I pescatori di trepang/7. I mangiatori di carne umana
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CAPO VII.
I mangiatori di carne umana
l capitano, pur troppo, non s’era ingannato!... Qual disordine regnava nel campo, e quale scena offriva!...
L’equipaggio chinese che li aveva vilmente abbandonati nel momento in cui loro stavano per lanciarsi dietro ai selvaggi per riacquistare le caldaie, non era più a bordo della giunca: era tutto a terra, disperso attorno ai depositi di trepang, alle tende ed ai fornelli, ma in quale stato si trovava!...
Quei miserabili anzichè vegliare sui depositi e prepararsi alla difesa nel caso d’un ritorno offensivo degli antropofaghi, avevano approfittato dell’assenza degli uomini bianchi per saccheggiare la dispensa della nave e la cabina del comandante.
Dimenticando la più elementare prudenza, erano tutti sbarcati senza più curarsi della giunca che le onde potevano arenare sulla costa strappando le àncore e si erano dati in preda all’orgia più sfrenata.
Dopo d’aver divorate le conserve alimentari le cui scatole si vedevano disperse dovunque, di aver dato fondo alle provviste di zucchero e di thè, di aver sfondati i barili di carne salata e di acciughe, avevano spillato i cinque barili di sciam-sciù, ubriacandosi sconciamente.
Alcuni vinti dall’ebbrezza potente causata da quel forte liquore, russavano sdraiati gli uni sugli altri, in una confusione indescrivibile; altri stavano ingollando grandi tazze dinanzi a dei giganteschi punch fiammeggianti, cantando rauchi ritornelli; altri ancora, in preda ad un vero delirio, si azzuffavano, strappandosi le code o tempestandosi reciprocamente di pugni che cadevano con un sordo rumore su quei crani pelati, o giocavano i loro ultimi tael1 o sapeke2 fra un urlìo incessante, mentre il capo dei pescatori, a braccetto del mastro d’equipaggio, danzava attorno ai barili, storpiando i versetti di Licu-jen, il poeta più popolare dell’impero chinese, o di Kiai-giù-y.
Nessuno di quegli ubriachi più pensava ai selvaggi e forse nemmeno al capitano ed ai suoi compagni, che forse credevano già morti e fors’anche ad arrostire su d’un braciere, infilzati in uno spiedo gigantesco.
Wan-Stael, pazzo di rabbia, si scagliò in mezzo a quella banda di ebbri urlando:
– Miserabili! Cosa avete fatto?...
Il capo dei pescatori gli mosse incontro traballando sui suoi alti zoccoli dalla suola di feltro, dicendo con voce rauca:
– Toh!... Vi credevo... morto... capitano...
– E vi siete ubriacati, canaglie! – urlò Wan-Stael, alzando su di lui il pugno.
– Eh!... Eh... avevate... del sciam-sciù... eccellente... ma non l’abbiam... consumato... tutto ve lo assicuro.
– Ma sciagurato, non odi tu le urla dei selvaggi?
– I selvaggi!... Ah... sì... sì... sì... ebbene, vi è ancora del sciam-sciù... berranno.
– Ti mangeranno, furfante... A bordo!... A bordo, miserabili!
Il chinese crollò il capo e tornò a danzare attorno ai barili, riprendendo le sue canzoni. Wan-Horn con una potente pedata lo mandò a ruzzolare verso la spiaggia.
Intanto Hans e Cornelio si erano precipitati verso gli altri per costringerli a fuggire nelle scialuppe, ma quei disgraziati non intendevano più alcuna ragione, nè riuscivano a comprendere il tremendo pericolo che li minacciava. Uno solo, che era il meno ubriaco, si era affrettato a raggiungere una delle scialuppe, ma gli altri continuavano a bere, a giocare, a picchiarsi o a dormire.
— Zio, disse Cornelio. Sono tutti ubriachi fradici e non comprendono più nulla.
— Oh!... Miserabili!... esclamò il capitano, che scuoteva rabbiosamente il mastro ed il capo dei pescatori, spingendoli verso le scialuppe. Anche questo disastro ci voleva! Presto, Wan-Horn, Hans, Cornelio, afferrate queste canaglie e portatele nelle imbarcazioni.
