I rossi e i neri/Primo volume/XXV
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XXV.
La bella Ginevra dagli occhi verdi
Le danze erano già incominciate e i piedini delle signore scivolavano agilmente su d’un tavolato di legni preziosi vagamente intarsiati, superficie levigata e lucente, che era con molto buon gusto surrogata alla consueta tela giallognola stirata sul tappeto e fermata negli orli al pavimento.
I Torre Vivaldi facevano splendidamente ogni cosa, e tra l’altre belle novità della festa si notava quella della musica, parte composta di suonatori e parte di coristi, i quali alternavano i canti e i suoni, siccome si usa in certe eleganti feste da ballo d’altri paesi. Un Waltzer di Strauss, così suonato a vicenda e cantato, faceva ricorrer la mente alla strofe, all’antistrofe e all’epodo dell’inno greco, producendo effetti mirabili di voluttuosa dolcezza e di gagliardia turbinosa.
La marchesa Ginevra non aveva ancora danzato. Già parecchi nomi erano scritti sul taccuino dalle carte gemmate, che raffiguravano le ali d’una farfalla, e che aprendosi lasciavano scorgere i fogli sottili di avorio, disposti a ventaglio dintorno al lepidòttero, la cui testolina, formata da uno smeraldo, era la capocchia di una elegante matita.
Ma ad ogni nuovo nome scritto, il taccuino ricadeva penzoloni dalla sua catenella, e la marchesa Ginevra non si muoveva ancora dal primo salotto, accanto alla sala d’ingresso, dov’ella stava a ricevere i suoi invitati, da vera padrona di casa che sa il debito suo.
Qualche dama meno vogliosa di ballare stava a tenerle compagnia, e non mancavano i satelliti del genere maschile, tra i quali ci par degno di una menzione particolare un vecchio mastodonte, il nobile signor Demetrio Salvi o De’ Salvi, siccome egli si faceva chiamare.
Chi non ha conosciuto il De’ Salvi, quello stecchito personaggio, il quale visitava almeno trenta palchetti ogni sera al teatro Carlo Felice? la cui voce di basso profondo infreddato si faceva udire e zittire dalla platea, allorquando infastidiva le povere signore, raccontando a questa e a quella la cronaca quotidiana di tutte le altre, gazzetta ambulante scritta a caratteri gotici su di una vecchia cartapecora?
Costui aveva tenuto un ufficio importante nella Intendenza (oggi bisogna dir Prefettura); ma da alcuni anni era messo a riposo; laonde ci aveva tempo da spendere, e con le sue visite eterne non lasciava riposare nessuno. I capi ameni gli davano settant’anni suonati, ma egli non voleva dimostrarne neppure cinquanta, e prestava con mirabile assiduità i suoi servigi alla milizia cittadina, lasciando di tratto in tratto trapelare un po’ di amarezza contro il Consiglio di ricognizione, che non voleva farlo cancellare dall’albo dei militi.
Credeva di avere la scienza infusa, e parlava a diritto e a rovescio d’arti liberali, di politica, di araldica, e d’ogni altra cosa che venisse in discorso. Diceva roba da chiodi della musica moderna, e sospirava i tempi beati del suo amico Paulucci, che sapeva mettere a segno i rompicolli. Tra tutte le sue ubbíe, la più grave era certamente quella di credersi un gran maestro di cerimonie, di guisa che taluni gli avevano imposto il soprannome di gran ciamberlano, e parecchie famiglie, pigliando la sua scienza sul sodo, lo consultavano sulle formalità del cerimoniale domestico e su cento altre minuzie di quella fatta.
Il nobile De’ Salvi era stato a’ suoi tempi uno dei cavalieri serventi della madre di Ginevra, e pareva ne avesse derivato il privilegio di dar molestia alla figlia, standole sempre a’ fianchi, e offrendole consigli, che essa non chiedeva punto e accoglieva sorridendo.
- Vedete, - le diceva egli, - bisogna diportarsi in questo modo. La Clelia non è venuta a vedervi da un pezzo; ma avete fatto bene ad invitarla, perchè io so che la poverina è stata giù di salute. Ha voluto allattare il suo bambino, e le sue forze non erano da tanto. Sta benissimo che non vi diate pensiero dell’Amalia. Suo marito s’è posto su d’una mala via, e tra tutti e due non badano punto al decoro della famiglia, accogliendo in casa loro ogni maniera di gente. Vi so dir io che in quella casa non ci si può stare.... -
Ed era verissimo. In quella casa non ci poteva star egli, poichè tutti que’ capi ameni in mezzo ai quali si trovava, volendo fare lo sputatondo, avevano l’aria di metterlo in canzone.
