I rossi e i neri/Secondo volume/XII

XII

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XII.

Il quale par fatto a posta per servire d’intramessa

Come un pizzico di sale o di pepe nelle vivande, così un miccino, un’ombra di prepotenza nelle cose di questo mondo, non guasta mai, quando (ci s’intende) le siano condite di giustizia.

La violenza da sola fa il male, e non altro; la libertà fa il bene, gli è vero, ma da sola non basta; perchè non metterle uno zinzino di forza in aiuto? La forza è il braccio [p. 103 modifica] destro della giustizia, il braccio che picchia. Dove il nemico sta fermo in agguato, bisogna combattere. A chi assale, si potrà sempre rispondere: ragioniamo? Persuaderemo il male a morire di morte volontaria, e senza trarre un colpo sulle nostre file? Ogni cosa nel mondo procede per via di azione e riazione; la vita istessa si appalesa in questo modo, per diastole e sistole. Colla ragione ridurremo il nemico in più stretti confini; colla ragione gli toglieremo i suoi alleati; ma colla forza bisognerà dargli il tracollo; la giustizia dovrà far capo alle armi, l’acciaio rispondere all’acciaio.

Nel caso nostro, come avrebbe potuto il Giuliani venire in chiaro di quella trama tenebrosa, senza un miccino di prepotenza? Far capo alle leggi? Ottimamente; ma come, se i custodi della giustizia giravano nel manico? Quello non era tempo da sillogismi; la forza occorreva. E i Templarii ne usarono parcamente, come si è potuto vedere. La rivoltina cadde a tempo dalle mani del briccone; per farlo parlare ci volevano quelle medesime argomentazioni ad hominem che già lo avevano disarmato. Fu grave il modo; ma, lo ha detto il proverbio: a mali estremi, estremi rimedii.

Il cominciamento fu felicissimo, poichè la medesima notte in cui l’Assereto narrava l’accaduto agli amici, eglino avevano in mano il bandolo della matassa, mercè la confessione del Bello. Il resto andò più lentamente, per quelle tali ragioni che governano ogni cosa di questo mondo, e fanno maturar tutto col tempo e colla paglia, come le nespole. La nostra storia è umana, nè può dipartirsi da queste leggi naturali.

I Templarii, che furono nella odierna società genovese un breve ma esempio di ciò che possano dodici volontà associate, messero in moto tutti i congegni della loro operosità, e il segreto lavoro del gesuita fu prontamente scoperto. Scoprire era già un aver vinto a mezzo; doveva fare il resto l’astuzia, opponendo stratagemma a stratagemma, imboscata ad imboscata.

Sventuratamente, tutto ciò non salvava Lorenzo, non valeva a rilevarlo dall’abisso. I segugi di palazzo Ducale l’ormavano, come uno de’ congiurati, quantunque nessuna testimonianza fosse contro di lui e tutti gl’imprigionati della famosa notte, richiesti dai giudici intorno a lui, avessero fatto prudentemente lo gnorri. Ma ciò non sapeva egli, e ad ogni modo, poichè in Genova lo avrebbero còlto, egli non doveva tornarci. — Del resto, a che pro? (gli diceva l’Assereto). Nè a torto nè a ragione, non lasciar che ti mettano in [p. 104 modifica] prigione. — Così rimaneva fuor di città, nei pressi di Bolzaneto, ma senza uscire di casa; prima, perchè lo stato dell’animo suo non era da andar girelloni, poi perchè era la stagione della villeggiatura, e ad uscir fuori c’era pericolo che la gente chiacchierina lo adocchiasse, e allora non c’era più scampo.

— Non ti fidare dei ciarlieri di buona fede, — gli diceva l’amico, portando sassi al Bisagno e campane a Genova. — I signori di palazzo Ducale ci fanno molto assegnamento, su questa classe di galantuomini. Uno solo di questi linguacciuti fa migliore ufficio che non una dozzina di spie. —

E Lorenzo, tra per arrendevolezza e per naturale desiderio, rimaneva chiuso, non pure in casa, ma in camera; svigorito, scorato, come sarà facile intendere, e col rammarico di vivere alle spese dell’Assereto, il quale, se era ricco di cuore, non era altrimenti ricco di borsa.

