I naviganti della Meloria/11. Il fiume di fuoco
Questo testo è completo. |
◄ | 10. Un'eruzione di lave | 12. I furori d'un vulcanello | ► |
XI.
Il fiume di fuoco.
La tremenda scossa non era stata bastante per demolire interamente la grande galleria; però, se le enormi pareti di marmo avevano potuto resistere a quel formidabile sconquasso e mantenersi ancora più o meno diritte, tutta la parte che formava l’entrata era precipitata assieme alle ultime vôlte.
Quell’enorme massa di materiali, accumulandosi, aveva ostruita completamente la via che conduceva al lago, formando un argine insuperabile alle lave.
Il fiume di materie ardenti, troncato a metà dopo un orribile rimescolamento, aveva cominciato a rifluire verso l’abisso, alzandosi gradatamente verso le vôlte.
Essendo la spaccatura del vulcano assai più alta del piano della caverna, vi era da temere che le lave potessero giungere fino al ricovero degli esploratori, prima di riversarsi ancora nell’abisso che le aveva vomitate.
Il dottore, con un solo sguardo, aveva compresa la gravità della situazione.
— Sì, siamo perduti — aveva risposto a padron Vincenzo. — Se non troviamo una via d’uscita, le lave giungeranno ben presto qui e ci bruceranno vivi.
— Che non si possa giungere allo sbocco della galleria? — chiese Michele.
— Ormai è tutta turata.
— Vi può essere qualche buco, signore.
— Ma il cornicione è caduto — disse Roberto.
— E poi ci mancherebbe il tempo di giungere fino là — osservò padron Vincenzo.
— Pure bisogna lasciare al più presto questa galleria — disse il signor Bandi. — L’aria può mancare.
— E come? E per dove passare?
— Cerchiamo, Vincenzo.
— Io credo, dottore, che per noi la sia finita.
— Non disperiamo ancora e... Ah! Forse!...
In quel momento egli si era ricordato di quella specie di galleria che aveva scorto all’estremità della piccola caverna che serviva a loro di rifugio.
— Venite, amici — disse.
— Avete trovato qualche uscita? — chiese Vincenzo.
— Non lo so ancora: vedremo.
Si diresse verso l’estremità del rifugio e si trovò dinanzi ad uno stretto tunnel, il quale s’addentrava nelle viscere della terra, salendo con una certa ripidità. Era impossibile sapere se aveva qualche comunicazione colla grande caverna del lago, oppure se, dopo un certo percorso, si arrestava. Una esplorazione era necessaria.
— Un passaggio? — chiese padron Vincenzo.
— Lo suppongo — rispose il dottore.
— Sarà aperto?
— È quello che vedremo subito.
— Mi sembra molto stretto, però.
— Sarà sufficiente pei nostri corpi.
— Si ode nulla?
— State zitti ed ascoltiamo.
Tutti tesero gli orecchi curvandosi verso terra, ma i boati del vulcano e gli scoppi non permettevano di raccogliere nessun rumore. Al dottore però parve di sentire una corrente d’aria venire dal fondo del tunnel.
— Posso accertarmene — mormorò.
Accese uno zolfanello e lo alzò più che potè. Subito vide la piccola fiamma ondeggiare vivamente poi curvarsi in direzione della galleria.
Un grido di gioia gli uscì.
— Il tunnel è aperto! — esclamò.
— Come lo sapete? — chiesero i tre pescatori.
— Non vedete che la fiammella rimane piegata? È una corrente d’aria che viene dall’estremità di questo passaggio.
— Dunque questo tunnel ha qualche comunicazione colla grande caverna.
— Lo credo, Vincenzo.
— Potremo però passare?
— Se sarà necessario, ci apriremo la via, dovessimo strappare le rocce colle mani. La nostra salvezza sta in fondo a questo tunnel.
— Allora andiamo — disse Vincenzo, risolutamente.
— Monta sempre la lava? — chiese il dottore a Roberto, il quale si era spinto verso l’apertura che metteva nella grande galleria.
— Sempre, signore — rispose il giovanotto. — La caverna sembra un mare di fuoco.
— Seguitemi, amici, e confidiamo in Dio!...
Padron Vincenzo, che era il più robusto, si cacciò pel primo nel tunnel, portando la lanterna, e dietro di lui si spinsero il dottore, Roberto e Michele, quest’ultimo pure fornito d’un’altra lampada.
Quel passaggio rassomigliava ad un budello e pareva che fosse stato formato da qualche corrente di lava. Come si sa, quella materia ardente si copre quasi subito d’una crosta, mentre al di sotto scorre sempre, come se fosse imprigionata entro un tubo.