Nè va dimenticato com’egli fosse tenero del buon costume, fino a segno di volere che le ballerine portassero le brache lunghe fin sotto il ginocchio. Forse per questa sua tenerezza il nostro Solone, al cominciar del ballo, correva sempre nel palchetto della deputazione comunale, seguace in codesto della massima che certi mali molto gravi bisogna studiarli da vicino.
E poi piombava in casa delle signore quando meno avrebbero voluto vederlo; e se notava due o tre volte la presenza di qualche giovanotto, egli subito con bel garbo ne toccava al marito. Non già per metter male, nè per vederne dove non ce n’era punto, chè la signora era una Lucrezia e il giovanotto un Giuseppe; ma perchè il mondo era tristo, chiacchierone, pronto a giudicare: insomma, diceva tanto e tanto, che bisognava fare a modo suo, e la signora comprarsi la sua pace domestica usando una scortesia a quel tale che non piaceva al nobile De’ Salvi.
- Adesso, - diceva costui alla marchesa Ginevra, potete andar liberamente a ballare. È già un’ora che state qui, e quelle che sanno il debito loro sono già venute. Le altre che si fanno aspettare oltre il bisogno, debbono a loro volta aspettare che voi le salutiate. Se non conoscono le buone creanze, tanto peggio per loro. -
Poi, di tratto in tratto, andava nel salone di Flora a vedere il ballo; si accostava con un piglio di affettata dimestichezza a questa e a quella, dicendo all’una che non ballasse troppo, a cagione del suo stato (sapeva perfino queste cose, il nobile De’ Salvi!), all’altra che non ballasse il waltzer, perchè le faceva girare il capo, e via discorrendo. Era insomma una molestia da non dirsi a parole.
In quanto alla Ginevra, che egli voleva ad ogni costo mandare a ballare, ella non gli dava retta, e non si muoveva dal suo posto. Ciò dispiaceva fortemente al gran ciamberlano. Perchè? Per la stessa ragione che consigliava all’Emma o alla Clarice di non ballare; perchè non voleva lasciare in pace nessuno. D’uomini cosiffattamente stucchevoli è abbondanza nel mondo, e noi ne conosciamo parecchi, senza punto saperci capacitare del perchè si sopportino.
Ora intanto che la marchesa Ginevra aspetta, e graziosamente accoglie i nuovi venuti, alzandosi per le donne e porgendo loro la mano, lasciando giungere gli uomini e dicendo cortesi parole ai noti amici che fanno atto di sudditanza e ai nuovi che le presenta il marchese Antoniotto; intanto che procaccia qualche conoscenza alle dame forestiere, o raccomanda questa o quella ai cavalieri più compiacenti che si butterebbero nel fuoco per obbedirla; andando a venendo insomma con una grazia da regina, noi ci proveremo a farvi questa benedetta dipintura della bellissima donna.
Enrico Pietrasanta aveva ragione: i capegli della marchesa Ginevra erano castagni, fini ed abbondanti, e, rischiarati in diverse guise dai riflessi della luce, componevano quasi un’aureola intorno ad un bel viso bianco perlato, alle carni stupende, senz’ombra di rosso o di giallo, senza soverchio di grassezza, che vincevano al raffronto la celebrata carnagione della Enrichetta Corani.
Si poteva dir quasi che di quelle chiome copiose ella non sapesse che farne, dacchè era costretta a serrarle in lunghe trecce, le quali, tuttochè ravvolte in giri molteplici, le scendevano pur sempre sul collo più giù che non comportasse la moda.
Ma questo non era poi un difetto, e ognuno, al vedere quell’ampio volume di capegli, avrebbe potuto argomentar di leggeri che se Domineddio ne avesse fatto copia ad Eva, la madre del genere umano non sarebbe andata a limosinare le foglie di un albero per coprirne la sua nudità vergognata. Si aggiungeva che quella necessaria acconciatura faceva portare alla marchesa Ginevra il capo mollemente chino: il quale atteggiamento, tra per l’alta statura e per la sciolta eleganza del collo, le conferiva maggior leggiadria.
