I rossi e i neri/Secondo volume/III
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III.
Di una corte d’amore, la quale fu tenuta nel secolo decimonono
Messer Lodovico Ariosto, chiamato a buon dritto il divino, non se la cavò neppur egli dai tortuosi meandri del suo meraviglioso poema, se non coll’umile spediente di correre innanzi e indietro senza posa, e, servitore sgobbone di tutti i suoi personaggi (che non erano pochi, nè docili), pigliar questo per mano e guidarlo per un lungo tratto di strada; tornar sollecito indietro e cavarne un altro dal pozzo; voltarsi qua e là, scendere e salire per pianure e montagne, navigar per mare oltre le colonne d’Ercole, volare financo alla luna, ed intricare e districare mai sempre le fila che gli avevan posto tra mani «le donne, i cavalier, l’arme e gli amori».
Lettori, avete capito il latino? Vi abbiamo condotti senza intoppo, o quasi, fino alla prima ora del 30 di giugno, e adesso ci conviene, per le necessità della nostra narrazione, rifarci indietro una mezza giornata. Tante fila s’intrecciano, s’imbrogliano e s’aggrovigliano intorno ai nostri personaggi! Abbiamo veduto come finisse la sua impresa Lorenzo Salvani; ora dobbiamo vedere come finisse la sua Enrico Pietrasanta, tirato a buon trotto dalla sua pariglia di rovani alla villa Vivaldi, nelle vicinanze di Quinto.
Nè basta. Siccome da lungo tempo non s’è più visto in scena Aloise, nè la bella Ginevra dagli occhi verdi, precederemo il Pietrasanta colla nostra fantasia, specie d’ippogrifo che va più veloce a gran pezza de’ suoi baldi cornipedi.
Siamo dunque a Quinto, alle spalle del paese, in quel palazzo che sapete, murato a foggia di castello, con la sua torre che usciva da un lato dell’edifizio, rompendo ad angolo due acque del tetto; in quella magnifica villa, dove vi abbiamo condotti, nella prima parte di queste fedelissime cronache contemporanee, il giorno della prima scampagnata del convalescente Aloise.
Ogni cosa colà, il giardino, il prato, la selva, la campagna tutta quanta, ha mutato d’aspetto, per opera d’una rigogliosa vegetazione. Giacomino, il giardiniere ortodosso che sapete, ha fatto miracoli coll’aiuto della madre natura. Le aiuole, le ampie gradinate dei vasi d’ogni forma e misura, i canestri foggiati in terra sulle falde del prato, risplendono di mille fiori svariati, vaporano mille diversi aromi per l’aria serena. Le camelie, le violette e i giacinti, hanno ceduto il luogo allo stuolo moltiforme della flora d’estate. Le molli ninfee sono fiorite nel laghetto dove scherzano i cigni; le paulonie dall’alto fusto e dal largo fogliame verde cupo, si rischiarano in color di smeraldo alla luce del sole; nè più chiedendo il riparo della veste di paglia, le magnolie mettono al sommo d’ogni ramo le candide bocce pannocchiute dalle sottili fragranze. Ne’ vasi, in bell’ordine disposti, fioriscono cento famiglie di pelargonii, di rose e di garofani, i mugherini indiani e le gardenie del Malabar, che derivano a noi i narcotici effluvii della terra natale. Nelle aiuole crescono gli elitropii dai lunghi e fogliosi steli, gli eliotropii delle cui ciocche odorose le donne gentili amano ornarsi lo sparato del camicino; gli umili mughetti mettono fuori i verdi litui fregiati di brevi campanellini bianchi; gli amorini d’Egitto si tengono modestamente a terra, dissimulando nel verde delle foglioline la poca apparenza dei fiori, ma non la soavità degli odori, gradito compimento, insieme coi dittami, e quasi cornice dei mazzi eleganti; le tuberose scarse di foglie, ma ricche di fiori, torreggiano qua e là; i gelsomini e le gaggìe salgono a spalliera, s’inerpicano lungo le amiche pareti.
