intendente ordinava al cocchiere: Andate.
Egli, l’intendente, se ne iva per i piccoli fatti suoi.
E madama Thibault?
La degna dama bazzicava le soirées, faceva visite — diceva ella, diceva altresì l’intendente. In realtà, la signora Thibault recavasi in una deliziosa piccola palazzina, fra due giardini, nella via Neuve-des-Mathuarins — il paradiso del signor Alberto de Dehal. Ella restava quivi presso a poco fino alle due del mattino, dopo cui, il babbo Tim o Tob — che scaldavasi al camino, o passeggiava, o dormiva nell’anticamera fin dalla mezzanotte — le apriva di nuovo lo sportello del coupé e rientravano in casa.
Il signor Alberto Dehal, anch’egli figurava nel bilancio di entrata della bella vedova, per cinquanta o sessanta mila franchi l’anno — tutto compreso.
Con un’esistenza così piena e così sapientemente combinata, la signora Thibault passava nel mondo per una donna irreprovevole. Ella era patronesse di opere pie nella sua parrocchia. Questuava per i poveri alla messa cantata della domenica. Riceveva le visite officiali del signor curato, della società divota, e, quando ella vi consentiva, anche la buona società, la borghesia. Perfino qualche membro dell’aristocrazia avventuravasi a cacciare in quelle steppe. Per lo meno, codesto dicevasi a proposito del principe di Lavandall. Imperciocchè, di certi signori stranieri, di certi principi italiani, conti polacchi, baroni tedeschi, dicevasi, nè più nè meno, ch’essi bazzicavano la casa della vedovina schiettamente per sposarla.
Lo scudo non è desso forse la migliore delle armi?
Il ballo cui Augusta dava — ella non ne dava che due soli nella stagione — fu brillante.
I lions della festa furono, è inutile dirlo, il principe di Lavandall e Regina — l’uno per la sua colluvie di decorazioni; l’altra per la sua bellezza.
Il dottore presentò il principe a sua nipote — E costei ed il principe restarono a chiacchierare insieme un venti minuti.
Lavandall fu abbarbagliato dello spirito penetrante e fine della giovane; del tatto di lei ad indovinar tutto; della di lei abilità di tutto dire o di tutto dissimulare; della solidità del di lei giudizio e della chiarezza con cui esprimeva ciò che la voleva dire.
Quando il principe la lasciò, per discrezione, Alberto Dehal — che assisteva anch’egli a quel ballo e che l’aveva covata degli occhi senza volgerle la parola, come fatto aveva all’ambasciata d’Austria, le si accostò.
— Madama, vorreste farmi la grazia di un giro di walzer? chiese egli con voce commossa.
— Volevo riposarmi, signore — rispose Regina — ma a voi non posso rifiutare.
Levossi.
Alberto la prese fra le sue braccia.
Era estremamente pallido; si sentiva quasi svenire sotto il peso di quella donna, cui aveva tanto amata e cui amava ancor tanto! Si lanciarono alla danza.
— Madama — le sussurrò Alberto all’orecchio — non mettete giammai più il piede in questa casa, e diffidate.
— Di grazia, di che?
— Questa casa vi contamina. Voi siete in una gabbia di tigri. Partite all’istante. Non vi tornate più, e silenzio... silenzio assoluto!
Egli condusse Regina al suo posto e partì.
Regina rimase pensierosa. Poco dopo lasciò il ballo anch’ella. Non disse ad alcuno delle parole di Alberto. Però, riferì a suo marito di essere stata a quel ballo.
— Regina — rispose Sergio di un accento profondamente attristato — va pure nel mondo quanto ti aggrada. Frequenta i balli ufficiali e diplomatici, i balli del Faubourg... ma, se vuoi piacermi, fuggi il mondo borghese e quello dei finanzieri, checchè si siano. Io li detesto.
— Perchè dunque, amico mio?
