I naviganti della Meloria/10. Un'eruzione di lave
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X.
Un’eruzione di lave.
Attraversate le ultime rocce, i quattro esploratori giungevano dinanzi ad una immensa galleria, la quale s’addentrava, forse per cinque o seicento metri, nelle viscere della terra.
Più che una galleria, poteva chiamarsi un salone, perchè aveva vôlte spaziose, pareti perfettamente lisce, formate di marmo candidissimo, e qua e là, disposte con una certa simmetria, delle aperture che fino ad un certo punto potevansi scambiare per finestre.
Una luce intensa, rossastra, veniva dall’estremità opposta, ad intermittenze, facendo scintillare i marmi e tingendoli talvolta di riflessi rosei d’una meravigliosa bellezza. Pareva che laggiù ardesse un gran fuoco, quantunque non si scorgesse, almeno pel momento, fiamma alcuna.
Da quella grande spaccatura, poichè pareva infatti tale, giungevano ad intervalli dei sordi boati seguìti da scoppiettii e da sibili strani, poi degli scoppi così poderosi che il suolo della galleria tremava.
Un numero enorme di massi, staccatisi dalla vôlta, ingombrava il terreno e dava un’idea della possanza di quelle esplosioni.
Il dottore ed i suoi compagni si erano arrestati, guardando con stupore quel capolavoro della natura.
— Bello!... — aveva esclamato padron Vincenzo.
— Superbo!... — aveva detto il signor Bandi.
— Una meraviglia!... — avevano aggiunto Michele e Roberto.
— Ma da che cosa proviene quella luce? — chiese Vincenzo. — Si direbbe che qualcuno abbia acceso un falò gigantesco o qualche lampada colossale.
— Deve essere il riflesso delle lave — rispose il dottore.
— E questi scoppi, da che cosa derivano?
— Anche questi dalle lave.
— Udite il suolo a tremare?
— Sì, Vincenzo.
— Che siano sicure le vôlte?
— Non sono ancora crollate.
— Sono avvenute però delle frane. Guardate quanti macigni coprono il terreno.
— Tacete!...
— Cosa succede?
— Mi pare d’aver sentito il terreno a ondeggiare.
— Qualche scossa di terremoto?
— È probabile, Vincenzo.
— Io ho paura del terremoto, dottore.
— Non possiamo sfuggirlo, mio caro. La scossa non si arresterebbe certamente qui.
— Andiamo a vedere quelle lave — disse Michele. — Giacchè siamo venuti fino qui, godiamoci lo spettacolo.
— Sì, andiamo — disse Roberto. — Voglio vederle anch’io.
— Venite! — comandò il dottore.
Quantunque i boati aumentassero di minuto in minuto ed il piano della superba galleria provasse volta a volta delle oscillazioni che potevano determinare qualche spaventevole franamento, i quattro esploratori, vinti dalla curiosità, si slanciarono attraverso i massi ingombranti il suolo.
Di passo in passo che s’avvicinavano a quella squarciatura, i fragori aumentavano e cresceva pure la luce.
Sprazzi sanguigni si riflettevano sulle marmoree pareti della galleria, seguìti talvolta da riflessi lividi, che parevano prodotti da lampade elettriche o da getti di bronzo fuso. Sordi brontolii parevano si propagassero sotto il suolo e sopra le vôlte, seguìti da violente detonazioni e da lontani boati.
Il dottore ed i tre pescatori, attraversata di corsa la galleria, per paura di ricevere sul cranio qualche pietra, giunsero ben presto presso la squarciatura.
Un grido di stupore sfuggì dai loro petti, all’orribile spettacolo che s’offerse dinanzi ai loro occhi.
Al di là di quello squarcio s’apriva un abisso immenso, di forma quasi circolare, colle pareti tagliate a picco, ed in fondo si vedeva un specie di bacino ripieno di pece ardente o di zolfo liquefatto.
Quelle materie incandescenti e liquide, si vedevano ribollire, gonfiarsi, e vomitare lingue di fuoco con sordi boati o con iscoppi secchi e poderosi, lanciando in aria nembi di scintille e nuvole di fumo nerissimo ed impregnato di gas sulfurei che prendevano alla gola i quattro esploratori, minacciando di asfissiarli.
Di tratto in tratto, dal centro di quel bacino, s’apriva come un gorgo, ed una fiammata gigantesca irrompeva con mille sibili, lanciandosi fino quasi a livello della squarciatura, illuminando sinistramente le pareti dell’abisso e la grande galleria.