Pari alle gaggìe nei loro serpeggiamenti, s’innalzano le asclepie, mostrando su tenui fili quasi innestate le larghe foglie coriacee e i carnosi fiori stellati. Più sfoggiatamente vestiti si levano in alto gli abùtili, e lasciano con leggiadra civetteria ricader mollemente tra i pampinosi tralci le graziose campanelle socchiuse, dai petali giallognoli e bizzarramente venati di scuro. Guardate il prato, com’è tutto d’un bel verde tenero! Qua e là il dolce declivio è interrotto da larghi ed alti ciuffi di foglie ricadenti a ombrello, lunghe, sottili, affilate e pieghevoli come lame di Toledo. È il ginerio argenteo, che protende in aria, su svelte asticciole, e lascia cullar mollemente da ogni soffio i suoi candidi pennacchi, che appaiono (qua la mano, secentisti!) altrettanti colonnelli dell’esercito di Flora. Più in là l’ibisco siriaco e l’africano, cresciuti ad arbusto, schiudono a centinaia i larghi calici bianchi e vermigli, dagli orli vagamente intagliati e dal fondo screziato. Sui margini della prateria, sbucano le iridi dal fitto delle loro foglie gladiate, a far pompa di grossi fiori turchinicci e odorosi. I cacti, orrida famiglia, mostrano, coi fiorellini nati dai dorsi villosi, che anco nel cuor più duro spuntano qualche volta i soavi pensieri. Le agavi americane, colle vaste foglie aguzze e dentate, sfidano il cielo a battaglia. E più lontano ancora, l’orizzonte è celato agli occhi da una fitta selva di salici, di conifere e di piante d’ogni maniera, che descrivono il fondo a quella scena incantevole.
Tutto è allegrezza, tutto è festa, nella ringiovanita natura. Come tutto vive, come tutto si spande, luce, colori, fragranze, armonie! Vedete i campi, aiuole naturali, canestri foggiati capricciosamente nel suolo dal giardiniere invisibile, dove nascono, vivono ed amano migliaia di tenere pianticelle, dalla graziosa pratellina alla severa piantaggine, dalla euforbia ingrata alla cedragnola pietosa, confuse tutte tra ogni maniera di erbe matte, vicino all’utile cicerbita, all’aromatica pimpinella, al timo e al mentastro odoroso, che formano anch’essi il loro giardino! Vedete più oltre l’erica gentile, inconsapevole dell’uso ingrato a cui la condannerà l’industria umana, quando sarà sfiorata e sfrondata; il corbezzolo ed il ginepro, tutti e due ricchi di frutti, a ristoro dei pennuti avventori, e il pino domestico e il selvatico, e gli elci superbi delle non caduche foglie, e il rovere e il sughero, lieti dei nuovi germogli, che tutti descrivono anch’essi il loro fondo a quel complesso di naturali bellezze!
Il sughero! Lo ricordate, o lettori, quell’albero di sughero, che Giacomino, il giardiniere, faceva notare ad Enrico Pietrasanta, il quale, profano quel giorno alle delicature poetiche, lo sentenziò buonissimo per far turaccioli? Ricordate che a’ piè di quell’albero era una tavola di lavagna, con parecchi sedili rustici tutt’intorno? Ricordate che quella era, a detta del giardiniere, la Corte di Amore, così chiamata da gran tempo, e dove tutte le Vivaldi, madre, nonna e bisnonna di Ginevra, avevano sempre avuto per costume di recarsi a passare le ore più calde della giornata? Se ciò v’è rimasto in mente, ricorderete ancora che la bella Ginevra dagli occhi verdi usava starci tre o quattr’ore ogni giorno; che faceva metter cuscini sopra i sedili, un gran tappeto sulla tavola, e una bella tenda tirata fra gli alberi, per custodirsi meglio dai raggi del sole; che Giacomino ci portava fiori; la cameriera dei libri e il telaio da ricamo della marchesa; il servitore dei rinfreschi, e gli amici convitati un subbisso di chiacchiere.