— Li detesto d’istinto. Nelle regioni elevate, la corruzione, la seduzione, il vizio, la belletta non mancano di certo. Però, se tutto codesto disonora, codesto non imbratta. Imperocchè, quella gente sa orpellare il fondo con la forma. Ora, gli è vergognoso confessarlo, ma ciò è; noi viviamo per gli altri, molto; per noi, poco.
— Ài tu qualche cosa a rimproverare alla signora Thibault?
— Ella è una cliente di tuo zio. Ciò basta. Mi astengo parlarne.
— Ti comprendo amico mio. Non avrai più rimprocci a farmi.
Qualche giorno dopo, il dottore invitava Regina ad un ballo dal ministro della marina. Regina esitò.
— Come? — sclamò il dottore — saresti di già stufa?
— Magari, no.
— Ebbene, dunque?
— Ditemi, dottore, posso recarmi a codesto ballo con la stessa toilette che portavo al ballo dell’ambasciata austriaca?
— Mah! ciò ti riguarda.
— Lo so bene.
— Volgi allora codesta dimanda a tuo marito.
— Non è guari pochi dì, e voi pretendevate che il mestiere di uomo di lettere è mestiere di pezzenti.
— E lo pretendo ancora — a qualche eccezione tranne: rara avis! Ma di chi colpa se tu non ài ad indirizzarti ad un uomo di scudi?
— Dottore, non torniamo più su codesto. È un fatto compiuto.
— Allora vieni al ballo con la stessa toilette d’altra volta.
— Le donne si burleranno di me. Direbbero che dormo con essa.
— Allora, resta a casa.
— Mi vi annoio.
— E dire — sclamò il dottore quasi parlasse a sè solo — che con la metà dello ingegno che il marito di costei sciupa in frascherie fantastiche, in combinazioni fittizie, e’ potrebbe, applicandolo a cose reali e serie, navigar sull’oro!
— Applicato a che mo’, se vi piace, amico mio? A delle combinazioni di Borsa? Ad inventare un cappello meno ridicolo per gli uomini? un rimedio contro la malattia delle patate? un’assicurazione contro l’infedeltà dei mariti?
— Che pensi tu di quei piccoli bellimbusti che ti farfallavano intorno al ballo dell’ambasciata?
— Mah! che ve n’ànno dei dannatamente sciocchi e vani.
— E pertanto, ecco lì il vivaio degli uomini che avranno un giorno la fortuna degli Stati di Europa nelle loro mani.
— Compiango l’Europa, allora.
— Tuo marito, al paragone di quei fantocci lì, sarebbe un’aquila.
— Lo credo bene! E’ ne fabbrica e demolisce, di uomini di Stato.
— Se egli volesse entrare nella diplomazia.
— Oh! per esempio!
— E perchè no?
— Perchè. Ciò sarebbe come un proporre a Scheffer di dipingere insegne per i mercanti di vino.
— Capisco. I gonzi del suo partito l’addimanderebbero apostata — quasi che il mondo fosse popolato di altre bestie che di codeste! Chi non è apostata di qualche cosa? Tu, però...
— Io?
— Perchè non utilizzeresti tu le tue abilità per lo bene di tua casa e per i tuoi piaceri?
Regina scoppiò in un fragoroso scroscio di riso.
— E che volete voi dunque ch’io faccia — dimandò ella.
— Ciò che fa la principessa di Tobelskoy; ciò che fa la contessa di Thent; ciò che fanno lady Mouthbury, la baronessa Steingel, la duchessa di Castelmoro... ed altre parecchie che nè tu, nè io, nè altri conosciamo.
— Ma le sono delle bas-bleu politiche codeste. Poffardio! Elleno predicherebbero i diritti della donna, per entrare in Parlamento e reggere un ministero. Io, io sono, tutto al più, una civetta soppannata di un abbozzo di artista.
— La diplomazia à più di facce che tu non ài di capricci.
