I rossi e i neri/Secondo volume/XIII
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XIII.
"Se Messenia piange, Sparta non ride."
Ai nostri lettori, i quali non hanno dimenticato Lilla di Priamar, traveduta a mala pena dalle indiscrete pagine di un antico carteggio amoroso, non sarà discaro che li conduciamo ora in via del Campo, nota per la lapide infame di Giulio Cesare Vachero, e che entriamo in un palazzo di severa apparenza, dove abitava nel 1857 la vedova marchesa. Colà, per le necessità del nostro racconto, dobbiamo seguire il padre Bonaventura.
Intorno al quale egli è tempo che diciamo alcun che di più intimo. Due o tre passi del carteggio accennato ci hanno già fatto trapelare una parte della sua giovinezza, e per qual cagione riposta lo Spagnuolo, ferito nel cuore, avesse consacrato l’animo a Dio, ma in quel solo modo che la sua indole consentiva, ascrivendosi alla operosa e battagliera compagnia di Gesù. Il Gallegos aveva amato fieramente la marchesa Lilla, e, cosa strana, l’amava tuttavia a cinquant’anni, con tutta la tenacità del suo gagliardo carattere.
Il salotto della marchesa di Priamar era un luogo assai malinconico, sebbene dagli affreschi della volta sorridessero ai visitatori mortali tutti gli dei dell’Olimpo, raccolti a convito dal pennello del Tavarone, e sulle vaste pareti un’Armida scollacciata trattenesse con isvariate lusinghe il suo Rinaldo nelle sbiadite verdure di quattro magnifici arazzi di Fiandra. In quell’ampio salotto si smarriva la luce, bevuta a larghe fauci da quattro alti finestroni, scarsamente illuminando i più suntuosi arredi che il Secento avesse tramandato alle cure restauratrici degli stipettai d’oggidì. Vi regnava il fasto per entro, pompeggiava nel damasco, splendeva nel bronzo, ma severo come le pieghe di quel superbo tessuto, contegnoso come i fregi di quel ragguardevole metallo. Un’aria grave di nobiltà ingombrava la sala; e tuttavia, all’entrarvi, si era colti come da un senso di freddo, sebbene l’apertura di un alto camino di porfido, alla foggia antica, il cui architrave era sorretto da due Telamoni di lodato scalpello, fosse ben suggellata da un paravento di stoffa. Tutto era sfarzo, come in una chiesa; ma severo e freddo del pari.
Da un lato del salotto e presso uno dei finestroni che abbiamo accennati, l’acconcia postura di un sofà, di un tavolino di lacca giapponese e di alcune scranne svariate di forma e di nome, aveva naturalmente foggiato un più geniale ridotto, dove sedeva la signora del luogo, intenta a leggere le novelle del giorno nell’Armonia di Torino, in quella effemeride che pretendeva accordare la religione colla civiltà, e le pareva d’aver fatto il colpo, affermando la cosa nel titolo.
Anch’essa, la nobil signora, effigiava una armonia, ma più efficace e più vera, l’armonia della maturità colla bellezza. Le membra tondeggiavano, ma senza perdere la grazia dei contorni; e dall’imbusto, sebbene ella fosse seduta e un po’ curva sul foglio, poteva argomentarsi che fosse di bella statura. Il suo volto era ammirabile per quella giustezza di lineamenti che si vantaggia ingrassando, e consente a certe donne gli splendori della seconda gioventù. Nè meno bella appariva la mano, che poteva essere lodata come quella di Anna d’Austria, vent’anni dopo che era stata baciata dal duca di Buckingham. L’occhialino cerchiato d’oro e ornato d’un manico di madreperla, che ella teneva accostato agli occhi, dinotava esser ella di vista corta; la qual cosa per le signore donne è un vezzo di più. Non si direbbe che il colmo della bellezza consista per l’appunto in certe imperfezioni? I greci pittori, non è chi nol sappia, per dar l’ultimo tocco alla bellezza di Venere, la dipinsero losca.