È il tocco dopo il meriggio; la vampa del sole che signoreggia liberamente il prato vicino, non penetra sotto il conserto fogliame degli alberi secolari; e l’ampio velario divisato a liste bianche ed azzurre, sospeso tra i rami sporgenti, vieta ai raggi indiscreti, che hanno potuto trapelare da qualche vano della frasca, di recar molestia alla gentil comitiva. Stridono con monotono metro le cicale su pei tronchi degli alberi soleggiati; le farfalle, screziate di mille colori e cosperse di polverina d’oro, vanno aliando qua e là, lungo le aiuole fiorite; le libellule, dalle svelte forme e dalle ali di zaffiro, si librano a volo sulla superficie del laghetto, che, solcata per ogni verso dalle candide prore dei cigni nuotanti, scintilla in riflessi d’argento.
Vedete ora, seduti al rezzo delle piante che v’abbiam detto, quali su rustici sgabelli di legno, quali su sedili di maiolica, foggiati a pila di cuscini vagamente istoriati, sei o sette gentiluomini. Fanno corona a tre dame, o, per dire più veramente, ad una sola. Le Grazie erano tre, tutte pari in bellezza, per modo che il riguardante rimanesse in forse a cui dare il vanto sulle altre due. Anche queste tre sono belle: ma una più dell’altre a gran pezza; di guisa che voi medesimi, o lettori, chiamati a giudicare, dareste il vostro voto alla marchesa Ginevra.
Padrona di casa, ella non può condurre la cortesia ospitale fino al segno di essere e di apparire inferiore in bellezza, o pari almeno, alle sue nobili visitatrici. La Giulia Monterosso, di cui già vi abbiamo dipinte le labbra tumide e coralline, le guance vivide come le pesche duràcine e gli guardi accesi che avrebbero rimescolato il sangue nelle vene al più tranquillo anacoreta della Tebaide, ha la sua villeggiatura poco lontano da quella di Ginevra, ed è spesso, quasi ogni giorno, presso di lei. Maddalena Torralba, la soave Maddalena, dai grand’occhi azzurrognoli, dalla carnagione di latte, tutta dolci pensieri e dolci parole, è da otto giorni, insieme col marito, ospite del tiranno e della tiranna di Quinto. Aveva stabilito di rimanere soltanto una settimana; ed ecco, è già incominciata l’altra, e Maddalena rimane, cedendo alla dolce violenza della Ginevra. Ma sabato se ne andrà, ella dice; i bagni di Voltaggio l’aspettano. Noi scommettiamo che non sarà neanche sabato, e i bagni, o, per dir meglio, i ballerini di Voltaggio l’aspetteranno ancora un bel pezzo. Maddalena è, come sapete, la più tenera amica di Ginevra, e, dove se ne tolga la Roche Huart, che vive a Parigi, e con cui la Vivaldi tiene assiduo carteggio, è anche la più amata. Ambedue sono state educate in Francia, nel medesimo convento; i loro caratteri, per ragion di contrasto, si combaciano e si fondono assai bene. Oltreciò, la Torralba fu la prima ad accorgersi dell’amor di Aloise per Ginevra, e questa, sebbene si schermisca, nè voglia lasciarsi cader parola a lui più benigna, ascolta tranquillamente le lodi del giovine dalle labbra della compassionevole amica. È riamato il poverino? Maddalena non giunge ad intenderlo, perchè Ginevra sorride sempre e mostra di non darsene gran pensiero, oltre i confini di quella eletta cortesia, di quella signorile dimestichezza, della quale è prodiga a lui, come ad altri parecchi; per esempio al vecchio De’ Salvi, che se ne gonfia tutto quanto, e al giovine Cigàla, che non ci si fida per nulla.
Il nostro Aloise era quasi ogni giorno a Quinto, e andava facendo pazzie sopra pazzie, mandandole l’una di costa all’altra, come le avemmarie nella coroncina, e facendone tratto tratto alcuna più grossa, che tenesse luogo di paternostro. Il marchese Antoniotto lo vedeva di buon occhio, come il solo dei suoi giovani visitatori che si adattasse di buon grado alle sue tiranniche voglie di controversia politica. Sicuro; Aloise ragionava di politica, lasciandosi mettere colle spalle al muro al finire d’ogni disputa; inoltre giuocava a scacchi, e pigliava sempre scacco matto. Senonchè, di queste periodiche sconfitte, egli si ricattava in materia di coltivazione, della quale parlava come un doctus in re.
