I suicidi di Parigi/Episodio primo/XI
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XI.
Il frutto dell’albero della scienza.
Regina ritornò a casa affranta.
Vi àn certi pensieri, i quali per la loro intensità producono, in un momento, lo stesso spossamento di spirito che se durato avessero lungamente.
La proposizione del conte di Nubo aveva messo a soqquadro l’anima di Regina. Ella aveva trovato in quelle insinuazioni qualche cosa di anormale, di così mostruoso, qualche cosa di così ribrezzevole ed inatteso, ch’ella non sapeva più rendersi conto delle sue proprie idee, dei suoi propri sentimenti.
Una giovane donna, quasi ancora una fanciulla; una natura eletta, bella, ammirata, desiderata, aleggiante nelle regioni sfolgoranti della poesia e dell’arte, portando un nome senza macchia e glorioso, ella, ancor innocente civettuola, accolta dovunque con un sorriso, lasciando dovunque desiderio di sè in partendo: quella natura di fiore e di stella si era vista, di un tratto, tuffata, perduta nei gurgiti scuri della polizia. La donna di mondo marcata dello stigmata dello spionaggio, avendo in tasca una patente di agente provocatore! Quello sgorbio terrificante, ch’ella si sentiva impresso sul sembiante, stillare come catrame dal suo viso, la fece quasi sdilinquire. Ella videsi riconosciuta, smascherata, poi cacciata via dai lacchè, indicata a dito... Ella vide suo marito suicidarsi di vergogna. Si vide rugata, allaidita dal delitto... e rugghiò di dolore e terrore.
Regina giunse a casa sotto l’impressione di questo incubo. Imperciocchè la sua immaginazione, in qualche minuto, dalla via di Lille, ove dimorava suo zio, alla via di Boulogne, ove ella abitava, l’aveva travolta per tutte le sentine della bassa polizia e, di conseguenza in conseguenza, le aveva fatto traversare e percorrere tutte le infamie, tutti i tradimenti, tutte le miserie. Ella si chiuse nel suo atelier e si lasciò cadere sur un divano, ove si assopì.
Il suo polso batteva quasi avesse avuto la febbre.
Svegliandosi un’ora più tardi, molto più calma, Regina si fregò gli occhi come per cacciarne il sonno dai tristi sogni. Sollevossi sul cubito, sorridendo. Poi, dopo aver lasciato galleggiar qualche istante il suo spirito nel vago, ella riprese a ruminare col pensiero, in secondo ripasso e raffinamento, la conversazione con lo zio.
— Non m’à desso parlato di 24,000 franchi di spese di toilette e di 20,000 per spese di ricevimento? — pensava dessa. Non m’à egli ammonticchiato contesse su principesse e baronesse su duchesse? Non m’à egli parlato di balli, di spettacoli, di feste; e poi di cicalecci vivi ed insinuanti; e poi di vedere, ascoltare, ripetere ad un gran signore curioso, straniero, che vuole disannoiare non so più qual sovrano? La noia! oh! l’orribile baratro! Ma, vi rifletto: e se non si vedesse che ciò cui vuolsi vedere? e se non si ascoltasse punto, ma punto? Non si potrebbe dunque raccontar questo e non quello? Si potrebbe anzi non raccontar niente del tutto. Perchè, che debbe importare ad una onesta giovane donna, come me, la politica ed i suoi segreti, la diplomazia ed i suoi intrighi? Riflettiamo dunque.
Regina levossi e cominciò a gironzare per l’atelier, mentre la sua mente batteva le ali per lo spazio.
— Sì, riflettiamo. La morale impone di non calunniare e di non ripetere la maldicenze, di non portare intorno cose che potrebbero danneggiare l’onore e la vita delle persone. Sia. Ora, che la Francia civetti con la Russia, che l’Inghilterra cospiri con la Germania, e che si mettano in quattro per ingoiare di un sol boccone la Turchia, l’Italia... che importami, a me? Ciò si dice, ciò si pensa, ciò si fa... Se male ci è, essi non debbono fare il male. Lo fanno? Tanto peggio. Io lo appuro, me lo dicono, l’odo... e lo ripeto come un altro — ve’! proprio proprio come un giornale! Non resterebbe dunque, tutto al più, che una questione di data: io lo saprei e lo direi per la prima. Oh! ecco poi il gran delitto! Peccato da calendario. Cinquanta mila franchi ne assolvono ben d’altri, nel seno della chiesa! Ma tratterebbesi, a quanto pare, di forzare a parlare e di profittare dei miei mezzi di seduzione per cavar dei segreti, dei... che so io? Bah! non si vede che codesto in società, lo si vede tutti i dì... e ve n’àn pure di quelle che profittano di questi vantaggi per saccheggiare i bietoloni. Io farò parlare. Benissimo. Se l’agente di un governo qualunque è così malaccorto di parlare, tanto meglio che lo si smascheri. Egli non sarà impiegato più nella bisogna, e non sarà più periglioso.