Quelle eruzioni di fuoco erano subito seguìte da rombi sotterranei e da scosse così violenti che le rocce tremavano come se dovessero, da un istante all’altro, rovesciarsi entro quella bolgia infernale.
— Per centomila merluzzi!... Cosa bolle laggiù!... — esclamò padron Vincenzo, retrocedendo spaventato.
— È la dimora di compare Belzebù!... — disse Michele, turandosi il naso.
— Sono lave in ebollizione — disse il dottore.
— È adunque un vulcano, questo?
— Qualche cosa di simile, Vincenzo.
— Che erutti anche pietre?
— È probabile.
— Udite che rombi spaventevoli?
— E sento anche che le rupi oscillano.
— Mille fulmini!... Dottore, fuggiamo!... Io ne ho abbastanza di questo spettacolo.
— Sì, andiamocene, signore — dissero Michele e Roberto.
Il signor Bandi avrebbe desiderato fermarsi qualche tempo per meglio osservare quel mare di fuoco che ribolliva spaventosamente in fondo all’abisso, ma la prudenza consigliava una pronta ritirata.
Le esplosioni si succedevano con maggior frequenza, lanciando in alto giganteschi pennacchi di fumo e lingue fiammeggianti, e sotto il suolo si sentivano a correre, con crescente fracasso, dei rombi poco rassicuranti. Vi era da temere qualche tremenda esplosione e fors’anche qualche poderosa scossa di terremoto.
— Sì, andiamo — disse, mentre uno spruzzo di lave ardenti si espandeva sui fianchi dell’abisso. — È meglio tornare alla nostra scialuppa.
Si erano tutti quattro lanciati attraverso la galleria, correndo a tutta lena. I rombi aumentavano e ad ogni esplosione che avveniva nel seno di quel bacino fiammeggiante, dei macigni si staccavano dalle vôlte e precipitavano al suolo con orrendo fracasso.
Già avevano percorsa mezza via, quando il suolo oscillò con tale violenza, da farli cadere l’uno sull’altro.
— Per centomila merluzzi!... Il terremoto!... — urlò padron Vincenzo, balzando lestamente in piedi.
— Cerchiamo un rifugio!... — gridò il dottore. — Le vôlte precipitano!...
Vedendo a breve distanza uno di quei vani che figuravano come le finestre di quell’ampio salone, vi si slanciò, seguìto dai tre pescatori.
Quel rifugio era una specie di celletta scavata nel marmo massiccio, di forma perfettamente circolare e capace di contenere una dozzina di persone.
I quattro esploratori vi si erano appena cacciati dentro, quando avvenne una più tremenda scossa seguìta da un tale rombo da credere che il vulcano fosse scoppiato come una gigantesca granata.
Le muraglie della caverna oscillarono spaventosamente, poi le vôlte s’aprirono, e una massa enorme di macigni piombò al suolo, con un fracasso assordante.
— Per centomila pescicani!... — urlò padron Vincenzo, che era diventato pallido come un cadavere. — Stiamo per venire sepolti vivi?
— Non abbandonate questo ricovero!... — gridò il dottore.
— E se l’intera caverna crolla?
— Se usciamo, verremo schiacciati.
— Dottore!... — gridarono Roberto e Michele che parevano impazziti per lo spavento.
– Coraggio, amici!... Tutto finirà.
Le scosse ed i rombi continuavano, mentre dalle vôlte ormai spaccate piombavano nella caverna nuovi massi, i quali rimbalzavano dappertutto, sminuzzandosi. Di quando in quando delle intere rupi precipitavano con un cupo rimbombo, facendo traballare il suolo.
Intanto dalla estremità opposta della galleria, il vulcano ruggiva tremendamente. Bagliori sinistri illuminavano di quando in quando le rocce, e ondate di fumo denso e fetente passavano dinanzi al rifugio dei pescatori e del dottore.
Senza dubbio le lave montavano rapidamente su per l’abisso e vi era da temere che si riversassero nella galleria come un torrente di fuoco.
Il dottore, a rischio di ricevere qualche macigno sul capo, dopo d’aver raccomandato ai suoi compagni di non muoversi, si era trascinato fino al vano per vedere come stavano le cose dalla parte del vulcano.
Dalla squarciatura che metteva nell’abisso, irrompevano vampe e nuvoloni di fuoco; fino allora nessun getto di lava si era rovesciato nella galleria. Dai bagliori però che si riflettevano sulle rocce, si poteva arguire che le materie liquide non dovevano essere molto lontane.