Aloise agronomo? Sissignori; agronomo col marchese Antoniotto, in quella guisa che era botanico colla marchesa Ginevra. E poi ci si venga a parlare delle vocazioni! Se lo aveste sentito, a disputare gravemente col suo ospite di terreni silicei, di magri e di grassi, dove meglio provasse la vite o l’ulivo; di nuove e più acconce maniere di sfruttare la terra; del tempo più adatto al taglio delle piante, e via dicendo, lo avreste tolto per un nobile campagnuolo, per un membro effettivo del Comizio agrario, o che so io.
Quando le conversazioni agricole andavano un po’ per le lunghe (e questo avveniva ogniqualvolta ci fosse stato qualche dissidio nelle conversazioni botaniche) la marchesa Ginevra si faceva a liberare il giovinotto dalle ugne del marito e dai lacci della sua medesima eloquenza, chiamandolo ad altri e più geniali discorsi. Era pietà? era capriccio? Lo stesso Aloise non avrebbe saputo dirlo; ora gli pareva una cosa, ora l’altra. Intanto egli non s’era anche arrisicato a dirle: vi amo; nè ella mai gliene aveva pòrto occasione. E si struggeva, pensando che quella occasione non sarebbe venuta mai; giunto il mattino colla speranza, se ne andava ogni sera colla morte nel cuore, e ammazzava, siam per dire, i cavalli, per la furia di giungere a Genova, come li ammazzava il mattino pel gran desiderio di giungere a Quinto.
Il povero Aloise era per l’appunto in uno de’ suoi più brutti quarti d’ora. Qualche nuvola era apparsa a contristare la serenità del suo mattino. La Ginevra, contegnosa oltremodo con lui, dacchè erano andati a sedersi sotto gli alberi, lo aveva a mala pena guardato; gli occhi della dea non si alzavano dal suo telaio da ricamo, se non per volgersi a questo o a quello de’ suoi più ciarlieri vicini, accompagnando con graziose occhiate le sue graziose risposte. Luce di sguardi, musica di parole, armonia di sorrisi che non andava a lui, che a lui non era dato di libare, o gli si tramutava in veleno! Ma non aveva egli forse meritato quella severità di Ginevra? Non era egli rimasto un’ora senza parole, rispondendo a monosillabi, quando la pietosa Maddalena aveva tentato con qualche cortesia di tirarlo nella conversazione, quando il faceto Cigàla lo aveva stimolato con qualche arguta dimanda?
Così, scontento di lei e più ancora di sè medesimo, Aloise aveva lasciato il campo, per andarsene a passeggiare lungo la gradinata del palazzo, insieme col marchese Antoniotto, col De’ Salvi e col Monterosso, il marito della Giulia, i quali disputavano di fabbricerie. Il Monterosso, uno dei fabbricieri della chiesa di Santa Geltrude, aveva lasciato correre, per alcuni e rilevanti restauri del vecchio organo, una spesa molto maggiore di quella che s’era tra colleghi convenuto di fare. Chi aveva a snocciolarli? I fabbricieri colleghi dicevano il Monterosso; egli per contro non voleva saperne, dappoichè (così argomentava) i restauri s’erano creduti necessarii, e se, nella progressione del lavoro, egli, incaricato di quella bisogna, aveva dovuto andar oltre nello spendere, non aveva fatto cosa che in sostanza non fosse stata decretata nel consiglio di tutti. E qui, controversia accademica tra il Monterosso e il De’ Salvi, che voleva saper di ogni cosa; qui sentenze, disgressioni giuridiche del marchese Antoniotto, con qualche dimanda pro forma ad Aloise, il quale doveva rispondere: «et cum spiritu tuo».
