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144 i processi di roma


— Che cosa dice, vostra reverenza? Non è urgente di dare questo esempio al più presto possibile?

— No! ripete il Generale colla stessa energia selvaggia.

— Mi permetta di dirle, reverenza, che non comprendo perchè si dovrebbe tardare. Il lavoro della Sacra Consulta fu anzi affrettato negli ultimi stadi del processo, perchè la sentenza potesse venire emanata qualche giorno prima del dì 22 ottobre. Il 22 ottobre, come ella sa, fu il giorno in cui scoppiò la nefanda ribellione, il giorno in cui Monti e Tognetti commisero il loro misfatto. Ebbene, fu nostro pensiero che quel giorno stesso sia destinato al loro supplizio. Così daremo occasione ai framassoni romani di festeggiare degnamente l’anniversario della loro impresa. Ai piedi del patibolo dei loro compagni, potranno rinnovare i giuramenti della cospirazione.

E il cardinale pose fine al suo dire con un riso secco e stridente.

Il Generale dei gesuiti lo guardò fisso, con uno sguardo così cupo che mise un brivido nelle fibre dello stesso cardinale: gli si avvicinò; prese una sua mano fra le sue; gli appressò la bocca all’orecchio, e mormorò con strano accento queste sole parole:

— Eminenza! Aspettiamo: non vi perderemo nulla.

Poi baciò la mano al cardinale, e dopo gl’inchini di uso, seguito dal suo gesuita, uscì dalle stanze, e discese le scale del Vaticano.

Col suo consiglio, il Padre Generale dei gesuiti induceva il governo pontificio a protrarre per lunghi giorni l’agonia dei due condannati, dopo che, essendo stata dal sovrano rifiutata la grazia, e ordinata l’esecuzione della sentenza, la loro morte era irrevocabilmente decisa. Ciò che indusse il Generale a questo consiglio, non fu solamente il desiderio di una raffinata vendetta, prodotta dagli spasimi di quegli infelici, sospesi fra la vita e la morte, e lungamente straziati dalla terribile alternativa, dalla lotta tormentosa fra la speranza e il timore che accompagnano fino sul palco il condannato a morte.

Esso pensava ancora che si poteva usufruire quel martirio atroce, pel maggior utile della Santa Sede, e la maggior gloria di Dio.

Era facile infatti che facendo balenare la speranza della grazia, ossia della vita, a quegli sventurati che già si sentivano col piè nella fossa, si ottenessero dalle loro labbra delle rivelazioni, che mettessero la curia sulla strada di nuove procedure, e procacciassero altre vittime alla ghigliottina papale.

In tale bisogna, s’impiegò lo zelo e l’acume del giudice Marini, uomo rotto a tutte le arti sottili del processante pontificio, e che aveva data tanta prova del suo valore in quel medesimo processo. Egli con lena infaticabile, ritornò a tentare e premere con domande suggestive e artificiose lusinghe i due condannati, cercando con ogni mezzo di estorcere da loro il nome di nuovi complici tuttora impuniti.