Ma egli avvenne che un giorno, essendo andato a visitarlo, e vedutolo così giù dell’animo, Aloise gli profferse, con quella amorosa cortesia che non patisce rifiuti, più sicura e più libera ospitalità nel suo castello di Montalto, che, come i lettori rammentano, era posto in cima ad una di quelle tante gole di monti che fiancheggiano la Polcevera.

— Andatevene alla Montalda! — gli disse. — È una rocca solitaria, una vera bicocca ascosa tra i greppi, ultimo ricordo de’ miei maggiori. Colà son nato; colà è sepolta mia madre. Quando son triste me ne vado lassù. Dovrei andarci piuttosto quando son lieto, per temperare la baldanza delle illusioni, e misurare dall’alto il nulla delle umane speranze. Ma che volete? siam fatti così. Perchè non vengo da voi quando son gaio, quando il futuro mi arride pieno di dolci promesse? Perchè, quando son mesto, come oggi, invilito, sento il bisogno di venire a passar due ore con voi? Eppure vi amo, Lorenzo, e so che la vostra amicizia è più schietta, più salda, di tanti rapimenti del cuore.... Ma lasciamo stare le mie malinconie; parliamo delle vostre. Lassù sarete triste a vostro bell’agio. Il luogo non è gaio, di fatto. Ma almeno voi non intisichirete, come in questa clausura; ma almeno potrete correre a vostra posta, al cielo aperto, quando il soverchio dell’amarezza, rompendo dal cuore, vi spingerà le maledizioni sul labbro, vano sfogo della creatura che soffre. Ed anche la forza del maledire vi verrà meno lassù, poichè sarete vicino alla tomba di una donna, la quale è vissuta come una martire, ed è morta come una santa, [p. 105 modifica] e voi l’avrete esempio continuo ne’ travagli dell’anima, e le direte che suo figlio non è molto più lieto di voi. —

Lorenzo non aveva mai udito il suo amico Aloise parlargli in tal guisa. Il marchese di Montalto era cortese, ma severo di modi, affettuoso ne’ suoi discorsi, ma riguardoso ad un tempo. Qual rammarico era il suo, che lo rendeva così subitamente espansivo? Lorenzo non istette a cercarlo; ma in atto di andare incontro a quella mestizia, mentre tacitamente accettava la profferta dell’amico, gli disse:

— Perchè non verreste anche voi, Aloise? —

A quelle parole il giovine trasse un sospiro, chinò il capo e fece scorrere la palma della mano sulla fronte, come un uomo che cerchi di scacciare un pensiero molesto.

— Oh perdonate! — soggiunse tosto il Salvani, che ben si accorgeva di aver toccato una piaga.

— Nulla, nulla! — rispose il Montalto. — Debbo rimanere a Genova, per tante cose e nessuna. La vita di città ci tiene legati per mille fili sottilissimi, che non si possono romper tutti ad un tratto. Ciò mi fa ricordare di quel povero Gulliver, quando capitò nella terra di Lilliput, e, addormentatosi sulla riva deserta, si svegliò così strettamente legato da migliaia di crini, come se avesse avuto i polsi stretti da gomene fermate al terreno. E poi, chi sa? dovrò anche andar fuori, in Francia, o in Germania; ma questo vi posso promettere, che verrò più tardi a farvi compagnia, e sarà una festa per me. —

Quel medesimo giorno, salutato l’Assereto, che era sopraggiunto in quel mezzo e aveva rincalzato de’ suoi consigli le profferte di Aloise, il nostro Lorenzo si avviò per le colline fino alla Montalda, chiedendo a sè stesso che cosa potesse aver reso così triste quel giovine, il quale era parso tanto felice, dedito com’era a tutti i fastosi passatempi de’ suoi pari, e non d’altro curante che delle sue cavalcate, de’ suoi patrizii ritrovi e delle sue superbe fatiche d’automedonte.