— Avremo il tempo necessario? Odo le urla degli australiani a breve distanza, disse il marinaio.
— Cerchiamo di salvarne più che possiamo. Presto, amici, non perdiamo i minuti che sono preziosi.
Si gettarono tutti e quattro in mezzo a quell’orda di ubbriachi, che non voleva intendere ragione, ed a pugni ed a calci, a spinte, malgrado cercassero di ribellarsi, ne trassero dieci o dodici verso la spiaggia, gettandoli l’un su l’altro nella prima scialuppa. Alcuni però, testardi come tutti gli ubriachi, ridiscendevano tosto, cercando di raggiungere i barili per bere un ultimo sorso.
I quattro olandesi stavano per spingerne degli altri, quando i selvaggi, che erano già giunti alle due gole, irruppero nel campo con impeto irresistibile.
– Fuggite! – urlarono Wan-Stael, Wan-Horn e i due giovanotti, afferrando le armi.
I chinesi, udendo i clamori dei cannibali e vedendosi piombare addosso un turbine di lance, di scuri, di boomerangs compresero finalmente il pericolo che li minacciava, ed i fumi dell’ebbrezza in gran parte svanirono. Disgraziatamente era ormai troppo tardi per raggiungere le scialuppe, malfermi in gamba com’erano.
In meno che lo si dica, le orde degli antropofaghi li circondarono, ma il capitano ed i suoi compagni avevano avuto il tempo di fuggire verso la spiaggia ed avevano cominciato un fuoco violento, sparando specialmente sui capi e sugli stregoni.
Vani sforzi!... I selvaggi ormai non lasciavano più le loro prede, quantunque le palle facessero strage fra le loro file. Rovesciate le tende si erano gettati sui depositi di trepang per evitare i cocci delle bottiglie ed avevano cominciato il massacro.
I chinesi però, quantunque ancora mezzi ebbri, non cadevano senza difesa. Addossati gli uni agli altri, si difendevano disperatamente colle schiumarole, cogli arpioni, coi coltelli, coi tizzoni accesi raccolti nei fornelli, coi sassi, coi pugni e perfino coi calci, cercando di ributtare gli assalitori e di raggiungere il capitano ed i suoi compagni.
Parecchi antropofaghi erano caduti e si dibattevano fra le strette dell’agonia, ed altri, gravemente feriti dagli arpioni o coi volti abbruciati dai tizzoni, si trascinavano sulla sabbia emettendo lugubri urla, ma i chinesi cadevano a tre a quattro alla volta.
Due volte Wan-Horn aveva scaricate le spingarde delle scialuppe col pericolo di uccidere contemporaneamente nemici e marinai, e due altre volte Wan-Stael aveva tentato di aprirsi il passo fra le orde per portare un soccorso al disgraziato equipaggio, ma senza felice esito.
Anzi, un centinaio di quei bruti, volendo finirla anche coi bianchi ed esterminare i chinesi caricati nella scialuppa, che assistevano alla pugna senza osare di muoversi, si scagliarono verso la spiaggia.
Non vi era un istante da perdere. Ormai l’equipaggio che si trovava a terra era perduto senza speranza di salvarlo, tanto più che era già stato quasi tutto distrutto.
Se i selvaggi riuscivano ad impadronirsi anche delle scialuppe, nessuno avrebbe più potuto raggiungere la giunca.
– A me, Horn!... – gridò il capitano. – A me Hans, Cornelio!... Cerchiamo di salvare gli uomini della scialuppa!...
Si gettarono furiosamente addosso ai selvaggi, servendosi dei fucili come di mazze, fracassando le lance ed i boomerangs. Per alcuni istanti riuscirono a respingerli, ma quei mangiatori di carne umana tornavano alla carica incoraggiandosi con urla feroci.
– Fuggite! – gridò il capitano ai chinesi della scialuppa, che parevano istupiditi.
