I rossi e i neri/Secondo volume/II
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II.
Dove si legge come andasse a finire l’impresa di Lorenzo Salvani
Il nostro giovinotto era stato poco dianzi dal capo della rivolta, ed aveva avuto un lungo colloquio con esso lui, tanto per indettarsi d’ogni cosa che avesse a fare, quanto per istabilire i modi più adatti a collegare l’impresa col centro dell’azione, e poterne avere, ad ogni occorrenza, consiglio od aiuto.
Per ciò che si riguardava a lui, comandante di quella perigliosa fazione, egli doveva andarsene al suo ritrovo di Prè. Colaggiù avrebbe trovato cento uomini, con armi e munizioni giusta il bisogno, parte raccolti al pianterreno di una casa a lui già nota, parte in uno stambugio, o cantina, o stalla che fosse, di rimpetto alla casa anzidetta, donde, per la strettezza del vicolo, avrebbe potuto agevolmente, e senza pericolo, comunicare ad ogni ora, ad ogni istante, con essi.
Questi cento uomini posti sotto il comando di Lorenzo, erano divisi in due drappelli, ad ognuno de’ quali erano assegnati due uffiziali, scelti tra i più animosi e tra i più esperti dallo stesso Salvani. Il primo drappello, che doveva esser raccolto al pianterreno della casa sovraccennata, era guidato da due ottimi popolani, il Martini ed il Fresia, uno dei quali aveva fatto le campagne del 1848 e 1849, e l’altro, di fresco uscito dal servizio militare, conosceva benissimo il fatto suo. Al secondo drappello era preposto un Nava, lombardo, anch’egli prode soldato e un Doberti, genovese, giovine, adolescente quasi, ma ardito e volenteroso che nulla più. Seguivano i capi squadra, che non istaremo a nominare, i quali ripetevano il loro grado e l’ufficio da cotesto, che eglino avevano, ciascheduno per sè, tirati nell’impresa e raccolti a manipolo gli amici.
Il tentativo della Darsena doveva cominciare al segnale convenuto per l’azione simultanea di tutti i centri particolari della rivolta in città. E il modo in cui questo tentativo aveva ad esser condotto, non è da raccontarsi in queste pagine. Basti sapere che, oltre ai mezzi consueti della guerra, c’era un sottil stratagemma, immaginato da Lorenzo ed approvato dai capi; i quali, poi, facevano assegnamento sopra altri spedienti e fortunate combinazioni, che nemmeno s’hanno a dir qui a guerra finita, anzi neppure cominciata.
Nell’andare al ritrovo e dovendo passare per le vie più popolose di Genova, Lorenzo si stupì di non veder più gente del consueto a passeggio. Gli pareva che a quell’ora sull’imbrunire, e con tutta quella carne in pentola, dovesse notarsi in città maggior brulichio di persone. Ma tosto si fece a pensare che, essendo già forse tutti gli uomini più deliberati al loro posto, quella tranquillità delle vie poteva essere un buon segno; e con questo pensiero in mente giungeva nel vicolo, dov’era la meta del suo viaggio. Colà gli avvenne come ai destrieri generosi, che l’odor della polvere da cannone li scuote, li rinfranca, li rende più baldi. La lotta era imminente; il pericolo incominciava: Lorenzo rizzò alteramente il capo, e l’animo suo si riebbe, si fece pari all’altezza dei casi.
Dopo avere sbadatamente alzati gli occhi e sbirciata una scritta, entrò difilato in un andito buio. Esperto come era del luogo, si inoltrò con passo sicuro fino alla svolta di una parete: trovò brancicando un uscio, e bussò leggermente due volte.
- Chi è? - gli fu chiesto di dentro.
- Patria! - rispose sommesso, accostando le labbra alla commettitura dell’imposta collo stipite.
A quella parola, magica come il famoso Sesamo di Ali Babà nelle Mille e una notte, l’uscio si aperse, e il Salvani entrò prontamente nel vano.
- Il comandante! - disse una voce.
- Ah, siete voi, Martini? Buona sera! I nostri uomini ci saranno già tutti, a quest’ora....