Come dovesse godersela in questi discorsi, lasciamo che pensiate voi, o lettrici. Egli non si era certo addottorato in leggi per venire a parar quella raffica di giurisprudenza dei suoi attempati colleghi in patriziato, ed esser quarto fra cotanto senno. E si noti che non la volevano smettere così presto; passeggiavano infervorandosi sempre più, e fermandosi ad ogni tratto per udir le sentenze del marchese Antoniotto, il quale amava ascoltar gli altri passeggiando, ma voleva parlare stando fermo e facendo star ferma l’udienza. Il Torre Vivaldi era senatore anche in villa.
Di certo, Aloise avrebbe potuto dire la sua, anco in materia di fabbricerie; ma gli tornava più comodo dar ragione suo ospite. Nè lo faceva per piaggeria; sibbene perchè non era sempre coll’animo presente alla disputa, e l’accennar del capo, e le rotte frasi di approvazione, gli davano licenza di pensare a tutt’altro. Epperò, ad ogni tratto, quando i quattro peripatetici avevano a dar volta per rifare la strada, uno di essi, Aloise, perdendo di vista l’organo e i fabbricieri, dava un’occhiata là dalla parte del prato, sospingeva lo sguardo fin sotto agli alberi, dove, più felici di lui, il Cigàla, il piccolo Riario, e il De’ Carli soprannominato Tartaglia, stavano conversando colla bella Ginevra.
Vestita con quella cara semplicità che è lo sfoggio più conveniente della bellezza, Ginevra era seduta al suo solito posto, sotto l’albero prediletto, daccanto alla tavola di lavagna. Indossava una veste di quella seta tenue, leggiera, che i francesi chiamano foulard, bianchiccia di fondo e tutta disegnata a ciocche di minuti fiorellini. La vita era tagliata a mezzo scollo; ma, a dissimulare il sommo delle spalle ignude, e più ancora ad accrescere grazia a quella stupenda figura, le si girava intorno all’imbusto, secondo l’antica foggia di Maria Antonietta, un candido fisciù di velo trapunto, i cui capi (felicissimi capi, avrebbe detto il lezioso De’ Carli) scendevano ad abbracciarle il giro di una vita, non troppo piena nè troppo snella, come vediamo essere stata condotta dal greco scalpello la vita di Venere. Teneva davanti a sè il suo telaio da ricamo, tra le stecche del quale era teso il canavaccio che ella con lana di svariati colori andava ricamando a punto in croce dei più graziosi rabeschi.
Daccanto a lei, Maddalena stava lavorando all’uncinetto certe maglie, che non sapremmo e che non mette conto descrivere; arnesi da salotto che si fanno per ingannare il tempo ed anco un tantino per impedire ai signori uomini di insudiciare colla manteca delle loro capigliature la spalliera di una poltrona, o d’un canapè. La Giulia, per contro, non faceva nulla, e da un’ora si andava dolendo di non aver portato nessun lavoruccio con sè.
— Cigàla, — disse ella finalmente, — aiutatemi a dipanare la lana di Ginevra.
— Eccomi pronto; — rispose il giovinotto, mettendo con bel garbo le palme a sostegno di una piccola matassa che gli andava sporgendo la Giulia; — ma vi annunzio che vi servirò molto male.
— Perchè? — disse ella di rimando. — Ogni cosa andrà pel suo verso, se starete attento.
— E lo potrò io? — dimandò con aria di candore il Cigàla.
Al candore risponde assai bene il rossore, e la marchesa Giulia arrossì tanto più facilmente, in quanto che la cosa tornava agevolissima a quel suo viso di Erigone.
— Oggi siete più galante del solito! — ripigliò la dama, provandosi a guardare in volto il suo faceto vicino.
— Lo credo io! — rispose il Cigàla, che non si lasciava mai cogliere disarmato. — Sono galante per due. In me parla il presente e l’assente.
— Che cosa mi dite voi ora? Vedete, non trovo più il bandolo.
— Io l’ho già perduto da un pezzo! — aggiunse sospirando il giovinotto.
— Parlate anche per l’assente?
— No, marchesa; qui parlo per me, solamente per me.
— Cigàla, io vo in collera! — interruppe Ginevra.
— E perchè, di grazia?
— Perchè voi dite a tutte le dame la medesima cosa; ed è male, assai male!
