I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XXXVI

XXXVI. La vigilia dei condannati a morte

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Capitolo XXXV Capitolo XXXVII
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XXXVI

La vigilia dei condannati a morte.


L’orologio della Chiesa Nuova batteva le ore 11 pomeridiane del giorno. 23 novembre 1868, e le sentinelle degli zuavi appostate intorno alle Carceri Nove si davano di tratto in tratto la voce: All’erta, sentinella! quando all’imboccatura della strada Giulia, dalla parte di San Giovanni dei Fiorentini si avanzavano lentamente i confratelli di San Giovanni Decollato. È una compagnia composta di nobili e di ecclesiastici romani, che esercitano verso i condannati a morte l’ufficio di confortatori. Essi andavano alle Carceri Nove per cominciare le loro funzioni.

A Monti e Tognetti era conteso perfino il sollievo che poteva porger loro la natura, con un estremo riposo: dovevano passare le otto ore, che li separavano dal momento del supplizio, fra le nenie dei confortatori e le esortazioni dei preti.

Mentre i confortatori entravano per la porta del carcere e salivano sulle scale, il secondino Petronio, che doveva aprire le segrete dei condannati, e condurli nella cappella, aspettava l’arrivo della confraternita in quel camerone della prigione, dove l’abbiamo incontrato un’altra volta, e dove faceva fra sè e sè queste riflessioni: [p. 148 modifica]

— Quei due poveretti devono proprio andare alle morte questa mattina!... Questo pensiero mi produce un affanno, che non posso spiegare. Io sono avvezzo a vedere queste disgrazie. Eppure questa volta mi sento proprio stringere il cuore. Ma perchè? Perchè questi due disgraziati non sono assassini. Avranno forse fallato, ma credevano di far bene!,.. Quel povero Tognetti così giovane! E Monti, poveretto, che lascia la moglie e tre figli, e il bambino più piccolo ha diciotto mesi!... Ah, che miseria!... Se dipendesse da me, io farei loro la grazia sul momento. Pare impossibile che il Santo Padre, che dicono che è tanto buono, non debba sentir compassione, quando la sento io, che sono una pellaccia dura d’un carceriere! Ma io sono un ignorante, e lui ne sa più di me. Dovrà andare così, dovrà andare.

Il canto mortuario del miserere che saliva sulla scala, e di lì a poco il chiarore dei ceri, che apparve oltre il cancello, annunziarono l’arrivo della compagnia di San Giovanni Decollato. I confratelli incappucciati entrarono nel camerone.

Uno dei confratelli teneva inalberato il lugubre vessillo della compagnia, che porta dipinto nel drappo nero una testa recisa. Dietro a lui si schierarono in due file gli altri tutti coi cappucci calati sul volto e i ceri accesi in mano, continuando il loro canto funerario.

Due di essi si staccarono dal nero drappello, e, uniti al secondino Petronio, andarono a prendere Gaetano Tognetti nella sua segreta. Lo trovarono che dormiva: lo risvegliarono, e gli annunziarono che si avvicinava l’ora della sua morte. Egli fu assalito da una spasmodica contrazione dei nervi: quella natura giovane e vigorosa si ribellava all’idea di una immatura e violenta distruzione.

Lo condussero in cappella, per consegnarlo colà ad un gesuita, che doveva essere il suo confessore.

Poscia passarono alla segreta di Monti; esso non dormiva, stava invece pregando. Pregava per la donna che lasciava vedova, pei bambini che lasciava orfanelli.

Durante il tragitto dalla segreta alla cappella, Tognetti, sedato quel primo tumulto del sangue, si rimise in calma, e ai confortatori che lo esortavano ad incontrare la morte rassegnato e da buon cristiano, e a pazientare.

— Pazienza! diceva, sì, avrò finito almeno di tribolare. Io già la grazia non l’ho mai sperata. Sapevo bene che il Papa non me l’avrebbe mai fatta.

Appena giunto nella cappella, fu posto nelle mani del gesuita, che subito lo prese a braccetto, e, presentatogli un crocifisso dinanzi alla faccia, gli chiese per prima cosa se credesse nella passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo. [p. 149 modifica]

— Sì, padre, rispose Tognetti: io credo in Nostro Signore, e i miei conti desidero farli direttamente con lui.

Intanto altri confortatori conducevano Monti nella stessa cappella.

E anche a lui:

— Rassegnatevi, dicevano, rassegnatevi, fratello, all’ultima fine.

Esso rispondeva:

— Per me ci sono rassegnato. Solamente mi duole di lasciare senza un aiuto, senza un sostegno al mondo la mia povera moglie e i miei innocenti figliuoli.

— Non temete per essi: il Santo Padre si prenderà cura di loro.

— Quegli che fa morire il padre si curerà dei figli? Io non ho speranza che in Dio! Esso è il padre vero di tutti gli afflitti, e avrà compassione de’ miei poveri piccini.

Intanto il mesto corteo giungeva alla cappella, dove già stava Tognetti inginocchiato. Appena questi vide arrivare Monti, balzò in piedi, e gli corse incontro.

— Giuseppe!

— Gaetano!

E si strinsero in un lungo abbraccio.

Quante memorie, quanti affetti, quanti dolorí si riassumevano in quella stretta! I due amici non si erano più riveduti dalla sera in cui furono arrestati nell’osteria della Sora Rosa. Quanto avevano dovuto soffrire dopo quella sera! Ed ora si rivedevano così vicini alla morte!...

Il primo a trovar la parola fu Tognetti, che disse:

— Povero Beppe! Dopo un anno ti rivedo! e in questo giorno!

— L’ultimo della nostra vita.

