I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XXXV
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XXXV
Raffinamenti gesuitici.
Il segretario di Stato era aspettato nel suo gabinetto dal Generale dei gesuiti, al quale entrando mostrò la sentenza che aveva in mano.
Tanta era l’impazienza del generale, ch’esso la prese dalle mani del cardinale, prima che questi gliela porgesse. La svolse, la guardò e appena ebbe posti gli occhi sull’exequatur papale, sul suo volto si dipinse quel sorriso, che poco prima si era ripercosso fra il padre Ferri, e il cardinale Antonelli.
Fra quelle tre persone regnava il silenzio. Antonelli si era seduto allo scrittoio. Il generale, ritto in piedi colla sentenza in mano, vi teneva fisso lo sguardo senza leggerla. Il gesuita stava in piedi in atto rispettoso vicino alla porta.
Il primo a rompere il silenzio fu il cardinale.
— Ed ora, disse, non resta a far altro che a dare esecuzione alla sentenza.
— E nel più breve tempo possibile, aggiunse a modo di coda il gesuita.
Il Generale tacque alquanto, poi disse:
— No!
E mentre pronunciava quel monosillabo, i suoi occhi mandarono un lampo che dava a quella parola una sinistra espressione.
Il cardinale, alquanto sorpreso di questo contegno, di cui non comprendeva il significato, soggiunse, rivolto al Generale:
— Che cosa dice, vostra reverenza? Non è urgente di dare questo esempio al più presto possibile?
— No! ripete il Generale colla stessa energia selvaggia.
— Mi permetta di dirle, reverenza, che non comprendo perchè si dovrebbe tardare. Il lavoro della Sacra Consulta fu anzi affrettato negli ultimi stadi del processo, perchè la sentenza potesse venire emanata qualche giorno prima del dì 22 ottobre. Il 22 ottobre, come ella sa, fu il giorno in cui scoppiò la nefanda ribellione, il giorno in cui Monti e Tognetti commisero il loro misfatto. Ebbene, fu nostro pensiero che quel giorno stesso sia destinato al loro supplizio. Così daremo occasione ai framassoni romani di festeggiare degnamente l’anniversario della loro impresa. Ai piedi del patibolo dei loro compagni, potranno rinnovare i giuramenti della cospirazione.
E il cardinale pose fine al suo dire con un riso secco e stridente.
Il Generale dei gesuiti lo guardò fisso, con uno sguardo così cupo che mise un brivido nelle fibre dello stesso cardinale: gli si avvicinò; prese una sua mano fra le sue; gli appressò la bocca all’orecchio, e mormorò con strano accento queste sole parole:
— Eminenza! Aspettiamo: non vi perderemo nulla.
Poi baciò la mano al cardinale, e dopo gl’inchini di uso, seguito dal suo gesuita, uscì dalle stanze, e discese le scale del Vaticano.
Col suo consiglio, il Padre Generale dei gesuiti induceva il governo pontificio a protrarre per lunghi giorni l’agonia dei due condannati, dopo che, essendo stata dal sovrano rifiutata la grazia, e ordinata l’esecuzione della sentenza, la loro morte era irrevocabilmente decisa. Ciò che indusse il Generale a questo consiglio, non fu solamente il desiderio di una raffinata vendetta, prodotta dagli spasimi di quegli infelici, sospesi fra la vita e la morte, e lungamente straziati dalla terribile alternativa, dalla lotta tormentosa fra la speranza e il timore che accompagnano fino sul palco il condannato a morte.
Esso pensava ancora che si poteva usufruire quel martirio atroce, pel maggior utile della Santa Sede, e la maggior gloria di Dio.
Era facile infatti che facendo balenare la speranza della grazia, ossia della vita, a quegli sventurati che già si sentivano col piè nella fossa, si ottenessero dalle loro labbra delle rivelazioni, che mettessero la curia sulla strada di nuove procedure, e procacciassero altre vittime alla ghigliottina papale.
In tale bisogna, s’impiegò lo zelo e l’acume del giudice Marini, uomo rotto a tutte le arti sottili del processante pontificio, e che aveva data tanta prova del suo valore in quel medesimo processo. Egli con lena infaticabile, ritornò a tentare e premere con domande suggestive e artificiose lusinghe i due condannati, cercando con ogni mezzo di estorcere da loro il nome di nuovi complici tuttora impuniti.
Ma tutte le fatiche del cavaliere piano riuscirono vane di contro alla fortezza dei due martiri coraggiosi, che si dichiararono mille volte pronti alla morte, piuttosto che all’infamia del tradimento.