— La nostra situazione si aggrava — disse, tornando rapidamente verso i tre pescatori. — Noi corriamo il pericolo di venire assediati da un fiume di fuoco.
— Che le lave tocchino già l’orlo della squarciatura? — chiese padron Vincenzo, con ansietà.
— Credo che non siano ancora giunte fino là, ma non tarderanno a fare la loro comparsa.
— Se si rovesciano in questa galleria, noi non potremo più uscire, dottore. Verremo bruciati vivi.
— Forse questo pericolo potremo evitarlo. Il suolo della caverna è ormai coperto di massi e obbligheranno le lave a dividersi.
— Vorrei essere sul battello.
— Anch’io, Vincenzo.
— Se provassimo ad uscire?
— Volete farvi schiacciare? Non udite i macigni piombare dall’alto.
— E se le lave invadono questo nostro rifugio?
— Si trova qualche metro più alto del livello del suolo.
— E se il fiume di fuoco aumentasse?
— Questo pericolo non esiste, poichè essendo la galleria in pendìo, le lave si rovesceranno verso il lago.
— E la nostra scialuppa?
— Bah! È lontana dalla gola che noi abbiamo seguìta per giungere fin qui.
— Tuttavia vi dico...
La frase gli fu spenta da uno scoppio spaventevole, seguìto da un rovinìo orrendo delle vôlte. Per un istante parve che l’intera galleria dovesse crollare e che il vulcano fosse scoppiato, ma le enormi pareti di granito, quantunque tremendamente scosse, non cedettero. Solamente in alto franarono nuovamente le vôlte lasciando cadere al suolo una quantità prodigiosa di macigni.
Quello scoppio era appena avvenuto, quando la caverna fu invasa da un bagliore acciecante.
— Le lave! — urlò padron Vincenzo.
— Sì, ed irrompono attraverso la galleria! — gridò Michele, che si trovava più vicino al vano.
Il dottore, vinto da una irresistibile curiosità, si era spinto innanzi.
Quale spettacolo s’offerse allora ai suoi occhi!...
Dalla squarciatura che metteva sull’abisso, si riversava, come un torrente che straripa, una fiumana di liquido ardente che somigliava a bronzo fuso, avendone anche i bagliori.
Erano le lave del vulcano che invadevano la galleria. Il torrente ingrossava, mentre sopra di esso volteggiavano masse di fumo nerissimo impregnato d’un acuto odore di zolfo e di bitume. Trovando la via ingombra di ostacoli che non poteva distruggere, quella materia vischiosa, ma altrettanto pericolosa, di tratto in tratto s’arrestava, si accavallava come le onde del mare in piena tempesta, s’increspava, s’arruffava, mostrando bagliori di fuoco e scintillii di zolfo fuso, poi straripava scivolando, correndo fra masso e masso, fra roccia e roccia, dividendosi e suddividendosi in mille canali e canaletti.
Era uno spettacolo terribile, ma pur ammirabile, superbo!... Perfino i tre pescatori, dimenticando per un istante le loro apprensioni, si erano affacciati al vano e guardavano con un misto di paura e di stupore quella fiumana ardente che dilagava attraverso le frane minacciando d’invadere l’intera galleria.
— Non ho mai veduto nulla di simile!... — esclamò padron Vincenzo. — Tutto questo fuoco fa venire i brividi, ma come è bello!...
— Non rimpiangete adunque questa esplorazione?
— Oh! No, dottore!
— E come faremo noi a uscire da qui? — chiese Michele. — Fra poco avremo la ritirata impedita.
— Questa eruzione non può durare molto — disse il signor Bandi. — Il vulcano finirà col calmarsi.
— E se questa eruzione continuasse qualche giorno?
— Passando di masso in masso credo che potremo giungere allo sbocco della galleria. Aspettiamo che queste scosse cessino, poi ce ne andremo.
— Ma... dottore!...
— Cosa volete, Vincenzo?
— È strana! Le lave ci sono già vicine, eppure non sento alcun caldo!... Si direbbe che questo fiume di fuoco manca di calore.
— Se però tu provassi ad immergere un dito in quella materia vischiosa, lo perderesti in un attimo.
— Bruciano adunque quelle lave?
— Come il bronzo fuso.
— E perchè non irradiano alcun calore?
— Pel motivo che si coprono subito d’una leggera pellicola vitrea, la quale è una pessima conduttrice del caldo. La loro superficie si rassoda prontamente, e se questo fiume non venisse continuamente alimentato, voi lo vedreste quasi subito come cristallizzarsi, non interamente però, intendiamoci, poichè sotto, la materia ardente continuerebbe egualmente a scorrere.