— Ognuno ha la sua croce! — pensava Lorenzo in quella che andava lentamente per l’erta su cui era murato il castello. — Niente manca ad Aloise, per esser felice; gioventù, bellezza, nobiltà di sangue, e quella agiatezza in cui risiede l’indipendenza, la bella indipendenza, che solo intende ed apprezza chi l’ha perduta, ma di cui tuttavia gode i benefizi chi l’ha. Ed egli è triste, e si paragona a me nel dolore. Ama egli forse?... Amare, soffrire, navigar per mare in tempesta senza scorgere il porto, naufragare senza una vela all’orizzonte che dia speranza di aiuto! — [p. 106 modifica]

E il pensiero di Lorenzo tornava a Maria. Dov’era Maria? Come aveva potuto lasciare la casa che era pur sua? Egli ben sentiva di amarla, quella casta fanciulla, fatta donna dal dolore. Perchè veramente era stato un momento d’angoscia suprema, quello che a lei, innocente creatura, aveva strappato dalle labbra il segreto inavvertito dell’anima, e a lui rischiarati di una luce improvvisa i più riposti penetrali del cuore. La santa tenerezza di due vite non affratellate dalla comunanza del sangue, può rimanere come un abisso invarcabile per esse, fino a tanto che duri, colla calma usata degli eventi, la rispettosa consuetudine. Ma viene il tremuoto a scuotere dal profondo la terra, e l’abisso incontanente si colma; una sventura, tremuoto dell’anima, rompe i vincoli della consuetudine, e l’amore trabocca nell’ossequio, lo copre, lo compenetra nel suo torrente di lava. Tutto ciò era accaduto; la tenerezza aveva ceduto il luogo all’amore. E quel giorno medesimo che doveva schiudere un nuovo orizzonte a quelle due vite, mostrar loro nella unione l’indirizzo a quella felicità di cui erano sì degne, quel giorno medesimo le aveva separate, divelte violentemente l’una dall’altra. Egli ramingo; ella perduta per lui. Povero Salvani! povero gladiatore ferito! egli non si alzava altrimenti sulle ginocchia, che per ricadere da capo.

Questi pensieri lo accompagnarono fino alla meta del suo viaggio, dove gli si parò davanti agli occhi un palazzotto quadrato, sullo stile del cinquecento, colla sua torre da un fianco, e la sua cappella dall’altro, aggiunta del secolo decimo settimo, come era facile argomentare dai fregi barocchi della facciata. Un piazzale partito ad aiuole di giardino, e ornato di spalliere di aranci e limoni, correva sulla fronte dell’edifizio. Tutt’intorno, la collina era coltivata, e i ciglioni delle fruttaglie, coperte di pampini, mostravano che il dilettevole era stato sacrificato all’utile dai signori del luogo. Per compenso a questa usurpazione agricola, un bosco foltissimo di castagni si distendeva alle spalle del palazzotto, a cui serviva di cornice, ed esso medesimo appariva incorniciato, sui lembi lontani della costa, da una doppia selva di pini, roveri, frassini, corbezzoli e di ogni altra maniera di piante, che vivono in facile compagnia sulle nostre montagne ligustiche.

In altri tempi la Montalda doveva essere stata una bella dimora, ma sempre di molto severa apparenza. E assai più severa, quasi selvaggia, appariva allora agli occhi di Lorenzo Salvani, a cagione della lunga trascuranza de’ suoi signori, [p. 107 modifica] e dello squallore che sempre tien dietro alla solitudine. Le persiane tutte chiuse, mostravano per due ordini il loro verde sbiadito; anche la tinta giallognola della facciata, qua e là macchiata dagli sgoccioli nerastri delle finestre, accusava per molte bianche sfaldature dell’intonaco i suoi lunghi anni di servizio.

Un vecchio dalla pelle rugosa, dall’aspetto severo come e forse più del palazzo, levò il capo, all’avvicinarsi di Lorenzo, dal mezzo d’un’aiuola, e si fece innanzi, col sarchiello in una mano e il cappello nell’altra, ad ossequiare sua Eccellenza. Senonchè, come gli fu dappresso, vedutolo bruno e non biondo, poi meno aitante della persona che non fosse Aloise, ammutolì, chiedendogli col gesto che cosa volesse lassù.

Lorenzo, precorrendo quel gesto, aveva già cavato di tasca una lettera.

— È qui l’Antonio? — diss’egli.

— Antonio son io, — rispose il vecchio.