... una donna venne a genuflettersi innanzi al Papa. — Pag. 140.
Nè si diedero vinti per questo i martoriatori, chè disperando di ottenere le bramate rivelazioni, volsero ad altro intento l’ingegno, perchè non restasse affatto senza frutto l’indugio frapposto alla piena soddisfazione della vendetta sacerdotale.
Pensarono, che i condannati fermi al niego sul punto della denuncia, si potevano almeno, in quell’estrema angoscia della prolungata agonia, costringere a umilianti ritrattazioni, a forzate dimostrazioni di pentimento. Così, non solamente avrebbero essi immolate quelle vittime, ma le avrebbero insultate e vilipese, presentandole al cospetto del mondo siccome colpevoli morsi dal pungolo della coscienza, e maledicenti il loro passato, siccome codardi che genuflessi implorano il perdono dai loro carnefici.
Che i gesuiti abbiano raggiunto questo scopo meglio del primo, hanno voluto farlo credere essi medesimi. Infatti essi fecero stampare, diffondere e spiegare al popolo nelle chiese una lettera che, dicono, Giuseppe Monti avea diretta al Papa dal fondo della sua prigione.
In quella lettera, Monti avrebbe manifestato di essere stato ascritto alla società massonica, e che da questa era stato condotto al passo in cui si trovava; avrebbe inoltre chiesto umilmente perdono a Dio e al Santo Padre del suo operato, rivolgendosi per ultimo allo stesso Pontefice, implorandone la benedizione, e raccomandando alle preghiere di lui l’anima sua, ed alla sovrana generosità un piccolo figlio.
Sappiamo quante volte la Corte romana abbia falsate consimili ritrattazioni, e abbiamo quindi tutta la ragione di credere apocrifa anche questa: tanto più dopo che la loggia massonica Fabio Massimo ha dichiarato che l’infelice Monti non aveva mai appartenuto a quell’associazione. Ma fosse pur vera quella lettera, essa ridonderebbe a maggiore infamia del Papa e del suo governo.
Si comprende infatti come possa essere carpita facilmente una simile dichiarazione, nelle angosce del carcere e alla vigilia del supplizio, a un povero condannato a morte, marito e padre! Ma ciò che sorpassa le forze ordinarie della mente, si è il comprendere come il vecchio prete che regna in Roma abbia risposto al padre di famiglia che gli domandava perdono e implorava la sua compassione per la prole innocente, gli abbia risposto, diciamo, compartendo sul di lui capo la paterna benedizione, e consegnando in pari tempo quel capo alle mani del boja!
Stentavano intanto nella durezza della prigione e nella riflessione della morte imminente, i due condannati, sorbendo da oltre un mese l’amarezza degli estremi momenti. E intanto i loro carnefici stavano studiando il modo di rendere più raffinate le delizie della vendetta. La vendetta fu chiamata un giorno il piacere degli dèi: ora potrebbe dirsi il piacere prediletto dei preti sovrani.
Passato l’anniversario della insurrezione romana, si studiava di scegliere per l’esecuzione un giorno, nel quale il supplizio di Monti e Tognetti suonasse come un insulto eloquente al principio nazionale degl’Italiani.
Di lì a poco parve presentarsi una favorevole occasione per porre in atto quel divisamento. Il principe Umberto e la principessa Margherita, recandosi da Firenze a Napoli per la via ferrata, sarebbero passati dalla stazione di Roma.
Nessun momento poteva essere più propizio di quello. Quando appunto i principi italiani si fermavano per qualche momento alla stazione di Roma, dovevano balzare le teste dei due condannati. Per tal modo i giovani principi, la dinastia di Savoja, la nazione italiana, il principio unificatore, ricevevano ad un punto l’impronta di un oltraggio feroce.
È noto come i principi fossero avvertiti a tempo di quanto meditava a loro scorno la Corte papale, e come, cambiando l’itinerario prescritto, evitassero studiosamente la cerchia di Roma e i confini papali.
Perduta anche quella occasione, e impazienti oramai dell’ultima strage, piuttosto che stanchi di martoriare le loro vittime, i preti governanti di Roma fissarono la morte di Monti e Tognetti pel giorno 24 novembre, giorno della riapertura del Parlamento italiano, per inviare quell’annunzio ferale, come saluto beffardo ai rappresentanti della nazione.
Dal giorno della condanna erano passati trentanove giorni! trentanove giorni che i condannati a morte consumarono ora per ora in dolorosa agonia! trentanove giorni, nei quali i loro parenti attesero mille e mille volte la grazia, per ripiombare mille e mille volte nella disperazione.