— E questa lava, di che cosa è composta? Sembrerebbe pece mescolata a zolfo.
— Non entrano nè l’una nè l’altro nella sua composizione. Si è creduto che fosse una materia minerale fusa come il ferro, invece non è che un impasto di cristalli, talvolta così piccoli da non potersi discernere, e tal’altra invece grossolani.
— I vulcani ne eruttano molta di questa lava?
— Delle quantità enormi. Vi basti solamente sapere che il nostro Vesuvio, in una sola eruzione, ne vomitò quindici milioni di metri quadrati, del volume di circa settantatrè milioni di metri cubi.
— Tanta lava da fabbricare una città!... E mi hanno detto che i vulcani vomitano anche ceneri e massi enormi.
— Nell’eruzione del 1831 il Vesuvio mandò fuori tanta cenere, da coprire i tetti delle vicine borgate d’uno strato che variava fra i tre ed i sei metri.
— Perdinci! Una vera fortuna per le lavandaie!
— Non certo pei poveri contadini, però.
— Vi credo, dottore.
— Durante poi quell’eruzione, vomitò dei massi di dimensioni straordinarie. Ne fu trovato uno così grosso che venti buoi non riuscirono a smuovere.
— Quello ci voleva sulla testa di Simone.
— Dottore — disse in quel momento Michele. — Le lave ci hanno raggiunti.
— Bisognerebbe andarcene — disse Vincenzo.
— Le vôlte continuano a franare, mio caro. Non udite i massi che precipitano all’estremità della galleria?
— Come finirà tutto questo pandemonio? Comincio ad essere inquieto, dottore.
— Speriamo che il vulcano si calmi presto.
Quella speranza era molto problematica, poichè invece di tranquillarsi, pareva che quell’abisso rigurgitante di fuoco acquistasse maggior forza.
Tremende esplosioni si succedevano quasi senza interruzione, determinando nuovi e più pericolosi franamenti, mentre il suolo subiva, di quando in quando, delle oscillazioni paurose.
La lava aumentava sempre. Nuove ondate si accavallavano dinanzi alla spaccatura e si rovesciavano furiosamente attraverso la galleria, sovrapponendosi a quelle già raffreddate.
Vi era il pericolo, che alzandosi continuamente, irrompessero anche nella piccola caverna occupata dagli esploratori.
Il dottore cominciava a diventare inquieto. Bisognava assolutamente lasciare quel riparo e cercare di raggiungere lo sbocco della galleria, ma in qual modo? Le lave ormai avevano coperti i macigni che potevano bene o male servire di ponti, e le vôlte continuavano, sotto le poderose scosse, a rovinare.
I quattro disgraziati, rannicchiati in fondo alla piccola caverna, guardavano, con lo sguardo terrorizzato, la terribile fiumana che montava sempre.
— Dottore — disse ad un tratto Vincenzo. — Se non ce ne andiamo, fra mezz’ora le lave invaderanno anche questo rifugio.
Il signor Bandi non rispose. Si era affacciato al vano e osservava attentamente le pareti superiori della galleria che le poderose scosse avevano ormai in parte diroccate e screpolate.
— Decidetevi dottore — disse Vincenzo. — Il pericolo incalza.
— Ho trovato — rispose il signor Bandi.
— Che cosa?
— Forse potremo sfuggire alle lave.
— In quale modo?
— La parete che sta sopra di noi è franata in vari luoghi e mi pare che non sia impossibile scalarla.
— E dove andremo?
— Per ora cercheremo di giungere presso le vôlte, poi vedremo cosa si potrà fare per tornarcene alla scialuppa.
— Ed i sassi che continuano a cadere?
— Cercheremo di evitarli meglio che potremo. Tutto dobbiamo tentare se non vogliamo morire arsi vivi.
— Siamo pronti a seguirvi — risposero i tre pescatori.
— Coraggio e sangue freddo.
Tutt’e quattro, approfittando di un istante di calma del vulcano, si slanciarono fuori.
Lo spettacolo era stupendo ed insieme terribile. Tutta la grande caverna era piena di fuoco: le lave, presa ormai la loro via, si rovesciavano tumultuosamente fra le rovine delle vôlte, sormontando i macigni, accavallandosi, dividendosi e riunendosi, mentre dallo squarcio che metteva sull’abisso, nuove masse di materia incandescente si precipitavano giù in una corsa furiosa, fra vortici di fumo e miriadi di scintille.
