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146 | i processi di roma |
Pensarono, che i condannati fermi al niego sul punto della denuncia, si potevano almeno, in quell’estrema angoscia della prolungata agonia, costringere a umilianti ritrattazioni, a forzate dimostrazioni di pentimento. Così, non solamente avrebbero essi immolate quelle vittime, ma le avrebbero insultate e vilipese, presentandole al cospetto del mondo siccome colpevoli morsi dal pungolo della coscienza, e maledicenti il loro passato, siccome codardi che genuflessi implorano il perdono dai loro carnefici.
Che i gesuiti abbiano raggiunto questo scopo meglio del primo, hanno voluto farlo credere essi medesimi. Infatti essi fecero stampare, diffondere e spiegare al popolo nelle chiese una lettera che, dicono, Giuseppe Monti avea diretta al Papa dal fondo della sua prigione.
In quella lettera, Monti avrebbe manifestato di essere stato ascritto alla società massonica, e che da questa era stato condotto al passo in cui si trovava; avrebbe inoltre chiesto umilmente perdono a Dio e al Santo Padre del suo operato, rivolgendosi per ultimo allo stesso Pontefice, implorandone la benedizione, e raccomandando alle preghiere di lui l’anima sua, ed alla sovrana generosità un piccolo figlio.
Sappiamo quante volte la Corte romana abbia falsate consimili ritrattazioni, e abbiamo quindi tutta la ragione di credere apocrifa anche questa: tanto più dopo che la loggia massonica Fabio Massimo ha dichiarato che l’infelice Monti non aveva mai appartenuto a quell’associazione. Ma fosse pur vera quella lettera, essa ridonderebbe a maggiore infamia del Papa e del suo governo.
Si comprende infatti come possa essere carpita facilmente una simile dichiarazione, nelle angosce del carcere e alla vigilia del supplizio, a un povero condannato a morte, marito e padre! Ma ciò che sorpassa le forze ordinarie della mente, si è il comprendere come il vecchio prete che regna in Roma abbia risposto al padre di famiglia che gli domandava perdono e implorava la sua compassione per la prole innocente, gli abbia risposto, diciamo, compartendo sul di lui capo la paterna benedizione, e consegnando in pari tempo quel capo alle mani del boja!
Stentavano intanto nella durezza della prigione e nella riflessione della morte imminente, i due condannati, sorbendo da oltre un mese l’amarezza degli estremi momenti. E intanto i loro carnefici stavano studiando il modo di rendere più raffinate le delizie della vendetta. La vendetta fu chiamata un giorno il piacere degli dèi: ora potrebbe dirsi il piacere prediletto dei preti sovrani.
Passato l’anniversario della insurrezione romana, si studiava di scegliere per l’esecuzione un giorno, nel quale il supplizio di Monti e Tognetti suonasse come un insulto eloquente al principio nazionale degl’Italiani.
Di lì a poco parve presentarsi una favorevole occasione per porre in atto quel divisamento. Il principe Umberto e la principessa Margherita,