I rossi e i neri/Primo volume/XXVI
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XXVI.
Come Aloise di Montalto si avvicinasse per la prima volta alla bella Ginevra
Appena Aloise comparve sulla soglia, insieme col suo Pilade, il marchese Antoniotto compose il volto al più lieto sorriso che mai padrone di casa consacrasse all’accoglienza di un ospite ragguardevole, e si affrettò a muovergli incontro e a prenderlo per mano con affettuosa sollecitudine.
- Vi ringrazio, Aloise; - diss’egli, - e permettetemi anzitutto che alla mia età, ed avendo conosciuto il vostro ottimo padre, io vi tratti così alla buona; vi ringrazio dell’essere venuto.
- Signor Antoniotto, - rispose egli, stringendo la mano che gli era offerta, - voi fate troppo onore ad un giovane che non è nulla e non val nulla, se non per l’onorata memoria de’ suoi genitori.
- Siete troppo modesto, Aloise. Suvvia! I giovani come voi valgono molti vecchi a mazzo, e dei migliori, perchè hanno la potenza della volontà e il vasto campo del futuro per metterla in opera. Vi ho veduto bambino nelle braccia della marchesa Eugenia, di quella angelica donna che tutti i buoni rimpiangono, e mi doleva di non vedervi in mia casa. Siete un uomo prezioso, voi, e quantunque abbiate ragione a star sulla vostra, io spero che il figlio di Lodovico Montalto sarà amico mio, come era suo padre. Ma anzitutto lasciate che vi presenti alla mia signora. -
Aloise non seppe risponder nulla a quella furia di cortesi parole, che facevano rimaner di stucco il Pietrasanta. - Che novità è questa - pensava egli, - che il tiranno di Quinto mette fuori tanta ed insolita parlantina per la bella faccia del mio amico Aloise? -
Ginevra intanto era seduta su d’un canapè di legno dorato, coperto di raso azzurrognolo, e parecchi cavalieri le stavano intorno, tra i quali il gran ciamberlano, che voleva ad ogni costo mandarla a ballare.
Quel capo ameno del Cigàla dava cortesemente la baia al nobile De’ Salvi, dicendo che quella sua ostinatezza a farla muovere di là veniva dal desiderio che aveva di ballare con lei; ma che si desse pace, non essendo egli scritto pel primo sulle ali d’avorio della farfalla.
La marchesa rispondeva ora al Cigàla, ora al De’ Salvi, ora ad altri, e trastullandosi col suo ventaglio, guardava il marito colla coda dell’occhio, senza perdere sillaba della sua conversazione con Aloise.
Un sottile osservatore avrebbe potuto notare che la Ginevra s’era fatta rossa in viso, quando il giovine era comparso sulla soglia. Ma questo sottile osservatore non c’era; e quand’anche ci fosse stato, avrebbe dovuto essere molto addentro nei segreti di quella dama, per indagare se fosse il caldo od altra ragione che le colorasse le guance.
- Chi giunge, in compagnia del Pietrasanta? - chiese col solito stento di scilinguagnolo il marchese Onofrio De’ Carli, che aveva già lasciato la Cisneri, per mettersi ai fianchi della padrona di casa.
- Non lo conoscete? - rispose il Cigàla. - È Aloise di Montalto.
- Sì; - soggiunse il piccolo Riario, facendo una di quelle mezze giravolte che sono tanto in uso presso certi pigmei forse a cagione degli altissimi tacchi che portano, - gli è il famoso duellista.
- Come, il duellista? - chiese Ginevra. - Non ha altro merito per farsi conoscere?
- Oh, marchesa, egli ne ha altri parecchi; - fu sollecito a rispondere il Cigàla. - È un perfetto cavaliere, ricco d’ingegno e di alto sentire. -
Il piccolo Riario non ardì rifiatare. Egli non poteva patire il Montalto; ma temeva forte la lingua pronta e sarcastica del Cigàla.
- Ha da esser vero, se lo dite voi; - soggiunse la marchesa. - Voi non mi sembrate uomo di facile contentatura.
- Avete ragione, marchesa, a dirmi ciò; ma ci avreste un gran torto, se voleste farmene una colpa. Amo dire quello che penso, io; ma sono tanto più lieto di poter dire la verità, quando essa è lusinghiera come un complimento. Ora questo, se volete degnarvi di rammentarlo, mi avviene assai di frequente, quando parlo con voi. -
La bella Ginevra volse al Cigàla1 un’occhiata graziosa, un’occhiata che gli avrebbe fatto dar di volta al cervello, se il Cigàla non avesse saputo che gli sguardi cortesi della bella Ginevra erano la cosa più naturale del mondo, come i raggi sono il naturale accompagnamento del sole, e non significavano mai nulla di particolare.