Il torrente di fuoco, esauritosi chissà per quale causa, aveva proseguita la sua corsa, lasciando il condotto, formato dalla prima crosta, completamente vuoto.
Forse, sopra di esso, esistevano altri passaggi consimili, sovrapponendosi talvolta le lave in strati che spesso sono vuoti, ma non era il caso di andarli a cercare. Ai quattro esploratori bastava di aver scoperto quello che stavano percorrendo.
Mentre s’avanzavano strisciando come serpenti, essendo quel condotto diventato molto stretto, le esplosioni e le frane continuavano nella grande galleria, segno evidente che il vulcano non accennava ancora a calmarsi.
Di quando in quando anche il terremoto voleva prendere parte a quella festa di Plutone. Scosse frequenti avvenivano, con grande paura dei tre pescatori, i quali temevano che le pareti porose del condotto cedessero, e di rimanere schiacciati come topi.
Perciò si affrettavano, ansiosi di giungere al sospirato lago, tanto più che la fame e la sete cominciavano a tormentarli, non avendo stritolato un solo biscotto da dieci ore.
Già si erano avanzati per circa trecento metri, quando padron Vincenzo si arrestò.
— Per centomila merluzzi! — esclamò, sbuffando. — Temo che non si possa più andare innanzi.
— Si restringe sempre il condotto?
— Sì, dottore. Sono già tutto scorticato e le mie vesti sono a pezzi.
— E mi pare che anche la vostra lampada si spenga.
— È vero, dottore. Non vi è quasi più olio.
— La mia è già spenta — disse Michele, che veniva ultimo.
— Non ci mancherebbe che questa disgrazia — mormorò il dottore. — Come ci dirigeremo fra le tenebre?
— Avete degli zolfanelli? — chiese padron Vincenzo.
— Ho la mia scatola.
— A qualche cosa ci serviranno.
Il dottore non rispose, ma si terse alcune gocce di freddo sudore.
— Si va innanzi, adunque? — chiese Michele. — Qui si soffoca.
— Tentiamolo — rispose Vincenzo.
I quattro disgraziati esploratori ripresero la faticosa marcia, facendo sforzi sovrumani per trarsi da quelle strette.
Quel tubo, ormai si poteva chiamarlo così, descriveva in quel luogo dei bruschi serpeggiamenti, ed accennava a restringersi sempre più. Le sue pareti ineguali, irte di punte, fortunatamente cedevoli, rendevano il passaggio più faticoso, costringendo padron Vincenzo a delle frequenti fermate per sbarazzare la via da quegli ostacoli.
Puntando le ginocchia, facendo forza di gomiti, stirandosi ed allungandosi, sbuffando e soffiando, i quattro esploratori riuscirono a guadagnare altri cinquanta metri. Erano però tutti scorticati e le loro vesti erano state ridotte, da quei continui sforzi, in uno stato miserando.
Fortunatamente, passate quelle ultime strette, si trovarono improvvisamente dinanzi ad una celletta di forma rotonda e dalle pareti lisce. Sembrava una grande bolla di sapone o di vetro nero.
— Dove siamo, noi? — si chiese padron Vincenzo, tirando il fiato. — Mi pare di essere entro un fiasco di Chianti.
— Vedete nessun altro passaggio? — chiese il dottore. — La corrente di lava non può aver avuta qui la sua sorgente.
— Vedo là un altro budello — rispose il pescatore. — Toh!... Cos’è questo rumore? Si direbbe che noi siamo vicini a qualche cascata d’acqua od a qualche impetuoso torrente.
— Ascoltiamo — disse il signor Bandi.
Tutti tesero gli orecchi, trattenendo il respiro. In lontananza si udiva un sordo fragore che pareva prodotto dalla caduta d’una massa d’acqua. Il dottore, recatosi alla bocca del secondo condotto, s’accorse che quel fracasso veniva precisamente da quella parte.
— La caverna non deve essere lontana — disse. — Se questo secondo tunnel ci permette di passare, fra un paio d’ore possiamo trovarci a bordo della nostra scialuppa.
— Da cosa lo arguite? — chiese padron Vincenzo.
— Non vi ricordate di quella cateratta che precipitava nel lago?
— Sì — risposero i tre pescatori.
— Il fragore che udiamo deve essere prodotto da quella.
— Fosse vero! — esclamò padron Vincenzo. — Darei un anno della mia vita per trovarmi nella nostra scialuppa.
— Ripartiamo, amici.
— Mille merluzzi!
Proprio in quel momento la lampada, dopo un ultimo guizzo, s’era spenta, e l’oscurità era piombata bruscamente entro quella grande bolla di lava.