- Magari ci fossero i due terzi, ed anco la metà, che sarebbe tanto di guadagnato! - rispose il Martini. - Io ci ho il sospetto che molti siano dal notaio a far testamento, e non giungano che a pappa fatta.... se pure non sarà una frittata.
Quest’ultima parte del periodo, il Martini se la tenne tra’ denti, e noi la riferiamo, tanto per dipingervi l’uomo. Ex ore tuo te judico, dice il proverbio latino. Il Martini, come le sue parole dimostravano, era un capo ameno, se altro fu mai, sempre ricco di facezie, strambotti ed altre piacevolezze, anche nei momenti più gravi; vero tipo di popolano genovese, col suo ingegno naturale e non senza una certa coltura letteraria, frutto di buona volontà, anzichè di studi fatti. Aveva trentacinque anni; era scapolo; aveva combattuto in Lombardia, ed era giunto al grado di sottotenente nella difesa di Venezia; tornato in patria, aveva ripigliato il suo antico mestiere di bottaio, e cacciava innanzi i cerchi a colpi di mazzo, colla medesima ilarità, colla medesima lena operosa, con cui s’era guadagnato il cerchio di filo d’argento, intorno alla fascia della sua berretta da volontario. Nè tra il pialletto, la spina, il mazzo, il cocchiumatoio e gli altri ferri dell’arte sua, dimenticava la politica, vero ed unico ferro, stiam per dire, dell’anima sua. Nelle ore d’ozio, leggeva sempre; si metteva quotidianamente in corpo l’Italia del Popolo, il Movimento, e quant’altri fogli stampati gli capitassero sotto le mani; nè soltanto li leggeva, ma vi faceva le sue chiose, e se mai lo scrittore gli usciva di riga, avevate a sentirlo, come lo pettinava colla sua lingua! Ma quando, per contro, gli andava a’ versi una cosa, non c’era santi a levargliela di testa, e si sarebbe buttato nel fuoco, se ciò fosse bisognato a provare che aveva ragione. Pensava col suo capo, insomma, se talvolta operava secondo il cenno degli altri. Nella rivolta, verbigrazia, egli c’era, non tanto perchè questa gli piacesse, o gli sembrasse sicura, quanto perchè molti succianespole, diceva egli, molti ciarloni, buoni a nulla, non parlavano d’altro che di menar le mani, ed egli voleva vederli un po’ da vicino, i larghi promettitori, e fare a chi lavorasse più sodo. Il Salvani, severo, scarso di parole, gli era piaciuto; nè meno era piaciuto egli, col suo carattere schietto ed aperto, al Salvani, che anzi lo aveva voluto della sua banda, e suo primo uffiziale.
Alle parole del Martini, Lorenzo aveva crollato il capo e dimenate le labbra.
- Diamine! - esclamò egli, dopo una breve pausa. - E quanti sono?
- Qui venticinque, ed Ella fa ventisei. Là di rimpetto, or fanno tre minuti, erano diciotto. Ora ventisei e diciotto, se bene ho imparata l’aritmetica, fanno quarantaquattro, e da quarantaquattro a giungere sui cento, mancano ancora cinquantasei. —
Lorenzo si fece scuro in volto, e in cambio di dimenar le labbra, come aveva fatto prima, le morse, in un impeto di suprema amarezza.
— Per fortuna, — diss’egli poscia, quasi volesse ingannar se medesimo, — non sono appena le otto e mezzo, e gli amici possono capitare da un momento all’altro.
— Sì, aspettiamoli, questi veri Italiani! — soggiunse il Martini, accompagnando la sarcastica frase con un moto ondulatorio del suo atletico torso. — Ah, comandante! Noi in Italia, sia detto con sua licenza, siamo di gran chiacchieroni, col nostro Elmo di Scipio irrugginito e coi nostri giuriam! dove non si mette altro che il fiato. E la veda, non mi fa mica meraviglia che siamo così pochi alla posta. Io n’ero così certo, come della esistenza del figlio unico di mia madre. Ma, per l’anima del Ferruccio, e di tanti altri valentuomini che si citano così spesso e volentieri, io sono stupefatto di non veder qui certi ammazza sette e storpia quattordici, che gli sapeva mill’anni di far le schioppettate, ed erano sempre lì a spingere, a tacciar gli altri di mala voglia. Se mi cascano sotto l’ugne, questi figli di Bruto....
