I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XXXIX

XXXIX. Don Omobono

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XXXIX

Don Omobono.


I lettori ricorderanno il povero prete di vettura che comparve nel principio di questo racconto, colla sua miseria e le sue paure. Passata quella burrasca dell’insurrezione, egli era ritornato alle sue consuete abitudini: frequentava le sagrestie delle cento chiese di Roma, e confuso nel crocchio dei sagrestani e dei chierici, tendeva l’orecchio per sentire se si bucinasse di qualche ricco di quella parrocchia che stesse per rendere l’anima al Creatore. In questo caso egli metteva in moto le sue gambe secche e sottili come quelle di uno struzzo; andava a spiare intorno al palazzo del morituro; chiedeva quale fosse la finestra della sua camera da letto, e in quelle imposte figgeva lo sguardo, come il navigante d’un tempo alla stella polare. Appena vedeva aprirsi la finestra, ed era segno che il malato era morto, don Omobono correva subito alla chiesa parrocchiale a farsi iscrivere fra i primi per la messa funebre, sicuro così d’intascare sei, otto, o dieci paoli, secondo il grado di ricchezza o piuttosto di vanagloria della famiglia del defunto.

Nè si creda che il povero prete armeggiasse così per avidità di danaro; gli era proprio che a forza di messe di vettura, per quanto fosse limitato nelle sue esigenze, stentava a campare la vita.

Egli abitava sempre nella casetta di Trastevere, in una stanza adjacente all’abitazione della Lucia Monti. Dopo l’incidente di monsignor Pagni, e più ancora dopo l’arresto e il processo di Giuseppe Monti, don Omobono [p. 158 modifica]non era più entrato nella casa delle due donne, per paura di compromettersi; ma, quando giunsero i giorni della massima afflizione, quando Monti fu condannato a morte, allora il naturale buon cuore del povero prete la vinse sul sentimento di paura che lo predominava, ed egli accorse a confortare come meglio potè la misera famiglia, e, non potendo far altro, a piangere con quelle donne. Quando poi Monti e Tognetti furono decapitati, egli si propose di consacrare alla loro memoria una messa, che avrebbe detta gratuitamente, non ostanti le sue strettezze finanziarie.

Nel giorno seguente a quello in cui ebbe luogo l’esecuzione, don Omobono, incantucciato fra due pilastri di un palazzo in piazza del Gesù, guardava a bocca spalancata una finestra del primo piano, nella casa dirimpetto: aveva saputo appunto allora, nella sagrestia del Gesù, che stava per morire un ricco signore, pel cui funerale si sarebbero dette delle messe da uno scudo l’una per lo meno, ed egli già calcolava su quello straordinario provento, per potere poi nel dì dopo dire la messa gratuita, che stava ne’ suoi progetti.

Un chierico della chiesa, ch’egli aveva lasciata pochi minuti prima, venne a toglierlo da quella contemplazione.

— Don Omobono, disse il chierico, eravate appena partito dalla sagrestia, che il padre Bindi ha mandato a cercare di voi con gran premura.

— Il padre Bindi! disse don Omobono sgusciando gli occhi. Ha cercato di me?

— E con grande premura.

— Eccomi, eccomi; che sua reverenza non abbia da aspettare.

E il prete di vettura, sopravvanzando il chierico, traversò quasi di corsa la piazza, ed entrò con gran furia nel fabbricato del Gesù, per quella porta laterale che mena all’atrio della sagrestia e del chiostro.

La ragione di quella premura si era questa, che padre Bindi era uno dei segretari primari del Padre Generale: a tutti era nota la sua potenza, e don Omobono doveva aspettarsi da quella inattesa chiamata molto bene o molto male.

Salì a tre a tre i gradini della scala, e dal primo laico che incontrò nel corridoio fu guidato, non già nella cella, ma nell’appartamento di padre Bindi. Questi, che era un gesuita lungo e magro, ricevè don Omobono nel suo gabinetto di lavoro, seduto allo scrittoio ingombro di carte, e co’ suoi occhiali sul naso.

— Reverenza, reverenza, mormorò più volte il povero prete, strisciando i piedi per terra, e battendosi il petto col mento.

