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monti e tognetti 157


L’idea terribile di quanto era avvenuto si affacciò allora alla mente della madre.

L’ora era passata; se la grazia non era intervenuta, e dunque la morte del suo Gaetano era consumata. Lo pensò in un baleno.

Essa si era lasciata vincere dall’entusiasmo della speranza troppo addentro; il contraccolpo fu tremendo.

Leoni la vide farsi livida a un tratto, e cadere all’indietro sul letto.

Corse a sostenerla: era morta!

In quel medesimo giorno il principe Rizzi presentò a sua moglie come un regalo l’anello insanguinato di Curzio, con queste parole:

— La partita è vinta!

La principessa mandò un grido, e fuggì dal palazzo. Poche ore dopo essa era chiusa nel convento delle sepolte vive, dov’era badessa una sua zia. Tutto il potere del cardinale suo cognato non valse a toglierla da quell’asilo.


XXXIX

Don Omobono.


I lettori ricorderanno il povero prete di vettura che comparve nel principio di questo racconto, colla sua miseria e le sue paure. Passata quella burrasca dell’insurrezione, egli era ritornato alle sue consuete abitudini: frequentava le sagrestie delle cento chiese di Roma, e confuso nel crocchio dei sagrestani e dei chierici, tendeva l’orecchio per sentire se si bucinasse di qualche ricco di quella parrocchia che stesse per rendere l’anima al Creatore. In questo caso egli metteva in moto le sue gambe secche e sottili come quelle di uno struzzo; andava a spiare intorno al palazzo del morituro; chiedeva quale fosse la finestra della sua camera da letto, e in quelle imposte figgeva lo sguardo, come il navigante d’un tempo alla stella polare. Appena vedeva aprirsi la finestra, ed era segno che il malato era morto, don Omobono correva subito alla chiesa parrocchiale a farsi iscrivere fra i primi per la messa funebre, sicuro così d’intascare sei, otto, o dieci paoli, secondo il grado di ricchezza o piuttosto di vanagloria della famiglia del defunto.

Nè si creda che il povero prete armeggiasse così per avidità di danaro; gli era proprio che a forza di messe di vettura, per quanto fosse limitato nelle sue esigenze, stentava a campare la vita.

Egli abitava sempre nella casetta di Trastevere, in una stanza adjacente all’abitazione della Lucia Monti. Dopo l’incidente di monsignor Pagni, e più ancora dopo l’arresto e il processo di Giuseppe Monti, don Omobono