— C’è il Garasso? — chiese Lorenzo, che metteva i nomi dove il Martini non aveva messo altro che gli epiteti. — E il Dellaquinta e il Gasperini, ci sono?
— Neanche l’odore! — rispose il buon popolano. — Già, del Garasso ho sempre dubitato, io, e metterei la mano sul fuoco che egli è una spia.
— Che cosa dite, Martini?
— So quel che dico, e glielo ripeterò a lui, e gli romperò anche il grugno, se ardirà farsi vivo. Quanto agli altri due, non ci hanno altro peccato che la vanità, ed è questa che li fa uscire in tante smargiassate. In fondo son disperatacci che vorrebbero aver quattro soldi, e farebbero patto di non metter più elmi di Scipio, nè giurar morte ai tiranni, per tutto il tempo di lor vita.
— E il Tarlati, e il Geremia?
— Oh, ci sono, questi due, ci sono; ma il primo, mogio mogio, s’è accovacciato nella paglia e dorme dalla paura; il secondo è ubbriaco fradicio, e non fa che rompere il capo alla gente. Lo senta; grida come un dannato. —
E accostandosi ad un uscio semichiuso, donde giungeva ai due interlocutori dell’anticamera un suon confuso di gente raunata, lo spalancò gridando:
— Zitti là, che vi farete sentire di fuori! Ecco il comandante! —
Lorenzo Salvani entrò allora in una stanzaccia male rischiarata da una lucerna a beccucci, posata nel mezzo d’una gran tavola d’osteria, e da due o tre moccoli di candele steariche, piantati nel collo di altrettante bottiglie vuote. Lucerna e candele avevano tanto di moccolaia fungosa, che dava assai più fumo che luce, nè certo aiutava a diradare la nuvola fitta che l’assiduo fumar delle pipe aveva formata sulle teste dei congregati. I quali sedevano, in numero di quattordici o quindici, intorno alla tavola, piena stipata di fiaschi, bottiglie, bicchieri, picce di pane e fette di salame qua e là distese su brandelli di carta. Altri parecchi dormivano della grossa sdraiati lungo le pareti, sopra alcune bracciate di paglia, e se n’udiva il russo accompagnare le voci avvinazzate dei più verbosi seduti.
Un altro dormiva a gomitello, su d’un angolo della tavola, non udendo lo strepito che gli si faceva alle orecchie; due o tre altri comparivano dal vano dell’uscio di una camera vicina, dov’erano le armi, in atto di sperimentare lo scatto dei fucili, o le lame delle sciabole, che erano là dentro in quantità. E le voci alte e fioche dei seduti, l’acciottolìo de’ bicchieri, lo strepito delle armi e il russo de’ dormenti, facevano una babilonia da non dirsi a parole.
All’apparire di Lorenzo tutto quel frastuono cessò. — Il comandante! — fu la parola che corse sommessamente lungo le sponde della tavola.
— Il comandante? — ripetè, ma più alto, una voce fessa e impacciata dal vino. — Viva il comandante, e si beva alla sua salute!
— Zitto, Geremia! — gridò il Martini. — Tieni la tua parlantina per questa notte.
— O come, sor tenente? voi togliete la libertà della parola? — chiese con un ridevole strascico di frasi il poco biblico Geremia. — Non siamo qui radunati per salvare la libertà, noi? La libertà è libera, io dico; viva la libertà! Parlo bene, o parlo bene? —
Il comandante, a cui era rivolta questa burlesca domanda dell’ubbriaco (e lo dimostrava il gesto di Geremia, che accostava militarmente la palma rovesciata dalla mano alla visiera del caschetto), rispose asciuttamente:
— Sì, avete ragione; ma se fate chiasso fin d’ora, darete la sveglia ai nemici, e non si potrà più far nulla, per questa povera libertà.
— Ben detto! ha ragione il comandante! — soggiunsero molte voci.
— Ma, io dico.... — balbettava Geremia. — Io dico che l’uomo....
— È ubbriaco! — proseguì un altro, daccanto al beone, dandogli sulla voce.