Sottili le labbra e naturalmente chiuse, la dimostravano punto cedevole ai sensi, e di carattere imperioso. Due fasci di rughe finissime, che dalle tempie andavano restringendosi verso le occhiaie, erano, insieme coi capegli già largamente brizzolati, i soli indizi della guerra degli anni. Era pur cosa facile cancellare quella ingiuria del tempo! Ma, fosse noncuranza di animo tutto rivolto a cure celesti, o quintessenza di quella civetteria che è innata in tutte le donne, e si ficca perfino nelle pieghe del cappello insaldato d’una suora di carità, o l’una cosa e l’altra ad un tempo, la marchesa Lilla non chiedeva ai trovati dell’arte quel nero lucente d’ebano che la natura, per vendicarsi in qualche modo di quella avvenenza ostinata, le veniva distruggendo a mano a mano colle sue nevicate.
Vestiva infine severamente, di seta a cordelloni, d’un pavonazzo carico; il seno, coperto bensì fino alla radice del collo, ma non dissimulato da pieghe, pareva non aver riconosciuto, oltre i trenta, l’impero degli anni. E la marchesa ne aveva quarantasette, o poco più; certo i quarantotto non erano anche suonati.
Superbo avanzo del passato, che vince soventi volte al paragone le più celebrate maraviglie del presente, ella era tuttavia una di quelle donne a cui tutti offrono il tacito omaggio di un alto stupore. Non è che si dimentichi l’età; ma ognuno dice in cuor suo: o come può durarla così? Per verità ci vergogneremmo di confessarlo, e sogliamo anzi celiare intorno a queste bisarcavole della bellezza; ma dentro di noi sentiamo verissima quella sentenza che il Guerrazzi pose sulle labbra d’un paggio innamorato: «non si fa all’amore col calendario alla mano.» Or dunque, vedendo costei, ognuno diceva: come può ella trionfare in tal guisa degli anni, che pure s’accrescono a tutti e si fanno maledettamente sentire? Pari alla famosa Ninon de Lenclos, ha ella avuto un filtro di giovinezza da un nuovo Fortunio Liceti?
Senonchè, per simili donne il filtro è spesso l’avere poco o punto patito, l’esser vissute senza affanni di cuore, l’aver goduto senza turbamento, considerando ed accogliendo felicemente la vita come una lunga sequela di soddisfazioni. Figlie di Eva, ma più avvedute di lei, dopo l’insegnamento della cacciata, gustarono il pomo della vita, dopo averlo diligentemente mondato; bevvero alla coppa del piacere, ma a sapientissimi sorsi, e cansarono i fumi dell’ebbrezza.
I lettori, rammentando la storia giovanile di Lilla e di Paris Montalto, ci noteranno di contraddizione. Ma aveva ella amato davvero? A noi pare più giusto il dire che era stata amata, che aveva ceduto, ma che subito, poichè non amava da senno, aveva badato a ritrarsi dal giuoco, ripigliandosi la posta. Tutto è lecito alle donne, e i giuocatori che lo sanno, le vedono di mal occhio sedersi al tappeto verde con essi.
E Lilla, che un giorno aveva creduto di amare, ma che non amava da senno, fu amata, adorata fino alla morte, da un povero esule. Bel sacrifizio di un nobile cuore ad un idolo muto! Se egli fosse sopravvissuto al marchese di Priamar se fosse tornato a lei, finalmente libera, chi sa?... Ma, vivi ambedue, il lontano si affacciava alla sua mente come la memoria d’un fallo; e quando il lontano morì, non lo pianse; pregò per lui, e le parve un conto saldato.
Nè vogliano reputarla cattiva i lettori; umana soltanto, nel senso che Terenzio ha dato al vocabolo, nient’altro che umana. Era una donna pentita, nè poteva operare o pensare diverso. Nobilissima com’era, non si rallegrò; ma tacitamente, quasi istintivamente, senza pure formarsi un chiaro concetto di ciò che sentiva, adorò in quella morte i decreti della divina provvidenza, che cancellavano in tal guisa un malaugurato ricordo. S’era data alle pratiche religiose come ad un rifugio dello spirito; vi perdurò senza fatica, ingannandosi anche nell’amor divino, come s’era ingannata nell’amore terreno.
La casa della marchesa di Priamar, come abbiam detto a suo luogo, era un ritrovo di gente posata, magistrati sputasentenze, dame contegnose, nobili parrucconi e simiglianti, tra i quali ella regnava, legittima Aspasia di quel fastoso consorzio. Le smancerie degli abati, le riguardose tenerezze dei vecchi Alcibiadi, le dicevano che era tenuta per bella; il che non guasta mai. Le dame anche più apertamente la decantavano bellissima, poichè non rapiva loro gli amanti, e la sua vanità femminile aveva largo tributo d’incensi, in quella che la sua ambizione si esercitava liberamente ne’ suoi caritatevoli patrocinii, ne’ suoi misericordiosi maneggi.