— Non importa — disse il dottore. — Ormai sappiamo che il tunnel sta dinanzi a noi.
— E poi avete ancora degli zolfanelli — disse Michele.
— Sì, avanti amici!
I quattro esploratori si erano cacciati animosamente nel secondo budello, cercando di affrettare la marcia. Padron Vincenzo, che si trovava alla testa, prima di fare un passo innanzi, tastava prudentemente il suolo, temendo di precipitare entro qualche fenditura o, peggio ancora, in qualche abisso.
Di quando in quando si arrestava per tendere gli orecchi, e con suo grande piacere poteva constatare che il fragore della cascata diventava sempre più intenso.
— Sì, siamo sulla buona via — mormorava. — Il lago non deve essere lontano.
Dopo un quarto d’ora s’accorse che la galleria si allargava bruscamente. Tese le braccia a destra ed a sinistra, ma non sentì più le pareti.
— Dottore, accendete uno zolfanello — disse. — O che ci troviamo in una caverna, o dinanzi ad un abisso.
— Che si tratti d’un’altra bolla di lava?
— Non credo, dottore, ma... sento una forte corrente d’aria che mi soffia proprio in faccia.
— Che siamo giunti al lago? Il muggito della cateratta è ormai diventato assordante.
— Fate un po’ di chiaro.
Il signor Bandi accese un cerino. La fiammella era troppo debole per sapere d’un solo colpo dove si trovavano; però gli parve di distinguere, a pochi metri, una parete.
— Siamo in una caverna — disse.
In quell’istante una forte corrente d’aria gli spense il cerino.
— Da dove viene questo vento? — si chiese. — Che vi sia qualche apertura?
— Mi pare d’aver scorto laggiù uno squarcio — disse Roberto.
— Andiamo a vedere.
Accese un secondo cerino, e tenendolo riparato con ambe le mani, s’avanzò nella direzione indicatagli dal pescatore. La corrente d’aria veniva precisamente da quella parte, ed era così violenta, che il dottore non riusciva quasi a mantenere accesa la fiammella.
Percorsi quindici passi, si trovò dinanzi ad un’apertura irregolare, la quale metteva su di un abisso che era impossibile a misurare. Guardando però più sotto, scorse una specie di scarpa, formata da lave accumulatesi e che non sembrava difficile a scendere.
— Dove siamo noi? — si chiese.
— Dove? Non udite? — disse padron Vincenzo.
— Che cosa?
— Il rompersi delle onde contro le scogliere!
— Ma dunque noi ci troviamo...?
— Presso il lago, dottore. Un marinaio non può ingannarsi e sa distinguere il fragore della risacca anche a parecchie miglia di distanza.
— Allora siamo salvi e...
Egli si era bruscamente interrotto, per mandare un grido di stupore.
— Cosa avete, signore? — chiesero i pescatori, slanciandosi verso di lui.
— Guardate... là... sulle acque del lago!...
— Per centomila merluzzi!... — esclamò padron Vincenzo, tendendo le pugna. — Un lume!...
— Un fanale di nave!... — esclamarono Roberto e Michele, con voce rauca.
Un punto luminoso, a luce rossa, si rifletteva sulle oscure acque del lago, ad una grande distanza, muovendosi lentamente. Non poteva essere un fuoco prodotto da qualche eruzione di gaz ed acceso per qualche causa ignota, poichè in tale caso non avrebbe avuto certamente quella tinta.
No, doveva provenire da qualche fanale colle lenti rosse, e più probabilmente da un fanale di posizione di una nave.
— Per mille tuoni! — esclamò padron Vincenzo. — Chi sono quegli uomini che solcano le acque di questo canale, che noi credevamo ignorato da tutti? Che vi siano degli esseri umani che vivono fra queste tenebre? Cosa ne dite, dottore?
— Che il nostro segreto non è stato gelosamente conservato.
— Dunque voi credete...?
— Che altri ci abbiano seguìti e preceduti.
— Allora non può essere che quel cane di slavo!...
— È probabile, Vincenzo.
— Bisogna raggiungerlo, dottore!... Se egli giunge allo sbocco del canale prima di noi, ci carpirà la scoperta.
— Lo raggiungeremo, Vincenzo. Quanto credete che quel lume sia lontano?
— Forse due miglia — risposero i tre pescatori, ad una voce.
— Questo lago deve avere adunque una vastità straordinaria. Una vera fortuna, pel capitano Gottardi, di averlo trovato sul suo cammino.
«Amici, scendiamo e cerchiamo la nostra scialuppa.