Il Salvani gli porse allora la lettera, che egli con molto rispetto, ma con altrettanta prontezza, si fece a leggere, non senza meraviglia del giovine, che lo vedeva correre così spedito da un verso all’altro dello scritto, come uno de’ più esercitati lettori. Veramente, all’aspetto pareva uno zotico villanzone; ma egli era come le melagrane, le quali non hanno di ruvido che la buccia, e celano a centinaia i rubini nel grembo. Nato alla Montalda, Antonio era il più fidato servitore dei castellani; e quando la marchesa di Montalto, morto il marito, si ritrasse a vivere lassù, egli, vecchio arnese della casa, egli che aveva palleggiato sulle sue braccia Aloise bambino, egli che aveva aiutato a rinchiudere nella sua cassa di piombo il marchese Alessandro, egli era rimasto il servo confidente della marchesa Eugenia, egli aveva assistito al lento struggersi di quella santa vittima di un triste Imeneo.

Letta la lettera, che era, come già s’è indovinato, del marchese di Montalto, il vecchio accennò rispettosamente a Lorenzo di seguirlo; quindi, deposto il sarchiello sul ciglio dell’aiuola, lo precedette nel palazzo, spiccò da un chiodo un mazzo di chiavi e salì al primo piano, dov’era una gran sala, le cui alte pareti erano ornate di vecchi ritratti. Tali almeno parvero a Lorenzo, che poco poteva discernerli in quella scarsa luce vespertina che trapelava delle imposte chiuse.

Sempre taciturno, il vecchio gastaldo andò verso un uscio in capo alla sala, e apertolo, si ritrasse per dare il passo [p. 108 modifica] all’ospite. Era colà il quartierino di Aloise, che faceva riscontro a quello di sua madre, posto dall’altro lato della sala. Un’anticamera, uno studio, la camera da letto e lo spogliatoio, formavano quel piccolo appartamento, arredato con una severa semplicità che piacque a Lorenzo, il quale amava molto le vecchie masserizie, e non poteva mandar giù il fasto degli arredi, se non era passato per la trafila di due secoli almeno.

Colà si ridusse Lorenzo; e il giorno di poi la sua tristezza s’era già cosiffattamente accomodata a quella solitudine, come se egli non avesse avuto altra dimora da un anno. Egli si avvezzò ad Antonio, Antonio a lui; l’uno e l’altro senza barattar parole, salvo nei casi di vera necessità.

Il vecchio scendeva di buon mattino sul piazzale per curare i fiori della marchesa. Così era uso di fare quando ella viveva; così seguitava a fare, dopo la morte di lei. Sarchiava, annaffiava, seminava a suo tempo, ma sempre le medesime specie, e coglieva ad ogni stagione i medesimi fiori. In una sola cosa era mutato il costume, poichè Antonio, colti i suoi fiori, in cambio di portarli nella sala da lavoro della marchesa, li portava in cappella, e li disponeva in due vasi di cristallo a’ piè della tomba. E tutti i giorni così; un automa non avrebbe fatto meglio il suo periodico uffizio.

Si è mattinieri in campagna; mattiniero tra tutti colui che un’interna cura affatica, rendendogli molesta la tranquillità del riposo. Lorenzo era desto coll’alba; pochi minuti dopo, come un’ombra pallida sul limitare della tomba, si affacciava al portone, dove ancora non giungevano i primi raggi del sole, e donde gli era dato ogni giorno vedere il vecchio, che, più mattiniero di lui, già stava a curare i fiori della morta signora. Quello spettacolo divenne in pochi dì una consuetudine, e la consuetudine portò l’imitazione.

Ciò avvenne senza mestieri d’intesa, dopo uno di quei saluti che l’ospite e il custode della Montalda barattavano tra loro, come due monaci della Trappa. Antonio coglieva ciocche d’elitropio da un lato: Lorenzo si fece a cogliere amorini dall’altro, precorrendo coll’opera sua la fatica che gli aveva veduto fare ogni dì. Antonio, la prima volta che il signor Salvani si adoperò in tal modo a dargli una mano, si volse a lui e stette, tra attonito e scontento, a guardarlo: forse voleva dirgli di smettere, che quello era affar suo, tutto, suo; ma poi, fosse il ricordo che quello era l’ospite del padrone, o il pensiero che cortesia non merita villania, si tenne le parole nel gozzo, e si contentò della sua mezza fatica. [p. 109 modifica] Neppure si dolse che Lorenzo lo accompagnasse alla cappella col suo fascio di fiori; ma parve gradire l’atto riguardoso del giovane, che lasciò a lui la cura di mettere i fiori a mazzo e di collocarli in mostra, pago del più umile ufficio di togliere i vizzi e di rinnovar l’acqua ne’ due vasi di cristallo.