Una luce intensa, che aveva riflessi sanguigni, si proiettava sulle rocce tingendole di rosso, illuminando le semi-infrante arcate di quella splendida galleria.
Il dottore, dopo d’aver costeggiato le sporgenze del vano e di essere saltato su alcuni massi che le lave avevano ormai circondati, si era arrestato dinanzi ad una grande spaccatura, la quale saliva verso le vôlte a zig-zag. La parete, poche ore prima tutta d’un pezzo e quasi liscia, era stata spezzata di colpo da una di quelle poderose scosse ed appariva sventrata.
Un gran numero di massi erano caduti da quella fenditura e radunatisi alla base, avevano formata una gran piramide che si poteva, con qualche sforzo, salire.
— Seguitemi! — aveva gridato il dottore, slanciandosi fra quei macigni per poter giungere più facilmente alla spaccatura.
— A me il passo, dottore! — gridò padron Vincenzo. — Ho il piede più fermo! Michele, alla retroguardia tu.
Aiutandosi l’un l’altro, aggrappandosi alle sporgenze delle rocce, puntando i piedi entro le fessure, tirandosi o spingendosi, i quattro coraggiosi salgono fra i turbini di fumo che radono le vôlte della galleria ed i sassi che capitombolano da tutte le parti con un fragore assordante.
La prima spaccatura è felicemente superata. Un’altra si estende quasi verticalmente, profonda e cosparsa di massi rotolati dall’alto.
Il dottore ed i suoi compagni prendono un breve respiro, poi ricominciano animosamente la pericolosa ascensione.
I sassi sfuggono sotto i loro piedi, minacciando di trascinarli seco nella pazza corsa e di scaraventarli fra le lave ardenti che s’accavallano alla base delle pareti; dei macigni, malfermi, scivolano bruscamente sotto le loro mani e vanno a piombare nel torrente di fuoco, sollevando mostruosi sprazzi di materie incandescenti; dall’alto delle vôlte franano incessantemente frammenti di roccia, mentre le scosse fanno oscillare le rupi, screpolandole, ma quei quattro bravi non s’arrestano.
La paura d’altronde li sprona: la morte li minaccia sotto e sopra, e non possono nè esitare, nè arrestarsi.
Finalmente dopo lunghi sforzi giungono sul margine d’una specie di cornicione. Al di là si estendono altre rupi, altre spaccature, forse delle altre caverne.
Il pericolo di venire raggiunti dalle lave è evitato, ma non quello di venire schiacciati dai massi che continuano a staccarsi dalle vôlte.
— Bisogna cercare un rifugio — disse il dottore. — Noi non possiamo rimanere qui, con tutto questo rovinìo di sassi.
— Tanto più che questo cornicione può da un istante all’altro staccarsi — disse padron Vincenzo. — Mi pare che non offra alcuna sicurezza.
— Vedo là un’apertura! — gridò Michele.
— Che sia una caverna? — chiese Vincenzo.
— Andiamo a vedere — rispose il dottore.
Balzando attraverso le rocce mezze franate e sorreggendosi scambievolmente per non precipitare nelle profonde fessure apertesi nella parete, giunsero ben presto dinanzi ad una stretta apertura, la quale pareva che si addentrasse molto nelle viscere della terra.
Il dottore, che non aveva abbandonata la sua lampada, vi si cacciò dentro rapidamente e si trovò in una grande escavazione dalla vôlta tanto bassa da non poter permettere ad un uomo di tenersi in piedi.
All’estremità, al signor Bandi parve di distinguere una stretta galleria, ma non vi fece, almeno pel momento, caso. A lui bastava di aver trovato un ricovero contro quell’incessante grandinare di macigni.
— Saremo sicuri qui? — chiese padron Vincenzo.
Il dottore stava per rispondere, quando una scossa tremenda, seguìta da una esplosione spaventevole, paragonabile allo scoppio di mille cannoni, avvenne.
Le pareti oscillarono dal basso in alto come fossero state sollevate da un titano, poi s’aprirono con uno scroscio orrendo, franando le une addosso alle altre.
— Il terremoto!... — aveva urlato il signor Bandi.
— Si salvi chi può!... — aveva gridato padron Vincenzo, tentando di slanciarsi all’aperto.
— Fermi tutti! — urlò Michele. — La caverna non ha ceduto.
— Ma le lave montano!
Vincenzo si era già slanciato fuori dal rifugio, poi era subito rientrato coi lineamenti sconvolti dal terrore.
— Noi siamo perduti!... — esclamò con voce strozzata. — Guardate!...