— Ubbriaco io? io che ho bevuto appena tre bicchieri di vino?
— Bevine un quarto, — interruppe il Martini, — e falla finita. Se ti garba, potrai andar sulla paglia, a tener compagnia al Tarlati, che russa come un contrabasso. —
In quel mentre si udì picchiare all’uscio. Il Martini andò ad aprire, colle solite cautele. Erano altri cinque che giungevano al ritrovo.
— Trentuno! — disse il tenente. — Vuol forse Ella che io vada a dare un’occhiata agli altri, nella cantina di rimpetto?
— Sì, da bravo. Martini, andate! —
E ciò detto, Lorenzo si diede a passeggiar per la camera, dopo aver accettato dalle mani di uno della brigata un bicchiere di vino, del quale non bevve altro che un sorso. Poco stante, fu di ritorno il tenente.
— Orbene?
— Ventiquattro laggiù, e con questi trentuno, cinquantacinque in tutto.
L’animo di Lorenzo s’era già acconciato a questa mala sorte; epperò il giovane comandante non si fermò a fare altre malinconiche considerazioni sulla scarsezza del numero. Entrato in una cameretta attigua, insieme col Martini e col Fresia, chiamò i sott’ufficiali presenti all’appello, per far la nota dei congregati e dividere, come si poteva la meglio, le squadre. Erano smilzi manipoli, ma bisognava contentarsi. Quanto agli uomini che ancora potevano giungere innanzi l’ora della mischia, Lorenzo comandò che dovessero entrare nelle squadre meno numerose.
Non dissimilmente si adoperò nella casa dirimpetto, dov’erano uffiziali il Nava e il Doberti. Intanto, i seduti a desco e i dormenti sulla paglia furono chiamati a star su, salvo tre o quattro che, non potendo reggersi pel vino cioncato, sarebbero stati d’impaccio anzi che d’aiuto ai compagni; e si venne alla distribuzione delle armi e delle cartucce.
Parecchi si lagnavano che i fucili fossero grami. E certamente avrebbero potuto essere migliori. La più parte eran a martellina, colla pietra focaia; lo scatto in alcuni era troppo duro, e a far battere il cane sulla martellina occorreva il pollice di Alcide; in altri non c’era verso che volesse stare sulla tacca di riposo: tutti avanzi di botteghe di armaiolo, eredità di guardia civica, notevoli a vedersi per le fascette e i guardamani di ottone.
— Ma questi son cassoni, non fucili! — diceva uno.
— Che cassoni? — soggiungeva un altro. — I cassoni son buoni da ardere, e questi non farebbero fuoco neanco a scaldarli in un forno.
— Ci vuol pazienza, amici! — diceva Lorenzo, che incominciava a perderla. — Voi sapete che la rivoluzione non è ricca; i fucili buoni potrete guadagnarveli là, dove andremo; ce ne sono di eccellenti.
— Cattivo soldato, — aggiungeva il Martini, — cattivo soldato quegli che si lagna del suo fucile, quando ci ha una baionetta da poterci innestare! —
In questi ragionamenti e in queste operazioni, erano giunte le dieci. E segnale nessuno! Parecchi incominciavano a mormorare. Che si fa? che si aspetta? Lorenzo aspettò ancora una ventina di minuti; poi, chiamato a sè uno dei più impazienti, lo mandò, con un suo biglietto, a chieder notizie al quartier generale.
— Vado e torno! — aveva detto il messaggero. Ma un quarto d’ora passò; passò mezz’ora; suonarono finalmente le undici; e il messaggero, che s’era veduto andare, non fu visto tornare. Egli aveva fatto come il corvo dell’Arca.
Allora il comandante fece quello che aveva fatto Noè; aspettò un altro poco, e pregò il Martini che volesse andar lui. Questi almeno sarebbe tornato.
Frattanto i capisquadra duravano gran fatica a trattenere i loro uomini. Taluni più chiassosi (gente di malavoglia, diceva il Martini) se la pigliavano coi capi della rivolta, sbraitavano contro i vili che non erano venuti al ritrovo, e bestemmiavano, sacramentavano d’esser stati traditi.