Regina si assise di nuovo, e gli occhi fissi sur un pastello bozzato continuò a vaneggiare.
— Ma che uffizio superbo è poi quello di ricevere alti funzionari, e quindi della gente del corpo diplomatico, e poi dei giornalisti serii, ed inoltre il mondo della corte, dei generali, dei grossi banchieri, il nunzio... Trovo che davvero 20,000 franchi è troppo poco per codesto... Sì troppo, troppo poco... Occorrerà dimandare un aumento di dotazione sulle spese di rappresentazione. E chi lo saprà? Io sono a chiedermelo. Nè il principe, nè il dottore, nè io, certo, ne parleremo. Sarebbe dunque il diavolo che si accollerebbe codesta brutta bisogna per nulla? Decisamente, io penso che posso accettare. Il conte di Nubo, del resto, che è stato il mio miglior amico, non mi avrebbe consigliato una cosa simile, se la fosse stata cattiva.
Dopo questo esame di coscienza, dopo questa espansione di confidenza, Regina ebbe un novello accesso di dubbio. In seguito, una nuova crisi di bramosia. Poi ancora delle paure novelle. Ella bilicò infine su questa altalena per due giorni. Sovvennesi però di aver detto a suo zio, in un primo slancio di leggierezza, ch’ella accettava l’invito al ballo del ministro della marina. Se ne pentì. Poi se ne consolò sclamando:
— Il primo impulso è sempre il più retto; ed ò ben fatto. Ma la toilette?
Questo spettro offuscava il quadro.
Il dottore di Nubo, dal lato suo, sospettava bene della lotta che infuriava nel cuore della giovane. E’ sapeva troppo bene di avervi gettato il germe di un cancro. Lasciò a questo germe pigliarvi vita e radice. Però, per accelerare lo sboccio, egli scrisse questo vigliettino alla nipote:
«Mio bell’angelo, il proprietario delle Villes de France mi deve qualche moneta. Vuoi tu darti la pena di andarla a toccare, in mercanzie? È l’ultimo credito che posseggo sui marcanti di mode. Profittane. Ti bacio su quel bel fronte ripieno di capricci.»
Il colpo fu decisivo.
Regina si dette una toilette splendida. Ed otto giorni dopo il sermone del dottore, si recò al ballo della rue Royale.
Il principe di Lavandall non vi mancò.
Egli trovò l’opportunità di porgere il braccio a Regina e di menarla intorno pei saloni. Le parlò per mezz’ora e completò la conversione sì maestrevolmente intrapresa dal dottore.
Regina ascoltò tutto, ridendo; rispose a tutto con spirito. Accettò tutto infine, ridendo sempre, quasi avesse portato una sfida al principe di esser serio in ciò che diceva.
Del resto, quantunque costui avesse uno scopo di più che Regina, egli vi si condusse con un tatto sì delicato, nascose così bene l’amante sotto il diplomatico, ch’e’ sarebbe stato impossibile di comprendere la cosa di una maniera brutale ed offendersene.
Regina, d’altra banda, barcamenò con tanta scaltrezza e gaiezza, ch’ei sarebbe stato impossibile di accettare un’infamia di miglior grazia e con maggior buon gusto.
Capì dessa l’amante nella proposizione del diplomatico?
Nol sappiamo. Ma che cosa una donna non comprende dessa?
In ogni modo, si separarono a punto per non fissare l’attenzione. E come la conversazione era stata interrotta espressamente sur un capitolo curioso — e Regina era curiosissima — ella si lasciò sfuggire dalla labbra:
— A domani.
Il principe susurrò qualche parola al dottore.
Questi dette le sue istruzioni alla nipote.