Poi balzò nell’altra imbarcazione seguìto da Horn, da Hans, da Cornelio e da un giovane pescatore che era riuscito ad aprirsi il passo attraverso le orde degli assalitori, a colpi d’arpione.
Diedero mano ai remi e s’allontanarono rapidamente, difesi dai due giovanotti che avevano riaperto il fuoco. I chinesi della seconda scialuppa tentarono di seguirli, ma i selvaggi riuscirono ad afferrarla per la sponda prima che s’allontanasse, ed a rovesciarla con tutti i disgraziati che conteneva.
– Alla spingarda, Horn! gridò il capitano con accento disperato. Spazza la spiaggia!...
Il vecchio marinaio, abbandonato il remo, in un baleno caricò il grosso fucile e scagliò sulla spiaggia un nembo di mitraglia. Sette od otto antropofaghi caddero, ma gli altri si gettarono in acqua, afferrarono i chinesi per le code o per i piedi e li trascinarono a terra.
Per alcuni istanti si udirono le urla strazianti dei prigionieri, poi furono soffocate fra i clamori spaventevoli dei vincitori.
Wan-Stael, pazzo di dolore e d’ira voleva ritornare a terra per impegnare una lotta suprema o farsi uccidere, ma Wan-Horn, Hans e Cornelio spinsero invece la scialuppa verso la giunca.
Ormai tutto era perduto e l’equipaggio era già stato massacrato. Ritentare una pugna contro quelle orde cento volte più numerose, sarebbe stata una pazzia, un sacrificio inutile.
– Lasciatemi andare a terra! – esclamava il povero capitano, strappandosi i capelli. – Lasciate che vada a vendicare il mio equipaggio!...
– Per farvi uccidere, signore? – rispondeva il vecchio marinaio. – No, noi abbiamo fatto abbastanza per tentare di salvarli, e non dovete esporre la vostra vita e questi valorosi nipoti.
La scialuppa, attraversata la baia, giunse sotto la giunca, la quale era stata abbandonata dall’intero equipaggio. Salirono sul ponte, poi s’affrettarono ad issare coi paranchi l’imbarcazione, onde impedire ai selvaggi d’impadronirsene e piazzarono la spingarda sul cassero, caricandola a mitraglia.
– Signore – disse Wan-Horn, avvicinandosi al capitano, che gettava sguardi feroci sulle orde dei selvaggi affollate sulla spiaggia. – Credo che ormai più nulla ci trattenga in questa baia.
– Cosa vuoi dire, Horn?
– Che la miglior cosa sarebbe di sciogliere le vele ed andarcene prima che i selvaggi trovino il mezzo di giungere fin qui e tentare l’abbordaggio della giunca.
– E tu vuoi ch’io abbandoni i chinesi?
– Non ne avranno risparmiato uno, signore. Guardate: si accendono dei grandi fuochi sulla spiaggia.
– Ma noi non li lasceremo a divorare tranquillamente quei disgraziati, mio vecchio Horn. Abbiamo ancora una spingarda e i nostri fucili.
– Ed i selvaggi si ritireranno dietro le rupi e banchetteranno al riparo delle nostre palle.
– Ma credi tu che i chinesi sieno tutti stati uccisi?... Se ve ne fosse qualcuno vivo?...
– Lo si udrebbe a gridare o lo si vedrebbe. Gli antropofaghi sono tutti sulla spiaggia ed in mezzo a loro non vedo che dei morti.
– È vero mormorò Wan-Stael, con cupo dolore. Me gli hanno tutti uccisi e mi hanno preso tutto il trepang. Quale perdita, Wan-Horn!...
– Non siamo stati noi ad ubriacare i nostri marinai, signore. Se non avessero approfittato della nostra assenza per abbandonarsi ai loro istinti rapaci e turbolenti, sarebbero tutti vivi ed a bordo di questa nave.
– È vero; noi tutto abbiamo tentato per salvarli. Ma cosa dirà il nostro armatore, quando ci vedrà ritornare senza una olutaria e senza equipaggio?
– Tanti altri pescatori di trepang non sono più ritornati, signor Wan-Stael, voi lo sapete, ed hanno perduto le navi e la vita.