Gli astanti rispettarono quell’ultimo segno di amicizia e di ambascia dei due moribondi, e li lasciarono scambiarsi liberamente le supreme parole di addio.

— Povero amico! ripigliò Tognetti. Per colpa mia ti vedo ridotto a questo passo. Io fui che venni a cercarti, a toglierti dal seno della tua famiglia. Perdonami!

— Che io ti perdoni? rispose Monti. No, ciò che ho fatto lo feci perchè me lo consigliava la mia coscienza. Ho cercato di giovare, per quanto potevo, al mio paese: e ho una voce qui dentro che mi dice che il sangue che stiamo per versare non sarà inutile alla causa della libertà, della giustizia e della vera religione di Cristo.

— Coraggio, dunque, caro Giuseppe! Già, quanto avremmo vissuto ancora noi altri? Venti o trent’anni, e poi bisognava in ogni modo morire. Ebbene, figuriamoci di averli campati.

Poi mandò un sospiro, e proseguì:

— Solo mi duole per quella poveretta di mia madre, e anche per la buona Teresa, che mi voleva tanto bene. [p. 150 modifica]

— E a me duole per la povera Lucia, per le nostre creature! Le lascio nella miseria.

— Rassicurati per questo, soggiunse Tognetti. Non è possibile che i nostri fratelli lascino languire le nostre famiglie; noi non lasciamo loro del denaro, ma il nostro nome e il sangue che spargeremo, questo sarà il loro patrimonio.

In questo momento uno dei confratelli, staccandosi dagli altri, venne a porsi fra i due condannati, e li abbracciò entrambi in atto d’amore. Non si poteva distinguere il suo volto a causa del cappuccio che lo copriva, ma era tanta la commozione che appariva ne’ suoi occhi, che Monti e Tognetti si convinsero che lo sconosciuto era un vero amico.

Pareva che volesse parlare e non potesse per la piena dell’affetto. Finalmente proferì con voce tremante queste sole parole:

— Miei cari!

La sua voce era ignota ai condannati.

— Chi siete, che vi mostrate tanto pietoso con noi? chiese Tognetti.

— Diteci almeno il vostro nome, che possiamo tenerlo a mente in queste poche ore che ci restano da vivere, disse Monti.

— Io sono Leoni.

— Il nostro avvocato! esclamarono ad una voce Monti e Tognetti.

Anche nel fondo della loro prigione era giunta la voce del calore e della passione con cui li aveva difesi il giovane avvocato.

— Non posso dirvi, diss’egli, con voce soffocata dalla commozione, non posso dirvi, miei cari amici, quanto io sono addolorato di vedervi a questo punto. Tutto quanto poteva suggerirmi l’ingegno, il cuore, la coscienza, tutto ho detto per voi, ma inutilmente!

— Siamo persuasi di quanto ha fatto per noi, disse Tognetti. Ma è inutile doveva andare così. La ringraziamo proprio di cuore.

— Non possiamo compensarla di tanta carità, se non col nostro amore, e anche per poco, soggiunse Monti.

— Miei cari, riprese Leoni, io avrei voluto procacciarvi la vita, la libertà, ahimè non ho potuto. Solo un ultimo conforto posso recarvi. Vostra madre, Tognetti, vostra moglie, Monti, avrebbero voluto esser qui ad abbracciarvi per l’ultima volta, ma non è stato loro concesso. Io mi sono offerto di venire in loro vece; esse vi mandano per mio mezzo gli ultimi baci. Tognetti, abbracciate vostra madre.

Tognetti si lanciò ad abbracciare Leoni, singhiozzando e baciandolo, come se avesse baciato sua madre. Poi venne la volta di Monti, che intenerito del pari, non si stancava di mandare altri e altri baci a ciascuna delle sue creature.

— Signor avvocato, a lei mi raccomando, disse poscia Giuseppe Monti: la prego di pensare a’ miei figliuoli. Dica alla mia povera moglie, che mi [p. 151 modifica]ha visto ne’ miei ultimi momenti, che io era tranquillo, perchè sicuro nella mia coscienza, e perchè confidava nella misericordia del Signore, che non manca come quella degli uomini. Le dica che fino all’ultimo ho avuta in mente la sua memoria.

— Ed io, aggiunse Tognetti, la prego di andare, dopo che io sarò morto, a consolare mia madre. Le dia lei il tremendo annunzio nel modo che saprà dettarle il cuore. L’aiuti lei a sopportare questo colpo... se pure... potrà rimanere in vita!... Mi ama tanto!... Le dica che mi perdoni tutte le amarezze che le ho cagionate, e che, piacendo a Dio, ci rivedremo nel cielo.

L’amoroso colloquio fu troncato dai gesuiti, i quali, temendo forse che i condannati si occupassero troppo delle cose di questa terra, vennero a prenderli, perchè ciascuno di essi si confessasse.

Intanto sopravvenne un canonico di Santa Maria Maggiore, il quale disse messa all’altare della cappella, e dopo la messa, essendo terminata la confessione dei due pazienti, diresse loro dall’altare un fervorino d’occasione, poi li comunicò coll’ostia consacrata.

Dopo quella, dovettero gl’infelici ascoltare altre due messe in ginocchio, recitando il rosario: nuove torture adottate dalla chiesa romana in sostiSzione delle tanaglie roventi, che una volta si applicavano ai condannati prima di assoggettarli all’ultimo supplizio.

Che diavolo! la morte tutta in un colpo è cosa troppo dolce, non dura che un istante! Bisogna farne gustare l’amaro a goccia a goccia, e per questo ufficio pietoso le messe valgono un tanto più delle tanaglie. Queste coll’acutezza del dolore fisico facevano dimenticare lo strazio morale della distruzione imminente; quelle invece rinforzano più viva nell’animo la tortura del pensiero.