- Se andiamo di questo passo, signor Cigàla, - disse Ginevra, - diventerete un ottimista.
- Oh, non temete che ciò avvenga! - diss’egli di rimando; - alla più trista chiuderò gli occhi quando sarò vicino a voi, e vedrò tutto nero. -
Intanto che si dicevano questi nonnulla, il Pietrasanta era venuto ad ossequiare la marchesa, e dietro a lui veniva il marchese Antoniotto, tenendo il braccio di Aloise di Montalto.
Al nostro giovinotto tremavano un poco le gambe. Avvicinarsi alla donna che aveva amata fino a quel giorno da lontano, e chiusa nella sua nube diafana come una dea pagana, esserle poi presentato dal marito, erano in verità due cose così gravi da turbarlo2 maledettamente.
Egli già, fin da quando aveva ricevuto l’invito dei Torre Vivaldi, era rimasto colpito di stupore. Che vuole, aveva egli chiesto a sè medesimo, che vuole da me il marchese Antoniotto? E poi, quando il marchese Antoniotto gli si era fatto incontro con tanta sollecitudine, la prima domanda si era mutata in quest’altra: perchè tutta questa tenerezza da un uomo che mi conosce a mala pena, ed è in ogni cosa tanto diverso da me?
Un capo scarico avrebbe creduto di trovare l’incognita di quella equazione, correndo a fantasticare che la dama avesse avuto mano nell’invito e nella cortese accoglienza del consorte. Ma Aloise non era uno di que’ presuntuosi i quali pigliano per buona moneta ogni invenzione che lusinghi la loro vanagloria; per giunta egli era certo che la bella Ginevra non poteva addarsi di un amore così celato e lontano come il suo, che nemmeno il telescopio (così egli pensava) lo avrebbe potuto scoprire.
Aloise era stato lunga pezza in forse, se andasse o no; ma il Pietrasanta gli aveva detto che sarebbe stata una scortesia grandissima la sua, se non avesse risposto pel suo verso all’invito del Torre Vivaldi.
- Di che diamine hai tu paura? Vivi solo, come un feroce anacoreta della Tebaide, e al cortese desiderio di chi ti si accosta, vorresti anche rispondere col rintanarti sempre più? Tu non intendi perchè il cupo tiranno di Quinto t’abbia posto nel suo calendario, e sta bene; ma non verrai certo a capo di saperlo, ricusando di venire alla sua festa da ballo. E poi, ti ho pur raccontato che una sera, in casa della Pedralbes, quando eri ferito, si parlò molto di te, e il valentuomo si degnò di ricordare che i Montalto erano ascritti all’albergo dei Vivaldi! Ora, se non ti viene altro in mente, poni che egli sia innamorato di te, ed abbia voluto invitarti alla festa per darti una testimonianza di stima particolare, come s’adopera con le persone di rilievo. Suvvia, Aloise, qui non c’è verso di schermirti; bisogna venire di gamba sana; se no, ti rifacciamo lo stemma di casa, e in cambio del leone che va in alto, ci metteremo un orso, e nemmeno di quelli inciviliti, che hanno imparato a ballare. -
Enrico Pietrasanta incalzava cosiffattamente Aloise, perchè lo amava molto, e metteva un po’ di ambizione, scusabile invero, a farsi scorgere insieme con lui.
Aloise, senza volerlo, e senza nemmeno addarsene, era il capitano naturale di tutta quella gioventù aristocratica. Vestiva con molta semplicità, e cionondimeno, anzi appunto per ciò, più leggiadramente di ogni altro. Cavalcava mirabilmente; era destro schermidore, siccome è già noto, e parecchi duelli che aveva arditamente sostenuti, lo avevano fatto un mastro di cavalleria, un araldo d’armi, del quale si impetrava l’aiuto o il consiglio in ogni quistione tra’ pari suoi. Era poi d’ingegno ornato, e dettava versi che pochi amici avevano potuto leggere, e ne facevano le maraviglie. Per giunta non cercava nessuno; salutava tutti, ma non usava aver dimestichezza che con due o tre, e non andava mai ad accrescere il codazzo della Clarice, della Fanny, della Clelia, o d’altra delle più ragguardevoli dame, allorquando sul tardi uscivano a passeggio. Nè si curava di sapere che cosa si pensasse de’ fatti suoi; ignorava perfino che nei ritrovi domestici di tutte quelle gentildonne si parlava sovente della sua ritrosia, e si mettevano fuori di molti sospetti. A proposito dei quali, bisognerà soggiungere che i cavalieri di quelle dame, anco se poco amici del Montalto, col dirne di tutti i colori sul conto suo, non facevano altro che rincarare la merce.