Poco dopo il Montalto, anche il marito morì, rendendo alla terra un corpo pieno di acciacchi e alla marchesa la sua libertà. Vedova, ella giunse all’età in cui la passione ridotta agli sgoccioli dà l’ultimo guizzo, e il più vivido, nel cuore della donna più austera per costume, più fredda per indole; vogliam dire a quello scoglio de’ quarant’anni, tanto più pericoloso per lei, in quanto che la sua freschezza dimostrava non aver sentito alcun danno dal tempo. Ma il caso le diede di uscirne vincitrice, custodita come era da quel contorno di gente sciocca e cerimoniosa, e più ancora dalla sua medesima vedovanza, stato minaccioso che potrebbe paragonarsi a quelle fortezze abbandonate, dove il nemico non ardisce di entrare, per sospetto di agguati, o di mine pronte a scoppiare. Que’ prosecutori di facili conquiste che sono certi zerbinotti, gente che va a cacciare nelle boscaglie di Pafo col biglietto d’andata e ritorno in tasca, non si perigliavano sull’orme di una selvaggina che li avrebbe condotti, Dio sa dove, fors’anco nelle ugne ai guardacaccia dell’Imeneo. Così ella varcò tranquillamente il tratto pericoloso; girò quel capo delle tempeste, oltre il quale l’anima che non vi giunse accompagnata è costretta a rimaner sola per tutto il rimanente del suo viaggio sul mare della vita.
C’era bensì il Gallegos, l’amante spregiato della prima giovinezza, pertinace nell’età matura, tanto più ardente quanto più taciturno e chiuso in sè stesso. Ma lo Spagnuolo, a lei fanciulla increscioso, non si impadronì più mai del cuor della donna. Tra quelle due anime fu sempre un abisso; e se le cime apparivano raccostate, il torrente romoreggiava sempre nel fondo, scavandolo sempre più addentro. I lettori rammenteranno ciò che la marchesa di Priamar scriveva al Montalto fin dal 1843: «Quegli che voi chiamate lo Spagnuolo, è in Genova; sì certamente, ma che importa a me? Egli è qui venuto, ma colla tonaca nera della Compagnia di Gesù, ch’egli ha indossata da ott’anni. Ho avuto a parlargli una volta. Egli non è più l’uomo di prima, nè credo ricordi il passato; ma se ciò pur fosse? Lilla non lo ha amato mai, lo sapete; ed ora ambedue non amiamo, non adoriamo altro che Dio. Questo è, io credo, il primo e l’unico punto di contatto che possano avere le anime nostre.» Ed aveva scritto il vero, e vero rimase pur sempre. Anche rammentando gli antichi amori dello Spagnuolo, fors’anco trapelando che non erano spenti, Lilla accolse il gesuita come un venerabile amico, il quale per tal modo si fece consigliero ed arbitro in casa sua, ed ella riuscì a non iscorgere altro in lui che l’amico, a riverirlo come un padre spirituale, in quella che pur lo temeva, come si temono instintivamente tutti gli uomini di gran levatura, di troppo gagliarda tempra per l’indole nostra più mite.
E Bonaventura, frattanto, col suo segreto chiuso nel cuore, portava la catena ch’egli medesimo s’era imposta votandosi agli ordini ecclesiastici, e corrucciato di quella immobilità volontaria, ma altrettanto pauroso di muovere un passo verso di lei, rimaneva muto, rannuvolato, scontento, sull’orlo dell’abisso.
Triste cosa, facile a dirsi, come il nome scientifico di certe orride malattie, solo che s’abbia dimestichezza colla struttura dei vocaboli greci e latini, ma terribile a sentirsi, chi n’abbia dentro di sè la malnata radice! Vivere, ombra eterna, accanto ad una donna fieramente amata; non poterle dir nulla: non vedere, non sentir nulla che raggi da lei e risponda alla fiamma che vi consuma; ardere e sentir freddo dintorno a voi; la vostra energia sempre viva e gagliarda spandersi da tutti i pori come un fluido magnetico, ma non poter correre una spanna più oltre, aggrumarvisi intorno, come il vostro alito denso in una regione di ghiacci eterni; orribile vita! Forte al cospetto del mondo, anima nata per comandare altrui, Bonaventura era debole innanzi a quella donna, non più giovine, già sparsa di rughe accusatrici e di capelli bianchi alle tempie. Lo spirito del male aveva la sua punizione in sè stesso. Se lo avessero saputo nel campo nemico!