— Le bestemmie non colmano il vuoto; — diceva Lorenzo. — Cinquanta uomini volenterosi e gagliardi ne valgono cento. Quanto a ritardo, sapremo tra poco che cos’è; del resto, se avete voglia di fare, io ne ho quanto voi, e nasca quel che sa nascere, appena tornato il Martini, usciremo noi, la romperemo da soli! —
Queste parole calmarono gli spiriti più irrequieti; che anzi, parecchi incominciarono a dire sommessamente che non c’era gusto a muoversi da soli, e, mentre tutti gli altri se ne stavano colle mani alla cintola, andare a morte certa pel loro bel muso. E questa fu in breve l’opinione di tutti. Ma non ardivano parlarne ad alta voce; il comandante, a cui forse non era sfuggito quel nuovo giro dei loro pensamenti, s’era fatto scuro nel volto come un’imposta chiusa; egli andava accarezzando con troppo amore il calcio della sua rivoltina, che portava nelle tasche della giacca, e bisognava star zitti. Ma allora fu un’altra scena; chi si doleva dell’aria soffocata di quel pianterreno, ermeticamente chiuso; chi si rimetteva a bere, per guadagnarsi la fortuna dei quattro o cinque, lasciati sulla paglia a dormire. I meno vergognosi, poi, imitavano gli scolaretti che non sanno durarla con un’ora di lezione, e chiedevano, per una ragione o per l’altra, di uscire.
Finalmente fu picchiato all’uscio; era il Martini che tornava da far l’ambasciata, e, come la colomba dell’Arca, portava un ramoscello d’olivo. Il colpo era fallito; non c’era più nulla a tentare.
La cosa parve strana a Lorenzo, che fu sollecito a chiamare in disparte il suo luogotenente, e a farsi raccontare ogni cosa per filo e per segno. Il Martini era andato senza risico, passando pei vicoli, e cansando le vie principali, fin dove gli aveva accennato il comandante. Colà egli non aveva potuto abboccarsi col capo, che stava a stretto colloquio con altri. Per contro, aveva parlato con taluni dello stato maggiore (e ne citava i nomi) dai quali aveva udito che non c’era più rimedio: che lo Sperone non s’era potuto prenderlo: che il presidio era tutto in armi, ed occupava militarmente le vie della città; che finalmente non c’era più nulla a fare, e ognuno pensasse a cavarsela.
A Lorenzo non bastavano quelle notizie. Non che dubitasse del Martini, o che avesse fede nella possibilità del tentativo; ma, con una sì grave malleveria sulle spalle, voleva sincerarsi del contr’ordine, co’ suoi occhi, colle sue orecchie medesime. Però, ceduto il comando all’ottimo popolano, e ordinato che la gente non si movesse dal posto, salvo il caso di suprema necessità (del resto il luogo aveva due uscite, l’una per l’andito che i lettori conoscono, l’altra dalla porticina d’un orto attiguo) uscì da quella casa per andare a sua volta al quartiere generale.
Verissima in ogni parte la relazione del luogotenente; il colpo era fallito. E ciò saputo dalla bocca istessa dei capi, Lorenzo rifece con pronto passo la sua strada, per andare a sciogliere i suoi, che lo aspettavano. Passato speditamente per la via del Campo e la porta dei Vacca, entrò nella via lunga ed angusta di Prè, dove già tutte le botteghe erano chiuse da un’ora, ed egli non si abbattè in anima nata, salvo in qualche ubbriaco, che proseguiva in lunedì il tripudio vinoso della domenica.
Così giunse alle spalle del palazzo reale; andò oltre; ma quando fu presso al vicolo, nel quale aveva a commettersi, gli ferì improvvisamente l’orecchio un rumore di passi, e uno strepito d’armi.
Era di sicuro un drappello di soldati. Tornare indietro e giuocar di calcagna? No certo, sebbene fosse quello il più savio consiglio. E i compagni? non doveva egli andare a cercarli, e, se erano scoperti, partecipare alla loro sorte? La sua deliberazione fu pronta: impugnò, senza cavarla tuttavia di tasca, la sua rivoltina, e affrettò il passo per entrare nel vicolo.