Non è dunque a dire se il Pietrasanta ci si mettesse attorno con le mani e coi piedi, e se credesse di fare un miracolo tirando l’amico a seguirlo. Egli infatti non sapeva che Aloise, con tutte le sue perplessità, ci avesse dentro una gran voglia di accettare l’invito. Il giovine era stanco della sua volontaria ritirata sull’Aventino, e quasi sdegnato contro di sè per quella ritrosia che gli era piaciuta da prima, e che ora gli vietava di avvicinarsi a Ginevra, di guisa che egli era giunto perfino a maledire i suoi diportamenti passati, che gli impacciavano il presente.
Vien sempre il giorno in cui l’uomo si duole di un suo dirizzone, tolto dapprima ed accarezzato come norme del vivere. Quante volte san Simeone Stilita non ebbe a struggersi di quella sua matta deliberazione che lo aveva fatto andare a vivere sull’alto di una colonna?
- Ginevra, - disse il marchese Antoniotto, avvicinandosi alla moglie e tenendo il suo Simeone disceso dalla colonna per mano; - vi presento Aloise di Montalto, mio amico. -
Mio amico! capite, o lettori? Il marchese Antoniotto aveva fatta una lunga appoggiatura su queste due parole; le quali fecero sì che il piccolo Riario inarcasse le ciglia, e il gran ciamberlano De’ Salvi, dall’altezza della sua nobiltà, si facesse amichevolmente a sorridere al nuovo venuto.
La marchesa Ginevra dal canto suo si fece un po’ rossa in viso, e con un grazioso cenno del capo disse ad Aloise:
- Il marchese di Montalto è il benvenuto da noi; ed io lo ringrazio dell’onore che egli ci fa. -
Dell’onore che egli ci fai Diamine! queste erano parole che pochi s’erano sentite dire dalla marchesa Vivaldi; epperò gli astanti sullodati, i quali non potevano certo indovinare che la Ginevra le avesse profferite per dare una cortese lezioncella ad un colpevole di lesa maestà femminile, rimasero stupefatti.
- Marchesa.... - rispose Aloise, e un profondo inchino fece intendere quello che egli non volle o non seppe soggiungere.
Per la qual cosa ognuno di leggieri argomenta come quella scena riuscisse diplomaticamente contegnosa e fredda.
La bella Ginevra, costretta a proseguire ella stessa la conversazione, si levò prontamente d’impaccio, entrando a parlare del recente duello di Aloise.
- E come state ora, signor marchese, della vostra ferita! Tutti noi, anche senza conoscervi da vicino, ci siamo impensieriti della vostra salute.
- Grazie, marchesa: oramai sono risanato del tutto. -
E non disse altro. Lettrici, che ve ne pare? Era freddino anzi che no, il nostro innamorato.
- È una barbara costumanza questa del duello, - sentenziò il De’ Salvi, senza por mente che spacciava una delle solite rifritture, - ed è da condannarsi tanto più, quando espone un gentiluomo a misurarsi con ogni sorta di gente.
- Non debbo contradirvi, signore; - rispose il giovine Montalto, salutando il De’ Salvi, - ma in quanto al fatto mio, posso ed amo mettere in sodo che ho avuto a fare con un perfetto cavaliere.
- Questa dichiarazione fa fede della vostra lealtà, - disse la bella Ginevra. - Ma a proposito di cavalieri perfetti, volete essere il mio, signor di Montalto? -
E così dicendo si alzò per andar finalmente nella sala da ballo.
Il nobile De’ Salvi che aspettava d’esser lui, come mastro di cerimonie volontario, il cavaliere della marchesa, allungò tanto di muso, e gli altri suoi degni colleghi del pari. Già tutti aspettavano per sè quella grazia prelibata che la marchesa avrebbe pur dovuto fare a qualcheduno, entrando con lui nel salone di Flora. Epperò, quantunque fosse la cosa più naturale del mondo che questa grazia cadesse su d’un nuovo venuto, il gran ciamberlano non poteva mandarla giù, nè il marchese Tartaglia, nè il piccolo Riario, il quale ci aveva egli pure le sue pretensioni.
Il Cigàla che aveva seguito da capo a fondo tutta quella scena muta, ma eloquente, di aspettazione, se la rideva sotto i baffi. Il Pietrasanta, che era giunto più tardi, fu il solo che non ponesse mente a tutte quelle speranze deluse, e si rallegrò in cuor suo che l’amico Aloise comparisse nella sala da ballo a fianco della bella Ginevra. Era il gaudio dell’artefice quello che gli splendeva sul volto, poichè gli pareva d’essere stato egli l’operatore di quel miracolo che conduceva Aloise in mezzo alla gente.