Scriviamo per lettori i quali intendono questi viluppi del cuore umano, e non ci fermeremo a distrigarli con sottigliezze psicologiche. Quell’uomo così fortemente innamorato si struggeva di cogliere in fallo la donna amata. Che cercava egli? che sperava? Forse un istante d’ira feroce che gli desse ardimento a ferire un gran colpo, a farle paura, ad ottenerla colla violenza. Ma quella donna era muta, fredda invincibile, come una sfinge di granito. Però nell’amore di Bonaventura a lungo andare, s’era infiltrato l’odio; quel vino poderoso (ci si consenta il paragone) s’era inacetito nel vaso. Torturato nel profondo, pigliava un aspro diletto a torturare anche lei; mancandogli un fallo recente, almanaccava a rintracciarne un antico. De’ suoi amori con Paris Montalto non aveva potuto sincerarsi mai, e la dolcezza di sale dell’aristocratico annotatore del Parafulmine lo faceva talvolta sorridere di compassione, tal altra uscire in maledizioni contro la umana sciocchezza. In quello spicilegio di errori e di colpe, di debolezze e di nequizie, c’era ogni cosa, salvo quel tanto che a lui metteva più conto sapere.
Ma il vecchio geloso aveva tutte le sottigliezze dell’inquisitore. Fiutata la colpa, andò difilato sull’orme; pose a raffronto le date; seguì il tenue filo delle ricordanze; pronunziò accortamente un nome d’estinto; notò gli atti e i sospiri; la parola e il silenzio gli giovarono egualmente. Il ripesco c’era stato; bisognava averne le prove. E i lettori già sanno in che modo il superstite dei Gesuiti genovesi, il vendicatore della espulsa compagnia, il capitano dei neri, tra i segreti dei rossi, tra i lembi scoperti del loro passato indovinò, e nelle battaglie del suo partito combattendo le sue, giunse a leggere il grande arcano, così gelosamente custodito fino a quel giorno nella casa di Lorenzo Salvani.
La sera del 29 giugno, nell’ansia della duplice lotta in cui s’era impegnato, tra le mille necessità di un’azione previdente e sollecita, egli non ebbe tempo ad assaporare i frutti della sua triste vittoria. Ma, per quel tanto che aveva a fare, una scorsa fuggevole al carteggio di Lilla, bastò. E il suo disegno fu pronto; condurre la marchesa, che era dama di misericordia, in casa Salvani, e trarne via la fanciulla.
Il colpo era audace; nella mente di un uffiziale della giustizia sarebbe stato agevole collegarlo con quell’altro dei falsi carabinieri. Ma Bonaventura era e sapeva d’essere onnipossente in certe anticamere, dove la legge è soverchiata dalla opportunità. Chi, degli offesi, avrebbe potuto farsi udire lassù? Chi, dei vendicatori, avrebbe voluto render giustizia, spontanea, a gente nemica dell’ordine? Da un pezzo è stato detto, le leggi esser come le ragnatele, che i moscerini vi restano impigliati, e i mosconi le sfondano.
Condotta da lui, indettata da lui, la dama di misericordia andò in quella notte in casa Salvani. Quel che avvenisse, s’indovina. Maria vide quella donna così austeramente bella, che, senza saperlo, senza formarsene un concetto nell’animo arrossiva dinanzi a lei; la guardò lungamente, mentr’ella le parlava con quell’accento soave e lievemente turbato; nel suo cuore fu un risvegliarsi confuso di sensi ignoti dapprima; sentì la voce del sangue, e spinta da una virtù inconsapevole, riparò sotto l’ala materna, senza pensare se ella avrebbe potuto, se pure avrebbe voluto proteggerla.