— Ma il peggio, signora, è più ancora del male, se ben ricordo gl’insegnamenti del mio maestro di grammatica. Ora il peggio si è che con tutte faccio fiasco egualmente.
— E perchè? non lo indovinate voi, il perchè? — soggiunse Ginevra, proseguendo la celia. — Perchè mirate a troppe. Ora voi non ignorate che cos’abbia sentenziato una nostra gentile antecessora, la contessa di Sciampagna. «Egli non si può amare più d’una donna ad un tempo».
— Verissimo, pel tempo d’allora; — rispose il Cigàla.
— Perchè d’allora, e non d’adesso? — chiese Maddalena.
— Perchè? È presto detto. Perchè una dama a quel tempo era costretta dalle leggi d’amore a non mandar disperato il cavaliere ch’ella avesse ricevuto in sua mercè, il cavaliere che portasse i suoi colori e facesse ogni maniera di prodezze per lei. Che fanno ora, con vostra licenza, le dame? C’incatenano colle loro lusinghe (lusinghe inconsapevoli, involontarie, s’intende) e poi, come fanciulli crudeli cogli animalucci che cascano sotto le loro mani innocenti, si pigliano spasso de’ nostri dolori; ci piantano spille tra le unghie e la carne ci punzecchiano il cuore, come si adopera colle oche, per dilatar loro il fegato; ci mettono a rosolare sulla graticola e in fondo a tutto questo martirio non c’è nemmeno quella speranza del paradiso, che consolava gli antichi confessori della fede cristiana.
— Benissimo! — tartagliò il De’ Carli.
— È pretta verità! — soggiunse il piccolo Riario, battendo del tacco sull’erba.
— Mi fate venir la pelle d’oca! — disse a sua volta ridendo la marchesa Ginevra.
— Ah, buon segno! — gridò con aria di trionfo il Cigàla. — Voi, almeno, sentireste pietà de’ nostri tormenti. Ora, volete intorno a ciò il mio schietto parere? Io non voglio patire a questo modo; io sono un filosofo, non già un santo anacoreta che ami flagellarsi le carni, far penitenza de’ suoi peccati e di quelli degli altri. Amo la donna in tutte le donne; piglio divotamente (e qui sta il mio pregio) tutto quello che esse non ricusano ad alcuno, voglio dire la vista delle loro bellezze, lo splendore delle loro grazie, i dolci sorrisi, le soavi parole, e ne compongo un elettuario, un brodo ristretto....
— Eravate galante, e diventate volgare! — esclamò Giulia, strappandogli la matassa dalle mani.
— Lasciatemi finire, signora! — ripigliò il Cigàla, trattenendo i pochi giri di lana che gli rimanevano sospesi tra il pollice e l’indice. — Ho detto e ripeto che ne compongo un elettuario, un brodo ristretto, che mi abbia a servire di viatico in questo deserto della vita. Il paragone è volgare, ma esprime il concetto; e il concetto non è volgare, finalmente! Amo in tutte le donne la donna; questo è l’essenziale. E ciò vale meglio che amarne una, una sola, e condannarsi a morire di rabbia. Che ne dici tu Aloise? —
La dimanda era rivolta al Montalto, che in quel frattempo s’era liberato dalle fabbricerie e tornava con lenti passi verso il crocchio delle signore.
— Io? — rispose il giovine, che aveva udito le ultime frasi del discorso di Cigàla. — Io dico che l’amore è la più trista delle umane passioni. —
Questo era l’atto di contrizione di un apostata che tornava alla fede! Ma la vendetta della sdegnata divinità non si fece aspettare.
— Per chi non ama davvero, sì certo, — rispose asciuttamente Ginevra, senza alzare gli occhi verso di lui, in quella che spingeva la punta del suo ago da ricamo nei trafori del canavaccio.
Più acuto assai che non fosse l’ago da ricamo, giunse lo strale e si piantò nel cuore di Aloise. Egli ricevette il colpo senza badare a pararlo ne a renderlo; barcollò, e, per non far scorgere il suo turbamento, si lasciò andare su d’un sedile ch’era rimasto vuoto.