– È vero, Wan-Horn.
– Partiamo, signore. Non siamo che cinque e gli antropofaghi sono almeno quattrocento; se riescono ad abbordarci, per noi è finita.
– Si salpino le àncore e si spieghino le vele, Wan-Horn. Non voglio che i miei nipoti cadano nelle mani di quei ributtanti selvaggi.
– Signor Hans, signor Cornelio e tu, Lu-Hang – disse il marinaio rivolgendosi verso i due giovanotti ed al giovine pescatore – all’argano!...
– Salpiamo l’àncora di poppa – disse il capitano. – Il vento soffia dall’est e metteremo la prua verso l’uscita della baia.
Wan-Horn salì sul cassero per esaminare prima la posizione dell’àncora, ma ad un tratto fu veduto impallidire e fare un gesto di furore.
– Capitano! – esclamò con voce rauca.
– Cosa succede? – chiese Wan-Stael.
– La catena è spezzata e l’àncora perduta.
– Spezzata?... È impossibile!... Era solida e grossa assai.
– E quella di prua è scomparsa! – gridò Cornelio, che era salito sul castello.
Wan-Stael si slanciò verso la prua e vide infatti che anche la catena della seconda àncora era stata spezzata. Non ne rimaneva che un pezzo, il quale pendeva fuori dalla cubia di babordo, per una lunghezza di mezzo metro. L’ultimo anello era stato tagliato, a quanto pareva, a colpi di scure.
Wan-Stael s’avvicinò al giovine pescatore chinese e scuotendolo ruvidamente, gli chiese coi denti stretti:
– Canaglie, cosa avete fatto durante la nostra assenza? Non vi bastava saccheggiare la dispensa dei viveri e la mia cabina, volevate anche mandare in rovina la nave?...
– No, signore – rispose il chinese. – Nessuno di noi ha tagliato le catene, lo giuro su Buddha e su Confucio.
– Sei ben certo, Lu-Hang?
– Sì, capitano. Io mi trovava sul ponte quando i miei compatriotti ebbero la malaugurata idea di ubbriacarsi col vostro sciam-sciù e non vidi alcuno a spezzare le catene.
– Ma chi vuoi che sia stato adunque?...
– Io non lo so, signore.
Ad tratto il capitano si battè la fronte emettendo un grido.
– Wan-Horn! – esclamò.
– Signore!...
– Dov’è il selvaggio che abbiam fatto prigioniero?
— Deve essere ancora nella cala.
— Andiamo a vedere.
Scesero nella camera di prua e passarono nella stiva, ma il selvaggio non v’era più. In sua vece si vedevano dei pezzi di fune sfilacciati e che pareva fossero stati rosi da dei solidi denti.
— Ora comprendo! – esclamò Wan-Stael. – Il furfante, approfittando dell’orgia dei chinesi, ha tagliato le funi coi suoi denti ed ha spezzato le catene a colpi di scure, sperando di far naufragare la giunca sulle scogliere della baia.
— Ma perchè la nostra nave è immobile, mentre non è più trattenuta dalle catene? Il riflusso dovrebbe trasportarla fuori della baia.
— Mi fai paura, Wan-Horn, colle tue parole.
— Mi comprendete?...
— Sì, noi siamo arenati.
— Ho questo timore, capitano.
— Saliamo, Wan-Horn.
Lasciarono la stiva e risalirono in coperta, curvandosi sulla murata di babordo. Solo allora si accorsero che la nave era leggermente sbandata e che la sua carena s’appoggiava, a tribordo, su di un banco di sabbia coperto da un solo metro d’acqua.
— Siamo proprio arenati – disse il capitano tergendosi il freddo sudore che bagnavagli la fronte. – Scende la marea?
— Sì, capitano.
— Sono?
— Le undici.
— Fra quattr’ore l’alta marea raggiungerà la sua massima altezza. Speriamo che ci rimetta a galla.
— E se non riuscisse a discagliarci?
— Abbiamo la scialuppa: ci affideremo a Dio e alle onde!