Le ciocche al sommo del capo, lievemente increspate, si stendevano sulle tempia e si ripiegavano in due lisce staffe un po’ sopra gli orecchi, senza coprire gran parte della fronte, dove spaziava l’arco maraviglioso delle sopracciglia, ombreggiando gli occhi verdi, grandi e dolcemente allungati, i quali, dando anche essi ragione al Pietrasanta, assumevano tutti i riflessi. Il naso, sottile senza dar nello smilzo, diritto e giustamente riciso, lasciava al tutto scoperto il labbro superiore, voluttuosamente rilevato, il quale sorridendo infossava leggiadramente le guance e faceva apparire per quel breve spiraglio due file di bianchissimi denti, che si potevano più acconciamente paragonare al candore della madreperla che a quello dell’avorio. Il mento ovale, severamente scolpito, significava saldezza di propositi, in rispondenza col diritto profilo della fronte.
Da quel mento e dagli orecchi, piccini ed aggraziati che parevano una miniatura, nè avevano voluto essere forati nè profanati dalla selvaggia costumanza dei ciondoli, scendiamo al collo svelto e tondeggiante, che portava tutto intorno disegnata quella ruga sottile, simbolico cinto della bellezza, di cui le nostri Veneri insuperbiscono più assai che di un vezzo di gemme. Gli omeri, non molto rilevati, scendevano dalle radici del collo con una curva delicata che dava alla persona un’aria di somma dolcezza, in contrasto col mento reciso e colla fronte diritta. Ma appunto da simili contrasti scaturisce l’armonia di una bellezza suprema.
Così il seno, che un poeta classico avrebbe battezzato acerbo, non dimenticando il solito paragone con le fragranti mele appie, era un miracolo di casti contorni, e la sua bianchezza non appariva punto sopraffatta da una collana di perle a cinque filze, dall’ultima delle quali pendevano altre perle più grosse, allungate a forma di gocciola, dai bei colori iridescenti.
Quel viso e quelli ornamenti, le carni, le labbra, gli occhi, la collana, tutto era una perlagione, tutto si disposava armonicamente, tutto concorreva a produrre un effetto profondo, a far pensare e sospirare il riguardante. A compiere l’acconciatura di quella testa perfettamente ovale, si aggiunga una corona di fiori di lilla, bianchi e violacei, lavoro della Nattier, quella parigina che, in materia di fiori, poteva dare dei punti alla madre natura. Parecchi diamanti alternati con amatiste si attorcigliavano a quella corona di fiori, e tremolando scintillavano, mettevano baleni intorno alla testa divina.
I fiori di lilla bianchi e violacei, i diamanti e le amatiste, erano in rispondenza coi due colori del vestimento della marchesa Ginevra. La bellissima donna indossava un’ampia veste di raso color di lilla tenero, e una sopravveste di merletto finissimo, sopravveste da duchessa, se pure è vero che le duchesse vestano più sfarzosamente delle altre donne.
A’ dì nostri, infatti, tutte le signore, a marcio dispetto della legge suntuaria che temperava il lusso delle dame romane, fanno uno sfoggio di abbigliature, che costano un occhio del capo ai mariti, e per mostrarsi attillate agli occhi degli altri, farebbero, stiamo per dire, carte false. Affrettiamoci tuttavia a soggiungere che non tutte, anco se avessero potuto fare carte false, e spacciarne, sarebbero venute a capo di portare una sopravveste come quella della marchesa Ginevra. Era di merletto, ma di quel tal merletto antico che chiamano punto di Venezia, lavorato sottilmente a rilievi di fiori a rabeschi, con lo stemma dei Vivaldi ripetuto più volte sui lembi; la qual cosa significava che quella veste, a cui si poteva dare il prezzo di forse dugentomila lire, era stata trapunta a bella posta per una dama di quella casata.