Il mattino vegnente, la fanciulla entrava di buon grado nel convento di San Silvestro, dove la superiora delle Clarisse l’accoglieva come una raccomandata della marchesa di Priamar, come una povera orfana, la quale sentisse nell’animo la vocazione di prendere il velo, sotto gli auspicii di santa Chiara. S’intende che una simigliante vocazione non era manifestata da Maria. La marchesa, tra mille soavi esortazioni, le aveva dimostrato il convento come un luogo di rifugio e di aspettazione. La povera fanciulla era affranta da tutto ciò che le era avvenuto il giorno innanzi, dai casi di quella notte, e dal non saper nulla di Lorenzo, dopo il tentativo della sera. Bonaventura aveva parlato, in sua presenza alla marchesa, di una mischia in piena regola, di morti e feriti, della presa e dell’abbandono di un fortino, di prigionieri fatti in gran numero, e la fanciulla aveva sentito un’acerba stretta al suo cuore, già travagliato da un’ansia febbrile. Che era egli mai avvenuto di Lorenzo, dell’unico suo protettore, dell’amico d’infanzia, dell’uomo a cui poche ore innanzi aveva detto il segreto dell’anima sua? Forse morto; forse in carcere, e condannato a tristissima fine! Sì davvero, il convento era un rifugio a tanta ad ineffabile angoscia.
E la marchesa, intanto? Che cosa le aveva detto Bonaventura? Tutto e nulla. Le sue parole avevano fatto intendere alla marchesa com’egli fosse consapevole dei natali dell’orfana. Lilla, che, alla vista di Maria, all’udirne il nome, al considerarne la giovinezza, s’era fieramente turbata, non ardì chiedere di più. E quando il gesuita, lasciando cader lentamente le frasi, toccò di alti natali, d’un segreto domestico di diciott’anni addietro, la nobile dama si fece tutta di fuoco nel viso, e tremò ch’egli proseguisse. Ma quel primo assalto bastava per quella volta al gesuita; si morse il labbro, e non disse più altro.
Quale aspra battaglia combattessero l’amore e lo sdegno nel cuore di Bonaventura, allorquando egli, raccoltosi finalmente nel silenzio della sua cameretta, si recò in mano il carteggio di Lilla, non istaremo a dir noi. Le forti commozioni si accennano, non si dipingono. Lesse e rilesse quelle pagine ingiallite dal tempo, e si abbeverò largamente di fiele. Rivide là dentro sè stesso, giovine, invaghito di quella donna, e posposto al suo nobile rivale. Ma lo aveva ella amato veramente, il Montalto? No; quella fiammata di gioventù s’era spenta al partire di lui, e Lilla era andata sposa al marchese di Priamar senza rimpianto per l’uno, senza amore per l’altro. E poi.... e poi!... Bonaventura avrebbe fatte in pezzi quelle pagine, se insieme avesse potuto distruggere quella ebbrezza di sensi che aveva tratto colei nelle braccia di Paris. Ed ella non lo amava! Ciò che avvenne di poi, lo dimostrava apertamente. Ma allora, perchè un altro amore, un’altra sollecitudine, un’altra agonia, veementi del pari, se non forse di più, non avevano ottenuto uno sguardo da lei, non avevano scaldato un tratto quel simulacro di donna? A Bonaventura il raffronto, anche lontano, cuoceva. Un altro! un altro! Non lo ha amato, lo ha respinto più tardi crudelmente da sè; ma che rileva ciò? Ella è stata sua un giorno, sua, tutta sua!
E l’amarezza s’era accresciuta in cuore al Gallegos, dopo quella lettura. Come avrebbe egli incalzata la sua preda? Pregare, inginocchiarsi, egli, dopo ciò che aveva letto? La odiava troppo, in quel punto. L’arma terribile gli era venuta alle mani, ma il furore ond’era invaso, gli impediva di usarla con frutto. Aspettò, ma fremendo, ruggendo dal profondo del cuore, come un vulcano che stenti ad erompere. E i fremiti, i ruggiti di quel cuore erano tronche frasi, lontane allusioni al passato, le quali facevano tremare ad ogni istante la marchesa di Priamar. La fanciulla che avevano salvata in due gliene offriva argomento ogni giorno. E Lilla taceva, non chiedeva mai nulla, nascondendo la sua ansietà sotto le apparenze d’una pietosa sollecitudine per quella loro protetta, che ella andava a visitar di sovente, ma senza dirle alcuna di quelle parole in cui si manifesta il cuor d’una madre; e anch’essa, come il gesuita, non risolvendo mai nulla.
— Ella si vergogna, — pensava il fiero Spagnuolo; — argomenta ch’io sappia ogni cosa, ma teme ch’io parli; ama sua figlia, ma trema pel suo buon nome nel mondo. Animo, dunque, ella è mia. —
Con questo fermo proposito, il padre Bonaventura, un giorno di settembre, metteva il piede nel salotto della marchesa di Priamar.