In quanto al nostro eroe, egli non parve molto contento di quell’atto di preferenza notevole. Lo era tanto e poi tanto nel profondo del cuore, che rimase impacciato, non seppe cavare una parola, e si mostrò quasi distratto.
- Marchesa, - disse il Cigàla a Ginevra, come furono giunti nel salone di Flora, - ricordatevi del vostro debito.
- E quale, di grazia?
- Il mio walzer. Lo attaccano per l’appunto, ed io sono il primo inscritto nel vostro taccuino.
- Davvero? - rispose ella con aria astratta.
- Sì, marchesa, e quantunque mi dolga di rubarvi subito al mio ottimo amico Aloise.... il quale tuttavia....
- Tuttavia!... Stiamo a vedere, signor Cigàla, che voi diventate tanto clemente da offerire al marchese di Montalto quello che egli non vi ha nemmeno chiesto.
- No, marchesa; volevo dire che egli avrebbe potuto dimandarmelo, ma che io, con tutta l’amicizia che ho per lui, non avrei potuto accordarglielo. -
Aloise era turbato. Si accorgeva di aver fatto male a non chieder subito, e si pentiva di non esser più in tempo.
- Marchesa, - disse egli allora, - io non ardivo certamente chiedere una grazia somigliante al mio amico Cigàla; ma se c’è sul vostro taccuino una pagina bianca....
- O che, mio buon Aloise, vorresti riempirla tutta?
- No, certo; non chieggo tanto; ma se vi rimane un po’ di posto pel mio nome....
- Orbene, vedremo di contentarti; - rispose il Cigàla, con una comica gravità che fece ridere la bella Ginevra. - Marchesa, il vostro libriccino?
- Eccolo; volete far da segretario?
- Sì; non voglio che il mio ottimo amico m’abbia in concetto d’un tiranno, perchè sto per rapirgli la dama al primo giro di walzer.
E presa dalle mani della marchesa quella magnifica farfalla tempestata di gemme, che i lettori conoscono, l’aperse e scrisse il nome del marchese di Montalto per una mazurca.
Aloise s’inchinò per ringraziare la bella Ginevra.
- E adesso, marchesa, udite? Gli è tempo di venire con me.
- Con che aria me lo dite, Cigàla! Lo spirito del male non parlerebbe diverso ad un’anima che avesse sottoscritto un patto col sangue. -
Ciò detto, la bella Ginevra si alzò da sedere, e poco dopo Aloise la vedeva aggirarsi con elegante compostezza in braccio al Cigàla nel turbine della danza.
Ritto in piedi, contro lo spigolo della strombatura di un finestrone che era accanto alla porta, egli era rimasto a contemplare la dama, pensando. A che cosa?
Dapprima cercò di ordinare tutti i suoi concetti, cosiffattamente ingarbugliati e tumultuati nell’anima. Pensò che aveva veduto Ginevra, udito il suono della sua voce, bevuto i raggi che sprizzavano que’ grandi e profondi occhi verdi, che aveva respirata la sua aria, che era penetrato insomma e s’era inebbriato in quell’aureola di luce tiepida e di arcani effluvii che circonda una donna gentile. Ma egli non era contento di sè medesimo, e ricordava di essere stato taciturno, impacciato, poco manieroso.
E poi, che cosa gli avevano detto quelle labbra di corallo? Parole cortesi, ma nulla di particolare, nulla che gli dimostrasse aver ella sentito la presenza di un amore profondo, veemente. Strana logica degli innamorati! Dopo essersi chiarito scontento di sè, riusciva scontento di lei. Avrebbe voluto che ella avesse indovinato su due piedi l’amor suo; ma in che modo? S’era egli mai fatto innanzi? O poteva ella vederlo sul belvedere dell’Acquasola, quando egli stava le ore intiere amorosamente speculando i comignoli del palazzo Vivaldi? O poteva in teatro avvedersi dell’affetto di un uomo, il quale non la guardava mai? E poteva intendere che quel suo continuo girar degli occhi, in aria di sbadataggine, era un sottile accorgimento adoperato per veder lei? E in quella sera stessa, vedendolo e parlandogli per la prima volta, che poteva dirgli di più, se egli era rimasto così senza parole? Che cosa concedergli, se egli non aveva chiesto nulla? Quel poco che aveva ottenuto, egli non l’aveva neppur guadagnato con la sua fatica; ne era debitore all’amicizia, al fare spigliato e gaio dell’ottimo Cigàla.