Rialzata un tratto in due punti sul dinanzi, quella sopravveste faceva uno sgonfio, fermato sugli angoli da mazzolini di fiori di lilla bianchi e violacei, con una rosetta di diamanti nel mezzo. Un mazzolino somigliante, acconciamente posto su d’un cappio di merletto, ornava le due attaccature della vita al sommo delle braccia, donde si dipartivano larghe striscie dello stesso merletto, correndo intorno alle spalle e giungendo poi sul dinanzi a chiudersi sotto un largo fermaglio, o pettorina di filo d’oro, reticolato a rabeschi, che si adattava al garbo del seno e dei fianchi. Abbiamo detto filo d’oro, ma il filo non si vedeva, non essendo altro che la nascosta armatura di un fitto di diamanti d’ogni misura, disposti in modo da raffigurar rose e foglie, che amorosamente s’inerpicassero intorno al petto della signora. Questa immagine ci pare a gran pezza più acconcia di quell’altra che mise fuori il marchese De’ Carli, allorquando, veduto il fermaglio della Ginevra, lo disse una corazza adamantina. Ma forse potranno stare ambedue. Quello che non può stare per nessun modo si è il conto fatto da un banchiere, il quale, noverati così alla grossa gli ornamenti della marchesa, scese a dire ch’ella poteva sottosopra valere un milione e mezzo.
Quello era forse il prezzo de’ suoi diamanti, delle sue perle e de’ suoi merletti di Venezia; ma la Ginevra dagli occhi verdi non aveva prezzo. Tutti i tesori di Golconda e dell’arcipelago indiano non valevano quel miracolo di natura che era la sua persona; nè tutti quei giri di perle che le stringevano i polsi, valevano un dito mignolo di quelle mani sottili, dalle venature trasparenti, che solo Fidia avrebbe saputo modellare, ma senza infonder loro la vita.
La marchesa, come le nostre lettrici hanno veduto, era magnificamente vestita, e mettiam pegno che taluna di esse si è già mattamente inuzzolita di uno sfarzo così strabocchevole. Ma se questa lettrice avesse veduto la Ginevra in persona, avrebbe più facilmente invidiato la grazia eletta con cui erano portate tutte quelle dovizie femminili. In fatti, a vederla, ella era molto più semplice di quello che non appaia da una dipintura necessariamente frondosa, quantunque pur sempre manchevole. Ogni cosa era a suo posto, ogni ornamento rispondeva per modo da non potercisi vedere una stonatura, e quel che più monta, il bianco splendore delle carni non ne era punto sopraffatto.
Un ventaglio con le stecche di madreperla e una scena di amorini che ruzzolavano festosamente sul prato, dipinta su d’una sottil pergamena dal Rubens, non era il meno prezioso di tutti quelli ornamenti, sebbene il banchiere anzidetto avesse dimenticato di metterlo nel conto.
Ora, sarebbe quasi inutile il dire che parecchie altre di quelle gentildonne invitate alla festa facevano pompa di tesori consimili. Le grandi famiglie genovesi avranno poderi e palazzi che fruttano a mala pena il due per cento; capolavori d’arte che non fruttano nulla; ma vedrete pur sempre le signore sfolgoreggianti di gemme come altrettante regine. E questo s’intenderà di leggieri, chi consideri che le gentildonne della festa erano le discendenti di quelle antiche dame, le quali tutte alla loro volta avevano portato diadema di dogaressa, nello spazio di quasi cinquecento anni, da Simon Boccanegra a Gerolamo Durazzo.
O bellezza! o forma sensibile della divinità, come risplendi tu mai, circondata dai tesori della natura e dell’arte! Omero, il nostro gran padre, non ha saputo altrimenti dipingerci la regina dei Numi, Giunone, che vestendola di tutto punto come una dama de’ suoi tempi. Secondo lui, la diva dalle bianche braccia, doveva adornarsi con sottil magistero di elette vesti e pietre preziose, farsi bella, insomma, per innamorare il suo augusto marito. Ricordate con che arte ella si acconciasse, innanzi di andarlo a cercare sul monte Ida, dov’egli stava a bearsi lo sguardo delle busse che i Trojani davano ai Greci? È forse l’unico esempio di apprestamenti leggiadri che mai donna facesse per piacere al marito, dopo alcuni anni di matrimonio.
«La diva si avviò al regale suo talamo, a lei fabbricato dal figlio Vulcano con salde porte e una tal serratura segreta che nessun Dio sarebbe venuto a capo di aprire. Ella vi entrò, e chiusosi l’uscio dietro a doppia mandata, si terse dapprima l’amabil corpo d’ambrosia, e lo irrigò di una certa essenza oleosa, che, agitata nel cielo, riempiva l’universo di inneffabili fragranze.
«Poi commise al pettine le chiome bellissime, e di sua mano le compose in vaghi ricciolini ondeggianti intorno al capo immortale. Quindi, toltosi l’accappatoio (Omero non lo dice, ma s’intende di leggieri), indossò il peplo divino, tessuto da Minerva, e lo assicurò al petto con un fermaglio d’oro. Si cinse i bei fianchi d’un cintiglio a molte frange, e sospese agli orecchi ì suoi ciondoli gemmati a tre gocce.