— Sarà possibile la discesa? Con questa oscurità correremo il pericolo di romperci il collo.
«Avete molti zolfanelli ancora?
— Una mezza scatola.
— Accendetene uno: io e Roberto tenteremo la discesa prima di voi.
I due pescatori, dopo d’aver osservata attentamente la scarpa formata dall’accumularsi delle lave, si calarono prudentemente in quel tenebroso abisso, aggrappandosi colle mani alle creste e puntando i piedi nelle fessure.
Il dottore, curvo sulla fenditura, accendeva uno dopo l’altro i cerini, cercando di proiettare la luce verso i due coraggiosi.
La discesa era più facile di quanto avevano dapprima creduto. Le lave, precipitando da quella fenditura, si erano accumulate in modo da formare come una serie di ondate rotolanti sul pendìo d’una montagna. Raffreddandosi la superficie, avevano conservate quelle strane forme, però qua e là i due pescatori incontravano dei pendii ripidissimi, cosparsi di lave, detti a corda, perchè in realtà somigliano ad enormi gomene arrotolate alla rinfusa, o ad ammassi di budella sparse da una enorme ventraia.
Il dottore e Michele seguivano con ansietà la discesa dei due coraggiosi, temendo sempre di vederli da un istante all’altro precipitare nel tenebroso abisso che si estendeva in fondo a quella prima scarpa.
Di quando in quando, il dottore, non potendo frenare le proprie inquietudini, chiedeva:
— Vi è pericolo?
— No — rispondeva invariabilmente padron Vincenzo.
Giunti trenta metri più sotto, i due pescatori si arrestarono. La luce non giungeva più fino a loro e non osavano continuare la perigliosa discesa, temendo di trovarsi improvvisamente sull’orlo di qualche baratro che non potevano distinguere e precipitarvi dentro.
— È necessario che ci raggiungiate — disse Vincenzo. — Qui non si vede più nulla.
— Andiamo — disse il dottore, volgendosi verso Michele.
— Tenetevi presso di me, signore — rispose questi. — Un marinaio ha il piede più pronto e non perde mai l’equilibrio.
Abbandonarono il crepaccio e cominciarono a loro volta la discesa, superando una dopo l’altra quelle onde solidificate e poi quell’ammasso di cordami o di budella.
I due pescatori s’erano fermati presso una stretta gola, formata probabilmente dalle lave e che scendeva con una certa rapidità fra due alti muraglioni di marmo bianco.
Padron Vincenzo stava per cacciarvisi dentro, quando, girando gli sguardi in direzione del lago, scorse, ad una distanza di tre o quattrocento metri, un vivo bagliore che già ben conosceva.
— I funghi! — esclamò, con voce giuliva.
— Si vedono? — chiese il dottore.
— Sì, anch’io li vedo! — esclamò Michele.
— Allora siamo vicini alla scialuppa.
— Fra cinque minuti vi saremo, dottore.
— Ed il punto luminoso?
— Scomparso, signore — rispose Roberto, che era salito su di una rupe.
— Si fossero annegati, almeno! — esclamò padron Vincenzo.
— Forse quegli uomini si saranno fermati in qualche baia, difesa da qualche scogliera.
— O saranno giunti all’imbocco del tunnel, dottore.
— Non importa, li raggiungeremo.
— Dovessimo arrancare come i galeotti della Repubblica veneziana — disse Michele.
— Avanti, scendiamo!
Si cacciarono entro la stretta gola, e sorreggendosi l’un l’altro, cinque minuti dopo giungevano presso l’ammasso di funghi. La scialuppa non doveva trovarsi che a pochi passi.
Essi si slanciarono verso la piccola baia che s’apriva dinanzi a loro, e poco dopo ritrovavano finalmente il battello ancora legato allo scoglio.
— Per mille milioni di merluzzi! — gridò padron Vincenzo, balzandovi dentro. — Credevo proprio di non doverlo più mai rivedere!...
«Ah! Dottore!... Bisogna dire che siamo stati fortunati!...
— Lasciate stare la fortuna e accendiamo un po’ di fuoco. Vi confesso che muoio di fame.
— Al lavoro, cuochi!...
— Pronti, padrone — risposero Roberto e Michele.
— E levate anche una bottiglia — comandò il dottore. — Ce la siamo guadagnata.
— Allora mi ci metto anch’io — disse padron Vincenzo. — Per mille merluzzi!... Faremo un banchetto per festeggiare il nostro felice ritorno.
— Oh!...
— Cos’hai, Roberto?
— Ancora il fanale!...
— Vada al diavolo! Non possiamo occuparci di lui per ora. Orsù, preparate le pentole!...