Ma egli aveva a mala pena svoltato l’angolo, che si udì gridare sul volto:
— Alto là! —
E innanzi che avesse potuto misurare la gravità del pericolo, si vide attorniato da un manipolo di soldati.
— Dove va Ella? — chiese il sergente che comandava la squadra.
— Pe’ fatti miei; — rispose asciutto Lorenzo.
— Ah diamine, Sal....! siete voi? — gridò, balzando fuori a quelle parole del giovine, un uffiziale che era rimasto alcuni passi indietro.
— Nelli di Rovereto! — sclamò Lorenzo, ravvisando il capitano.
— Sì, per l’appunto, Nelli di Rovereto, che naviga in questi paraggi per comando del suo generale, e non avrebbe a lodarsene punto, se il caso non lo facesse imbattere in un volto d’amico. —
Ciò detto, il capitano si volse al sergente, che si era tirato in disparte co’ suoi, per concedere alcuni minuti di riposo, mentr’egli stava ragionando con quel suo conoscente.
— E adesso a noi; — proseguì, tirando Lorenzo sull’angolo della strada. — Dove andate così frettoloso, mio buon Salvani?
— Passeggiavo; lo vedete.
— E avevate paura (scusate, dico paura, così, per modo di dire) e avevate paura dei ladri?
— Perchè? — dimandò stupefatto il Salvani.
— Perchè, — soggiunse, abbassando ancora la voce, il Rovereto, — perchè vi siete armato della vostra rivoltina, che vi fa un gomito traditore nella falda della giacca.
— Credete che fosse proprio paura dei ladri? — chiese Lorenzo, sorridendo.
— Non vi dirò quel che io credo, come voi non mi direste quello che è. Smettiamo dunque un simile discorso; e andate, che io non voglio trattenervi.
— Grazie! — rispose Lorenzo, stringendogli fortemente la mano. E fece per andar oltre; ma il capitano lo trattenne ancora.
— Intendiamoci, Salvani; non per di qua. Tornate indietro, e sarà meglio per tutti.
— Non posso; o lasciatemi passare, o fatemi arrestare senz’altro. —
Il buon capitano, che amava molto Lorenzo, avendolo conosciuto prode e gentil cavaliere in quella occasione che i nostri lettori rammentano, stette alquanto sovra pensiero; quindi, mettendo amorevolmente le mani sulle braccia di lui, e guardandolo fisso in volto, gli chiese:
— Che cosa sperate oramai?
— Nulla! — disse il Salvani.
— Dunque?...
— Dunque lasciatemi andare per di là, dove ho alcuni amici da vedere; e sarà, ve lo giuro, senza pericolo per la causa alla quale servite.
— Lo credo; ma se fosse, come io penso, con pericolo vostro?...
— Che importa? Non badate a ciò, e lasciatemi andare.
— Dovunque vi piacerà, salvo al numero otto.
— Che? — esclamò il giovine, piantando a sua volta gli occhi in viso all’amico. — Voi sapete....
— Ogni cosa. So, verbigrazia, che laggiù non trovereste più alcuno, salvo una mezza compagnia di soldati che custodisce le porte, e una mano d’altri personaggi, meno riguardosi coi loro avversari politici, i quali vanno rovistando dappertutto, per trovare una carta.... che non c’è.
— Ah! — disse Lorenzo. — E gli amici miei....
— State di buon animo! — interruppe il Nelli. — L’uffiziale di pubblica sicurezza aveva fatto male il suo piano di battaglia, e ha assalito il nemico senza chiudergli la ritirata. Io m’ero avveduto bensì dell’errore; ma non era affar mio. L’intento del soldato era di sgominare da questo lato i vostri disegni, e questo io l’ho fatto. Sono entrato per l’androne, mentre i vostri sgattaiolavano dalla parte del giardino; ho atterrato l’uscio, e sono anche stato il primo a metter il naso in una certa cameretta, su d’un certo tavolino....
— Proseguite!
— Dov’era un certo foglio di carta.... una specie di ruolino di compagnia.
— L’avevano dimenticato! — disse Lorenzo con accento di dolore.
— Sì, ma gli è caduto in mia mano, e mi servirà per accendere Biancolina, una eccellente spuma di mare, che consola i miei ozi pomeridiani.