— S’accomodi, don Omobono, sieda qui vicino a me.

— Troppo onore; mi hanno detto ch’ella mi comandava.

— Sì, desidero parlare con lei, ma senza cerimonie, così... da amici.

— Cosa dice? Troppo onore, reverendissimo! [p. 159 modifica]

— Sappia adunque che l’ho fatto chiamare per l’esercizio di un’opera misericordiosa. Lei è, se non erro, quel sacerdote che abita nella stessa casa colla famiglia di quel disgraziato Monti, che è stato giustiziato jeri: pace all’anima sua!

— Reverenza sì, rispose il prete impaurito, io abito nella stessa casa; ma ho domicilio separato, separatissimo, reverenza.

— Ne sono persuaso; ma insomma, stando ad abitare vicino, avrà, m’immagino, qualche relazione colla vedova del Monti.

— Oh nessuna, reverenza, nessuna, ci conosciamo... così... di saluto appena..... e nient’altro.

— Mi basta senta adunque di che cosa si tratta.

Il nostro Santo Padre, che ha quel cuore pietoso ed angelico che tutti sappiamo, è commosso a compassione pensando al destino di quella donna infelice, di quei poveri figliuoletti. Pensa che quella famigliuola povera e abbandonata potrebbe facilmente volgersi al peccato, e cadere nell’eterna perdizione. Ecco pertanto che cosa Sua Santità ha destinato nell’inesauribile sua misericordia. I figli troveranno asilo nel nostro collegio, e la bambina nell’orfanotrofio del Sacro Cuore. Questa e quelli saranno allevati a nostra cura, e a spese di Sua Santità. La povera madre poi potrà celare il suo dolore nel convento delle Carmelitane scalze, dove per carità della stessa Santità Sua sarà ricevuta senza il pagamento della dote necessaria. Così sarà provveduto alla sorte dell’intera famiglia, la madre e i figli saranno preservati dalle diaboliche tentazioni, e vivranno nel santo timor di Dio. Ella, don Omobono, che è conosciuto dalla Monti, è incaricato di parteciparle le sovrane disposizioni. Queste notizie si ricevono con maggior piacere da una persona amica. E poi, potrebbe avvenire che delle cattive suggestioni, o un funesto spirito di indipendenza, distogliessero la donna dall’accettare per sè e pei figli delle offerte tanto generose e caritatevoli. In tal caso spetta a lei, don Omobono, che come amico di casa, e come sacerdote, parla naturalmente pel bene corporale e spirituale della famiglia. Spetta a lei persuaderla, convincerla e indurla ad accettare il beneficio, che deve ridondare in vantaggio de’ suoi figliuoli. È disposto ad assumere questo ufficio pietoso?

— Sì signore, reverenza! Un incarico che mi viene da lei! Io la servirei in qualunque incontro, in qualsiasi evenienza.

— Va bene; si regoli dunque con prudenza. Ella è stato scelto per questo incarico appunto perchè nella sua qualita di prete... dirò così alla buona, e popolare, non è tale da svegliare... che so io? sospetti... dubbi, timori. Insomma, mi ha capito. Si ricordi sopratutto che preme sommamente al bene spirituale e corporale della vedova Monti, e de’ suoi figli, ch’essa accetti questo paterno e amoroso consiglio. La vada dunque, e il Signore la soccorra col suo divino ajuto in quest’opera di misericordia. [p. 160 modifica]

Così dicendo, padre Bindi si levò in piedi, e con un inchino del capo congedo don Omobono, il quale intanto ripeteva gl’inchini con cui era entrato, dicendo sempre:

— La non dubiti, reverendo. Lasci fare a me. La servirò come si deve.

— Poi verrà ad avvertirmi del risultato, gli disse il gesuita quando esso fu giunto sulla soglia.

— Sì, reverendo; al più presto; stia pur sicuro.

Poi dopo un ultimo inchino, infilò il corridojo, quindi la scala, e giù pei gradini, saltandoli questa volta a quattro a quattro. Traversò la piazza del Gesù, sbirciando quella finestra, ch’era tuttora chiusa, e via via s’avviò verso Trastevere.