Ma il Cigàla, sempre armato di tutto punto, e destro schermidore in cosiffatte tenzoni (tanto più destro in quanto che non ci aveva malinconie dentro il cuore), fu pronto a rispondere.
— Questa sarebbe un’eccezione, signora, e noi parliamo sui generali.
— Rispondete anche pel signor di Montalto?
— S’egli lo permette, perchè no? —
Aloise, così messo al punto, accennò all’amico che proseguisse liberamente per tutti e due.
— Stando adunque sui generali, — disse il Cigàla, — io chiederò a voi, gentili signore, chi pensiate amar più fortemente, fra le donne e gli uomini.
— Ah, veramente, voi non volete più avere quest’altra matassa che io stavo slacciando per voi! — gridò la Monterosso in atto di minaccia.
— L’avrà un guindolo migliore; — rispose sospirando il Cigàla. — Ecco infatti un assente, che sarà lietissimo di pigliare il mio posto. —
L’arguta allusione del giovinotto accennava alla comparsa del Pietrasanta alle falde del prato. Poco dianzi s’era udito rumore d’una carrozza dall’altro lato del palazzo, ed era il landau del nostro Eurialo, che veniva in traccia di Niso. Il Pietrasanta si avanzò spigliatamente sul prato, alla volta degli alberi, e col cappello tra mani, il sorriso sulle labbra, corse ad ossequiare la marchesa Ginevra e le altre due dame; dopo di che si volse a salutare i cavalieri, stringendo la mano ai più intrinseci, e da ultimo si sedette accanto ad Aloise, col quale già incominciava a barattare qualche parola, allorquando fu interrotto dalla marchesa Giulia.
— Siete venuto in buon punto, Pietrasanta, — ella diceva, — per aiutarmi a dipanare la lana di Ginevra. Il Cigàla ha ardito mettere in dubbio che le donne siano migliori degli uomini, e non mi farà più da guindolo.
— Crudelissimo Cigàla, ne fai di queste?
— Cioè a dire.... — rispose il Cigàla, — io non ho messo in dubbio nulla; chiedevo mi si dicesse chi ami più fortemente, se l’uomo o la donna, e torno a chiederlo, checchè possiate infliggermi per penitenza, ingiustissima dama.
— Alzatevi intanto, e date il posto al Pietrasanta; — disse la Giulia.
— Signora, — soggiunse Enrico, in quella che poggiava amorevolmente le mani sulle spalle dell’amico, per trattenerlo sul sedile; — perdonate al Cigàla, e sarà la grazia maggiore che mi potrete concedere.
— Ma bene, ottimamente! — entrò a dire Ginevra. — Vedi Giulia, come sono galanti tra di loro, questi signori uomini.
— Perchè amano fortemente, marchesa! — gridò, con aria di trionfo, il Cigàla. — Questa cortesia di Enrico, che io non ho chiesta nè preparata, viene in aiuto alla mia tesi.
Ora io lo dimanderò alla signora Maddalena, che non mi ha ancora dato il suo voto di biasimo; chi ama più fortemente? gli uomini o le donne?
— E lo chiedete ancora? — rispose la soave Maddalena. — Le donne, a mio credere. E voi, seriamente, ardireste essere d’una contraria opinione?
— Pur troppo, signora, e non solo tengo che gli uomini amino più fortemente a gran pezza, ma aggiungo....
— Suvvia, non vi fermate a mezza strada! — disse Ginevra. — Dopo quello che avete già sentenziato, non ci può esser altro che rechi stupore a Maddalena.
— Or bene, aggiungo.... Ma intendiamoci, lascio da parte le dame presenti! Aggiungo insomma che le donne amano poco, per non dir nulla, addirittura.
— È grossa! — esclamò la Giulia.