— Ne avrebbe dessa una allora, non mica troppo brutta, perchè io potessi provarne?
— Si potrebbe rovistare nel vestiario.
— Quale mo’, per esempio?
— Mah! che pensi tu di una fanciulla bella...
— Come me...
— Spiritosa... continua dunque.
— Come me — poichè ciò vi aggrada.
— Allerta, civettuola, insinuante; che avrebbe dei belli occhi per tutto osservare; che intenderebbe tutto; che comprenderebbe a mezza parola; che saprebbe far parlare; che saprebbe dare ad intendere; che fiuterebbe i secreti; che scompiglierebbe i progetti; che leggerebbe nelle anime; che dominerebbe le resistenze con un sorriso; che saprebbe farsi pagare un bacio con un segreto di Stato... un’ammaliatrice insomma, una...
— E voi credete che codesto prodigio di donna esista?
— Io la conosco.
— E che dovrebbe far ella, codesta donna miracolo, alla fin fine?
— La donna — niente altro che la donna.
— Oh!
— Vestire splendidamente ed elegantemente, correr le feste, frequentare i balli ufficiali, ricevere, cinguettare, ascoltare, comprendere, rammentarsi, e...
— Riferire... n’è vero, eh?
— Raccontare. Vi àn degli uomini che scrivono ai dì nostri la cronaca contemporanea come Saint-Simon, il cardinale di Retz, ed altri scrivevano la cronaca dei tempi loro. V’è la mania delle Memorie, delle auto biografie... Vi àn dei curiosi assai ricchi per pagarsi gli aneddoti, i si dice, i motti, il racconto degl’intrighi dei saloni; sapere ciò che Parigi ciarla, ciò che Parigi pensa, ciò che Parigi delira, ciò che Parigi fantastica, ciò che progettasi e ciò che si è in via di compiere. Vi sono dei signori stranieri, i quali, per allietare le nere cure dei loro sovrani, amano scriver loro delle follie di Parigi e tutto ciò che fermenta sotto il cranio di questa città turbinosa — come il principe di Talleyrand scriveva a Luigi XVIII tutto ciò che occorreva nei saloni di Vienna, al tempo del congresso... come la contessa di Lieven scrive alli Tzar Alessandro e Nicola...
— Ed il mio curioso in quistione, caro zio, non abiterebbe desso, per azzardo, nella via di Jérusalem, eh?1
— No, carina — rispose il dottore dopo un minuto di silenzio. Egli abita la via di Amsterdam, e chiamasi il principe di Lavandall.
— Bene. E ciò che codesto nobile signore richiede da codesta donna non si addimanderebbe, con nome proprio, senza ambiguità, con l’impertinenza sfrontata di un dizionario... dite, dottore, non si addimanderebbe desso spionaggio?
— Bazzeccole! stoltezza! L’uomo che riceve quaranta soldi al dì, e la spesa di ciò che consuma nei luoghi pubblici, spia. La donna che palpa 12,000 franchi di onorario, 24,000 franchi per toilette, e 20,000 per spese di ricevimento, osserva. L’è la logica del mondo... e della lingua.
— Tentatore! — gridò Regina levandosi di botto... e fuggendo.
Ella aprì la porta del salone e fece un passo nell’anticamera, poi si fermò. Riflettè quivi un istante, come qualcuno che cerca qualcosa. Poscia ritornò su i suoi passi, riaprì un filetto della porta del salone, passò di quivi la sua testolina svegliata, e mandò dentro, in uno scroscio di riso:
— Caro zio, accetto il ballo dal ministro della marina. E partì.
Il dottore di Nubo restò, degli occhi devaricati sulla porta, e borbottò:
— La tengo. Sarò vendicato!
Disgraziato! Egli non sospettava che veniva di pronunziare la sentenza di morte di quella creatura di venti anni!
Note
- ↑ In questa via è la prefettura di polizia.