— Erano i suoi! — disse Antonio, accennando i vasi che lui porgeva il suo nuovo aiutante. In quelle tre parole, che chiamavano in mezzo a loro la memoria della marchesa era la consacrazione di quell’aiuto che a prima giunta gli era parso una usurpazione de’ suoi diritti.

D’allora in poi quell’uffizio mattutino fu sempre fatto in comune. Altre ragioni di ravvicinamento e di conversazione non erano tra loro. Buon giorno e buona sera, secondo le ore; la frase sacramentale: «il signore è servito» all’ora della colazione e a quella del desinare; e ogni cosa era detta. Lorenzo non comandava mai nulla; assaggiava a mala pena i cibi ammanniti da una vecchia fante tornata contadina, che pure ricordandosi di aver servito in casa Montalto, la pretendeva a cuoca; e subito a correre pe’ monti, come una fiera. Più e più volte occorse che egli dimenticasse il desinare, ritornando con le ombre della notte al palazzo. Allora si metteva a tavola, e mandava giù, senza pure addarsene, il pranzo raffreddato. «Povero signorino!» diceva la cuoca, e almanaccava le disgrazie che avevano potuto ridurlo in quello stato; Antonio lo serviva senza far motto; la mestizia dell’ospite pareva ai custode la cosa più naturale del mondo.

La selvaggia orridezza di que’ monti piaceva a Lorenzo; o, per dire più veramente, il suo spirito, non turbato da contrasti di allegra prospettiva, spaziava liberamente, naufragava a sua posta in quella profonda tristezza di natura. Vagava senza proposito qua e là; le membra si muovevano; la mente era altrove, o giaceva offuscata, istupidita da quel rovescio d’immeritate sventure.

Le sue corse quotidiane giungevano fino ad una balza che signoreggiava la valle e le circostanti costiere, e donde il palazzotto dei Montalto appariva come un masso bianchiccio rovinato da una di quelle alpestri sommità e arrestato a mezzo il suo cammino precipitoso da una anfrattuosità del terreno. Lassù rimaneva lunghe ore, inerte, smemorato, colle braccia raccolte sul petto e gli occhi fissi nel lontano orizzonte. Spesso egli era ancora lassù, in quella postura, al cader della notte, e pareva la statua dello stupore; il contadino che avesse veduto da lontano, nel ricondursi al suo casolare, quella immobile figura nereggiante di rincontro alla [p. 110 modifica] pallida luce della sera, avrebbe fatto il segno della croce ed affrettato il passo per la via solitaria, come nei pressi d’un camposanto, o d’una casupola diroccata, asilo di folletti e di streghe.

L’Assereto andava qualche volta a vederlo, in que’ ritagli di tempo che gli erano lasciati dalle cure della settimana. Anche il Giuliani era stato un giorno alla Montalda, per udire da Lorenzo alcuni particolari intorno al segreto dei natali di Maria, e raccontargli quel che sapeva, e quel che aveva in mente di fare. Ma le notizie che potessero ridonar la vita al solitario erano scarse. Dopo la scoperta dei Templarii non c’era più stato nulla di nuovo, salvo che la fanciulla, come il Giuliani aveva argomentato, era chiusa in un monastero. E questo aveva risaputo Aloise, per un discorso fatto a caso dalla marchesa Ginevra, la quale, come si è detto, aveva una zia a San Silvestro, e andava di tanto in tanto a visitarla. Ma egli non aveva potuto dicevolmente insistere colle domande, nè chiederle il suo patrocinio e la sua intromissione in quel negozio; gli bastava aver saputa la cosa, e la riferiva agli amici.

Un pensiero era balenato alla mente del Giuliani; presentarsi alla dama del carteggio; entrarle della giovinetta rapita; parlare al suo cuore, e la mercè di quella alleanza finir la guerra d’un tratto. Ma il disegno era più che ardito, temerario. Come lo avrebbe accolto la vedova marchesa di Priamar? Dato il caso che, con un pretesto difficile a trovarsi, egli avesse potuto giungere fino a lei, come avrebbe potuto entrare in materia senza farla arrossire, e senza farsi mettere alla porta? Offendeva una donna; non raggiungeva l’intento; lasciava argomentare che il segreto era scoperto, e ciò poteva tornare a maggior danno per la sventurata fanciulla. Il concetto era gramo, e bisognò rinunziarvi.