«Si ravvolse intorno alla fronte una fulgida benda, e legatisi al piede i bei coturni, uscì pomposa dalla celeste dimora, dopo aversi posto in seno il cinto di Venere, sua figliastra, ben trapunto cinto nel quale erano raccolte tutte le lusinghe, la voluttà dell’amore, il desiderio segreto e la dolce favella degli innamorati.»
E sapete che facesse Giove, appena l’ebbe veduta? Non le diede neanco il tempo di infilzar quattro parole, e senza dir nè due nè quattro, le pose le braccia al seno e lasciò che i Greci, i prediletti di Giunone, suonassero a loro posta i guerrieri di Troia.
Questo faceva Giove, il re dei celesti. Ora quale dei mortali non avrebbe dimenticato ogni cosa per un sorriso della bella Ginevra, per uno sguardo solo di quelli occhi marini? E quale di loro non avrebbe affrontato di grande animo la morte, per respirare un solo momento la divina ambrosia, o per parlare più umanamente, l’eletta fragranza di quella regina delle donne?
Eppure, cosa incomprensibile ma vera, tutte queste dolcezze si possono avere a straccia mercato, nel secolo in cui viviamo. Solo che siate un uomo da poter essere presentato in un geniale ritrovo, vi è dato sovente di respirare per due o tre ore quell’aria che un povero amante pagherebbe con dieci anni di vita, e mettere una mano profana intorno alla vita di quella donna, e bere, stiamo per dire, il suo alito, in un giro di waltzer o di mazurka.
Non ci faremo più oltre a dipingervi la marchesa Ginevra, nè a dirvi partitamente delle sue bellezze. Vorremmo aggiungere che aveva un piedino bello come la mano; ma voi sareste tali da voler sapere di che tessuto fosse la calza, di che colore il legaccio, a noi da volervelo dire. Lascieremo dunque alla vostra mente immaginosa l’ufficio di finire la descrizione, e tanto più volentieri, in quanto che con tutte le nostre parole non ci è venuto fatto di darvi ad intendere con quali giuste proporzioni rispondessero l’una all’altra tutte le parti di quel corpo bellissimo.
E la mente? Oh, questa era bella del pari. La marchesa Ginevra aveva un ingegno vivissimo e colto sopra tutte le altre. Trattava con garbo la matita, e il cembalo con agile maestria. Parlava con una voce melodiosa quasi tutte le lingue d’Europa, l’italiana e la francese, la spagnuola, l’inglese e la tedesca, di guisa che poteva leggere nel loro testo, il Petrarca, il Byron, il Goethe, l’Hugo e Garcilasso de la Vega. Il dialetto genovese che tanti trovano aspro, bisognava sentire che musica fosse diventato sulle labbra coralline della marchesa Ginevra!
E il cuore? Ahimè! Al tempo del nostro racconto il cuore della marchesa non aveva anche dato segno di vita. Molti le stavano attorno, sospirando, dicendo le più tenere cose; ed ella li stava ad udire, ma senza rispondere mai in quella chiave. Però il Cigàla, il più ameno filosofo che mai calzasse guanti paglierini, la metteva nel novero di quelle belle meditabonde, le quali nelle soavi parole e nei rapimenti di un uomo che le ama, stanno libando l’arcana dolcezza delle parole che potrebbe dir loro un altro che amano esse.
Ma, anco ammettendo la massima del nostro povero amico Cigàla, che è andato a seppellire la sua filosofia sui campi gloriosi di Montebello, noi dobbiamo aggiustar fede alle nostre notizie particolari, giusta le quali la marchesa Ginevra non amava nessuno. Era, a dir vero, una donna della quale non si capiva un bel nulla. Vi agitava le tempeste nel cuore, e non le calmava; vi sorrideva leggiadramente e vi guardava a volte con certi occhi che parevano promettervi il paradiso; ma che? Ella non pensava punto a voi. Era in lei natura il farvi udire la musica de’ suoi sorrisi e delle sue cortesi parole, ma non vi consentiva niente di più, e vi teneva pur sempre lontani. In questa guisa dicono gli astronomi che i pianeti del nostro sistema sono attratti verso il sole e respinti ad un tempo, per modo che non possano nè avvicinarsi nè dilungarsi, oltre l’orbita che l’astro maggiore consente ad essi di descrivere. Ma tutto questo che ognuno avrebbe inteso di leggieri trattandosi del sole, non s’intendeva ugualmente trattandosi di una donna nel fiore della bellezza e della gioventù, maritata ad un uomo cupo, freddo, ambizioso, sempre circondato di parrucconi, assiduo lettore di Giuseppe De Maistre, come il marchese Antoniotto.