— Grazie! — soggiunse Lorenzo, respirando; — grazie, non per me, ma per gli altri!
— Che diamine! — disse di rimando il Nelli. — Siamo amici, o non siamo? Io fo il soldato e non lo sgherro; combatto, non lego. Se vi avessi incontrati in armi, avrei comandato il fuoco; il resto non mi risguarda, e se c’è un amico di mezzo, mi adopero a salvarlo. Ma badate, Salvani; voi siete accennato a palazzo Ducale come uno dei capi della rivolta; si citava appunto il tentativo della Darsena come una impresa che doveva esser guidata da voi. Perciò, come addetto al comando generale, ho scelto di venire da questa parte, e la fortuna, che ama i soldati, quando non fa buscar loro una palla in petto, mi ha usato cortesia da gentildonna. Or dunque, io vi consiglio a non tornare in casa vostra, questa notte. Avete amici a cui chiedere ospitalità? andate da essi; io non vi ho veduto, non vi conosco. —
E finita la sua orazione, il cortese capitano profferse la mano, in atto di commiato, al suo avversario.
— Voi avete un cuor d’oro, signor Rovereto! — disse il Salvani, stringendo quella mano tra le sue.
— Che! che! Se foste voi ne’ miei panni non fareste lo stesso? Non imitereste l’esempio di que’ due amici dell’antichità, che, incontratisi in campo, si strinsero le destre, in cambio di uccidersi, e barattarono le armature? Glauco e Diomede! Bei nomi! E i tempi in cui vivevano di tali valentuomini, ora si chiamano barbari!
— Siete tutti classici, quest’oggi! — notò, sorridendo, il Salvani. — Il Pietrasanta, stamane, pensava all’Eneide; voi questa sera mi citate l’Iliade. Il fatto è che gli uomini generosi e cortesi sono di tutte le età, e niente c’è di nuovo sotto il sole, nemmeno la tolleranza scambievole delle opinioni, che ha in voi un così nobil campione.
— Ah, Salvani, Salvani, se comandassimo noi?
— Che cosa fareste, se comandaste voi, Rovereto?
— Io?... Vorrei anzitutto che non ci fosse più un palmo di terra italiana, dove rimanessero tirannelli a dividere, e forestieri a comandare.
— Mi accorgo che vorreste aver me per capo della maggioranza.
— E mio collega al ministero! Che bella cosa si annunzierebbe alla nazione! Un ministero Rovereto Salvani.... Diamine! mi pare che rimangano molti portafogli senza titolare.
— O dove lasciate il Montalto, il Pietrasanta e l’Assereto?
— Avete ragione, perdinci! Saremmo cinque ministri, e i portafogli d’avanzo li terremmo noi stessi per interim. Sarebbe il ministero di San Nazaro, che varrebbe in fin dei conti come tanti e tant’altri. Ottima pensata! ho da sognarne, stanotte! Ma noi, — proseguì ridendo come un pazzo, il capitano, — stiamo qui a ciaramellare, come se avessimo tempo da buttar via. Statemi sano: io torno ai miei uomini.
— Addio, dunque, e ancora una volta, grazie!
— Zitto là; ne parleremo domani. Buona notte! E il Nelli, data una giratina sui tacchi, si allontanò speditamente, alla volta del suo drappello, che aveva avuto dieci o quindici minuti di riposo, in cambio di cinque.
Anche Lorenzo si mosse dal canto suo per andarsene. Ma dove? A casa non era prudente consiglio tornare; perciò gli parve acconcio di andare a chiedere ospitalità presso l’amico Assereto, dal quale avrebbe avuto novelle di casa sua.
Ma l’Assereto quella notte non aveva tenuto fede a’ suoi lari, e Lorenzo fu accolto amorevolmente dalla famiglia di lui, che lo introdusse in una linda cameretta, daccanto a quella dell’assente.
Rimasto solo, il giovine si lasciò andare bocconi sulla sponda del letto, colle ginocchia a terra, ringraziando il Nume ignoto che lo serbava in vita e in libertà.
Egli non pensava a se stesso in quel momento, lo sapete; pensava a Maria.