Ma l’ardito Giuliani non volle darsi per vinto. Egli ne pensò un’altra più strana a gran pezza, che fe’ crollar mestamente il capo a Lorenzo. Pareva impossibile, e forse era; comunque fosse, conduceva per le lunghe; ma ci aveva questo di buono, che era l’unica, e non guastava nessun altro disegno migliore che si potesse immaginare in processo di tempo. Con questo spediente, disse il Giuliani, mettiamo un piede nella piazza. Le sacre carte c’insegnano di quanto aiuto tornasse alle armi di Giosuè che Raab dimorasse di costa alle mura di Gerico.

Intanto, due mesi trascorsero. Erano già tre, dopo il 29 di giugno, e non c’era nulla di fatto. Aloise era andato a Parigi, [p. 111 modifica] ombra pedissequa della marchesa Ginevra, che aveva fatto quella gita in compagnia del marito. Il Giuliani attendeva al suo disegno, che faceva assai poco cammino, e sebbene si consolasse col proverbio «chi va piano va sano» non poteva ritenersi dal ricordare la giunta «ma va poco lontano» che pur troppo ne tempera l’efficacia.

E in quel mezzo il povero Lorenzo ammalò. La febbre lo ardeva, e fu per morirne. Il delirio gli rappresentava sformati, intrecciati in mille guise, gli eventi della triste sua vita. Scorgeva Maria, l’amata Maria, costretta da una madre snaturata a prendere il velo; il Collini, il gesuita, il Ceretti e tutte le ombre nere del suo passato gli danzavano intorno, chiudendogli l’adito al santuario dove si stava consumando il sacrifizio della sua povera bella, che indarno tendeva le palme a lui ed al cielo. E quelle ombre gli si stringevano intorno, lo soffocavano; nelle loro sghignazzate beffarde s’andavano perdendo le ultime fievoli strida della vittima, che egli non vedeva già più. Sgomentito, si rannicchiava, tentava ritrarsi indietro, facendosi schermo colle mani da que’ ceffi ribaldi, il cui alito infuocato gli frizzava sul volto. Rompeva allora, in uno sforzo supremo, quella cerchia di nemici; fuggiva, sentendoli incalzare alle spalle, e cadeva trafelato sulla soglia d’un cimitero, donde suo padre e sua madre, pallidi fantasmi usciti pur mo’ dalla tomba, gli stendevano le braccia amorose. — È questi mio figlio? — diceva la morta, stringendolo al seno. — E donde tante ferite, tante lividure, su questo povero corpo? Vieni, figliuol mio, angelo mio, vieni; il letto che tu hai composto a’ tuoi genitori è largo abbastanza per tre. Qui, come il dì che sei nato, riposerai sul seno di tua madre. —

Il morbo e la natura lottarono con varia fortuna; finalmente la natura la vinse. Ma la convalescenza fu lunga, e Lorenzo Salvani non tornò altrimenti nella pienezza delle sue facoltà, che per un largo periodo di torpore intellettuale. Il giorno che si svegliò da quel letargo e ravvisò la sua cameretta, vide Aloise seduto al suo capezzale, ma così scombuiato, che a prima giunta credette gli tornassero innanzi i fantasmi del suo lungo delirio.

Aloise si curvò sopra di lui, e lo chiamò soavemente per nome.

— Ah, siete dunque voi, Aloise? — disse l’infermo. — Tornato?...

— Sì, da otto giorni, e rimarrò con voi fino a tanto non uscirete a respirare all’aperto. [p. 112 modifica]

— Siete mutato, Aloise; non vi riconoscevo più....

— Non parliamo di me! — rispose l’amico. — Già ve lo dissi, Lorenzo; triste come voi; e le mie amarezze, come le vostre, sono di quelle che a rimestarle inaspriscono. —

Due grosse lagrime tremarono sugli occhi dell’infermo, e scesero a rigargli le guance. Aloise chinò la fronte e nascose il volto sulla sponda del letto; anch’egli piangeva.