Mentre tutte queste cose gli tornavano in mente e si schieravano lì dinanzi a lui, armate di quelle minacciose falci che sono i punti interrogativi, egli sentiva la sua logica tapina a disagio; ma tant’è, non sapeva gettar via quella sua arma spuntata e darsi vinto; correva pur sempre a pensare che una donna ha da capire, da indovinare ogni cosa. E poi, a che approdavano tutte quelle buone ragioni, se egli si sentiva stringere il cuore?
Com’era bella ed elegante! Quanto più elegante e più bella in quel punto, e da vicino, che non per lo innanzi, quando gli era dato appena, e raramente, vederla da lontano! Nel contemplarla che faceva, attratta dal braccio del Cigàla in que’ giri vorticosi del walzer, egli pensava alla ebbrezza che lo avrebbe sopraffatto, quando la sua mano avesse stretta la mano di Ginevra, il suo braccio ricinto quella vita svelta ed aggraziata; e così pensando, tremava. Come sarebbe rimasto sulle gambe? I piedi non gli sarebbero rimasti inchiodati sul tavolato?
Ognuno di noi, una volta almeno in sua vita, ha provate queste dubbiezze. Ognuno di noi ha dovuto raccogliersi in quel modo, microcosmo solitario di gioie e di dolori, di rapimenti e di angosce, di desiderii e di timori, frammezzo al turbine di una danza, alle bellezze sfavillanti, ai mille riflessi della luce, alle fragranze dei fiori.
In quel tumulto di pensieri, Aloise era rimasto là ritto, in atto di smemorato. Era solo; il Pietrasanta, l’amico suo, che con qualche celia delle solite avrebbe potuto scuoterlo, mutar l’indirizzo malinconico della sua mente, aveva già trovato il bandolo in quel laberinto di splendide tentazioni, e ballava allegramente con quella magnifica baccante della marchesa Giulia Monterosso.
- Enrico almeno è contento! - pensò Aloise, vedendo l’amico affaccendato intorno alla marchesa Giulia. - Egli ha forse ragione a non lasciarsi cogliere da quella brutta malattia. Dio le fa belle, e poi leva loro l’anima, perchè.... Ma via che bestemmie son queste? -
In quella che Aloise così parlava tra sè, una mano gli posò sulla spalla, e una voce gli disse:
- Orbene, mio bel filosofo, e come va che non ballate? - Aloise si volse, e si vide innanzi il marchese Antoniotto che lo guardava con aria sorridente. I lettori, che conoscono appena questo gentiluomo pel nome di tiranno postogli dal Pietrasanta, si meraviglieranno un poco di tutti questi sorrisi coi quali egli si presenta alla loro attenzione; ma noi non sappiamo che farci. Quella sera il marchese Antoniotto era proprio un zucchero.
- Oh, signor marchese.... - disse il giovine, còlto così alla sprovveduta.
- Che marchese! Qui siamo in due, di questa fatta. Chiamatemi pel mio nome, come io faccio con voi. E ora ditemi un po’, come va che non vi vedo al fianco di qualche bella signora?
- Signor Antoniotto, - rispose il giovane, sorridendo dolcemente, - è cosa facile ad intendersi. Io non sono un gran ballerino, e poi, vivendomene quasi sempre solo, non ho molta dimestichezza con tutte queste graziose dame.
- E state qui meditabondo. Aloise, Aloise, voi covate qualche alto disegno nel profondo dell’anima.
- Io?...
- Sì, voi; ma non ve ne faccio un delitto; - proseguì con voce quasi melata il Torre Vivaldi, in quella che metteva dimesticamente il suo braccio sotto quello di Aloise, e lo tirava fuori dalla strombatura della finestra per condurlo in giro nelle altre sale. - Voi non siete come tutti gli altri della vostra età; io già me n’ero avveduto da un pezzo. Voi avete capito che la vita di un uomo pari vostro ha uno scopo più grave di quello che non si pensi dalla comune dei nostri giovanotti, e ve ne lodo. Ma di ciò parleremo a lungo, perchè avete da essere amico mio, non è vero?
- Signor Antoniotto....
- Bene, bene siamo intesi. Frattanto bisogna che facciate qualche cosa, che danziate, e vi mettiate a conversare con qualcheduna delle nostre signore. Voi saprete meglio di me che le donne non sono disposte a patire l’autorità degli uomini, se questi in alcune cose non si adattano alle loro frivolezze. Volete che vi presenti alla Torralba, che è là seduta?