Che volete? Pareva quasi che la Ginevra ritraesse molto del marito. Ella infatti era assidua com’egli alle prediche, e andava ogni domenica ad udir messa nella chiesa della Maddalena. Due volte alla settimana la vedevate correre, col suo servo in livrea alle calcagna, fino al convento di San Silvestro, dalle monache di Santa Chiara, dov’era una Vivaldi, sua zia, e dove ella soleva passare due o tre ore alla fila. O come si riscontrava cotesto co’ suoi modi in apparenza facili, coll’amore delle feste, delle conversazioni, del teatro, e di tutte le pagane consuetudini del viver signorile? Contrasto incomprensibile! O era forse la marchesa Ginevra una di quelle donne dal cuore muto d’ogni sentimento, su cui le lusinghiere immagini passano, senza lasciarvi orma di sè, come su d’un cristallo opaco? O forse Dio aveva fatta così bella la statua, senza soffiarle per entro il soffio della vita?
I lettori rammenteranno che Enrico Pietrasanta, parlando di lei con Aloise, aveva detto:
- Dio le fa belle, e poi leva loro l’anima, perchè si conservino meglio, come gli uccelli impagliati. -
Questo che il Pietrasanta aveva detto della Ginevra, a volte pareva verissimo, a volte no. Ma siccome l’esser fredda non è per una donna una colpa al cospetto del volgo, e siccome la marchesa era così stupendamente bella che a molti pareva quasi impossibile. avesse potuto mai discendere ad amar qualcheduno, tutti l’avevano facilmente posta tra le eccezioni. Così, mentre delle altre si narrava sempre alcun che, di lei si taceva, non si metteva nemmeno in controversia se potesse o non potesse sentire il mal d’amore come tutte le altre.
Soltanto di tratto in tratto si sarebbe potuto notare che alcune dame, parlando così alla sfuggiasca della marchesa Ginevra, la dicevano una bellezza sciocca, una testa tronfia de’ suoi titoli, delle sue ricchezze e delle sue ubbíe forestiere1. Gli uomini, a dir vero, non la pensavano così; ma già si sa Che, dalla volpe di Esopo in poi, è costume di chiamare acerba quell’uva che è troppo in alto sul tralcio. Epperò i signori uomini, sebbene in cuor loro riconoscessero i pregi della Ginevra, e sebbene l’assiduità delle loro occhiate dicesse tutt’altro che sciocca la bellezza di lei, a parole poi tenevano bordone alle aspre sentenze delle dame sullodate. Ma lasciamo da banda quello che potessero dire certe dame e certi cavalieri, e ripigliamo il nostro racconto, che preme assai più, scusate la modestia.
Stiamo ora per raccontarvi una cosa strana, e quasi incredibile, una cosa che i lettori non indovinerebbero, se pure la dessimo loro alle mille. Aloise di Montalto saliva le scale del palazzo Vivaldi, in compagnia di Enrico Pietrasanta.
O come mai Aloise, l’uomo che amava da sei anni la bella Ginevra senza avere ardito mai accostarsele, che s’era anzi sbandito da ogni geniale ritrovo per cansare il pericolo d’incontrare la donna de’ suoi pensieri, s’era così di punto in bianco mutato, da mettere il piede nel suo palazzo, da andare alla sua festa da ballo?
E questo è ancor nulla, in raffronto a quello che non sapete ancora. Il marchese Antoniotto, il cupo tiranno di Quinto, l’orgoglioso gentiluomo per cui il non essere milionarii era come una fede di povertà, stava anche egli da un’ora nel primo salotto dov’era la moglie, e teneva d’occhio la sala d’ingresso, aspettando l’arrivo di quel nobile senza il becco di un quattrino, come lo diceva il Collini, di quel giovanotto senza importanza, come lo riputavano gli uomini della risma del gran ciamberlano De’ Salvi; insomma, avete capito, di Aloise di Montalto.
Note
- ↑ Nell’originale "forestièrè".