— E la sostengo, foss’anche grossa come il nostro pianeta! — disse di rimando l’oratore pessimista. — Le donne, generalmente parlando, sono egoiste. Amano, sì, non lo nego, ma anzitutto sè stesse. L’affetto di un uomo dice loro, in tutti i modi, una cosa sola: «siete bella!» Ecco perchè l’uomo che ama è ricambiato, e per che modo. Notate, io parlo delle migliori, di quelle che sono grate all’uomo un tantino di più che non allo specchio. Ma che cos’è poi questo loro ricambio di amore? È il superfluo dei loro pensieri, delle loro cure, e che non impedisce loro di contentare ogni loro capriccio, pari a quel superfluo che il Vangelo ci comanda di dare ai poveri, e che, levato di tasca, ci lascia ancor tanto da non patir difetto di nulla. Ora io lo chiedo a voi, gentilissime eccezioni; questo amare per una decima, anzi per una centesima parte della propria potenza spirituale, è egli amare davvero, o non piuttosto per celia?
— L’accusa è antica, — rispose placidamente Ginevra, — e tutte le donne che ci hanno preceduto sulla scena del mondo, l’hanno combattuta, risospingendola agli uomini. Io non mi gioverò di questo spediente; non negherò neppure che ci sia molto di vero in quello che dite. Ma non si meritano questo, e peggio, i signori uomini? Lascio, s’intende, da parte i presenti; — aggiunse ella sorridendo, per rendere la pariglia al Cigàla, che s’alzò a mezzo, per farle un inchino; — ma è certo che i signori uomini sanno molto bene volere, e punto punto guadagnare. Oggi, pur di vederci, si contentano di starci dinanzi in adorazione; domani vogliono già udirci a parlare, e d’una cosa soltanto; entrati a mala pena, e quasi sempre a caso, nella cerchia delle nostre consuetudini, s’atteggiano a conquistatori, e vogliono essere adorati a lor volta, o chiedono una confessione in premio d’un sacrifizio che non hanno fatto, ed anche qui vogliono essere adorati alle prime. Ricordate la sentenza, Cigàla; «il vero amante è sempre timido».
— È la contessa di Sciampagna che lo dice?
— Non so, ma ne ricordo bene un’altra delle sue: «chi non sa nascondere non sa amare».
— Signora, Lanfranco Cigàla, mio antenato, e trovatore di grido, lasciò scritto in una delle sue canzoni: «chi nasconde non fa veder nulla».
— È autentica la citazione?!
— Poniamo che sia apocrifa; la sentenza rimane, e può valer quanto un’altra.
— A questi patti ve ne citerò una terza, che potete leggere nel codice d’amore: «L’indiscreto non sarà mai un amante fedele». Ma tornando alla vostra, vi dirò che una donna si avvede mai sempre dell’affetto di un uomo, anco se gelosamente custodito nel profondo del cuore. E così i signori uomini si contentassero a lasciare indovinare i loro pensieri, che n’avrebbero assai più vantaggio. —
Aloise, il quale era stato muto ad udire quella tenzone, respirò più liberamente all’ultima frase della marchesa Ginevra, che gli parve uno zuccherino per lui. Ma il Cigàla, che non poteva averci le ragioni di Aloise a contentarsi di quella chiusa, s’impuntò ancora a rispondere.
— Voi dunque, signora, non ammettete nessuna uguaglianza tra le donne e gli uomini? Voi sarete un cortèo di regine, e noi un branco di schiavi?
— E che altro vorreste essere? — dimandò Ginevra, con piglio di leggiadra alterezza. — Non vi basta di avere lo scettro per tutte l’altre cose della vita? Lasciate a noi il regno del cuore, questo povero regno, questo alveare che abbiamo fabbricato noi, api pazienti, colla nostra industria sottile, cavando la cera e il miele dal calice dei fiori. Ma sapete che se questo regno grazioso cadesse per avventura anch’esso in vostra balìa, ne fareste un bell’uso!
— Non io certamente, marchesa!
— Lasciamo da parte i presenti, uomo di corta memoria! Vi arrendete?
— A discrezione.
— Bene! la Corte vi rimanda assolto, ma non già in grazia vostra, sibbene di Lanfranco Cigàla, vostro antenato, e gentil trovatore, che avete citato, in vostra buon’ora, testè. E poichè parliamo di trovatori, chi di voi, signori, saprebbe raccontarci la vita di Goffredo Rudel, e di Percivalle Doria?