I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo IX

IX. La caserma di Serristori

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IX.

La Caserma di Serristori.


Mentre accadevano le cose narrate nei capitoli precedenti, Curzio, Monti e Tognetti si accingevano all’opera, ch’era stata affidata al loro patriottismo. Una delle parti più importanti del piano d’insurrezione era certamente la mina della caserma Serritori.

La caserma situata nel rione di Borgo, e a poca distanza dal palazzo del Vaticano, era occupata dagli zuavi pontifici. Questo corpo è reclutato fra i clericali più fanatici e feroci, su tutti i ponti del globo. È un’accozzaglia di gente, di stirpi, e di lingue diverse, che non ha altro vincolo cumune se non che l’acciecamento e l’intolleranza religiosa. Sono i giannizzeri del potere temporale.

Facendo saltare in aria quella caserma, e con essa la maggior parte degli zuavi, si toglieva il nerbo principale delle truppe papali, e mentre gl’insorti si trovavano a fronte di un numero preponderante, s’impediva almeno che nuove forze sopraggiungessero ad opprimerli del tutto, siccome poi sgraziatamente avvenne.

Quella operazione non era però senza un grave pericolo, e si richiedeva ad eseguirla una straordinaria audacia combinata col massimo sangue freddo. Fu perciò che Tognetti, il quale godeva tutta la fiducia dei capi, avendo ricevuto insieme a Curzio l’incarico di quella impresa, pensò di assocciarsi nella esecuzione l’opera dell’amico Monti, del quale gli erano noti così il coraggio come la sicurezza. [p. 40 modifica]

Si trattava d’introdursi in un magazzino di armi sottoposto alla caserma, al quale si poteva accedere per una porta che si apriva sulla via di Borgo Vecchio, introdurvi dei barili di polvere e appiccarvi il fuoco. Conveniva eludere la vigilanza delle sentinelle, e correre il pericolo imminente di rimanere vittima dell’esplosione.

L’impresa era stata da lunga mano preparata dai capi; erasi fabbricata una chiave, che poteva aprire dal di fuori il magazzino, si erano riempiti di polvere due grossi barili, e finalmente si erano eseguite delle esperienze, dirette a conoscere se l’esito del colpo sarebbe riuscito quale si voleva. Fu concertato fra i tre compagni che Monti e Curzio per primi, passando per la via di Borgo Vecchio, sarebbero entrati rapidamente nel magazzino, richiudendo la porta; per essere pronti ad aprirla, quando Tognetti, che andava in traccia dei barili di polvere, fosse sopravvenuto con quelli in una vettura.

Pochi istanti prima che Monti e Curzio entrassero nel magazzino, questo era occupato da più zuavi.

Un capitano si era recato, con un sergente e diversi soldati, a prendervi delle munizioni, per due compagnie che dovevano andare a rinforzare il posto di Porta San Paolo. Là, come sappiamo, una intera colonna di pontificj aveva impegnata battaglia contro pochi valorosi, ed era stata respinta.

Mancavano pochi minuti alle sette, quando Curzio e Monti, entrarono dentro il magazzino, e lo trovarono affatto vuoto di gente.

Il loro ingresso era passato inosservato anche al di fuori.

Era una vasta camera terrena a vôlta, e in quel momento, dopo richiusa la porta, vi regnava una perfetta oscurità.

I due compagni s’inoltrarono cautamente a tentoni, tenendosi per mano.

Curzio inciampò in qualche cosa che diede un suono metallico.

Sporse innanzi la destra e tastò. Era un fascio di fucili.

Procedettero innanzi e questa volta fu Monti che incespicò, e quasi cadde: aveva inciampato contro un mucchio di mattoni.

Quivi si fermarono, argomentando di trovarsi nel bel mezzo del camerone.

— Eccoci nel magazzino, disse Curzio a bassa voce: E qui sopra sta la caserma degli zuavi.

— Ed ora, disse Monti, aspettiamo Tognetti. Non tarderà molto.

— Le cose sono male avviate, riprese il primo, e senza questo colpo decisivo la causa della libertà è perduta.

— Ma si sentono sempre delle fucilate. I nostri si battono tuttora.

— I nostri sono inermi, che vengono scannati senza pietà dalle bajonette e dal piombo degli stranieri. Sì, Monti, or ora n’ebbi l’avviso. Le spie della polizia hanno scoperto il deposito delle nostre armi fuori della Porta San Paolo, e tutti i fucili colle munizioni furono sequestrati. In [p. 41 modifica]questo momento il popolo romano senz’armi e senza difesa è abbandonato alla strage.

— Ma dunque non c’è speranza?

— Sì, Monti, c’una speranza ancora. I nostri stanno in questo momento assaltando il Campidoglio, sono armi per essi il furore e il disperato coraggio. Quando noi avremo fatto saltare questa caserma, e avremo impedito che nuovi nemici vadano ad assalirli alle spalle, non tarderanno a impadronirsi di quel sacro e antico asilo di libertà. Colassù potremo tener fermo finchè ci giunga il soccorso di Garibaldi. È necessario che l’alba di domani vegga sventolare la bandiera nazionale sulle alture di Roma; altrimenti tutto è finito.

Una vettura si fermò sulla strada, e poco dopo un colpo leggerissimo fu bussato alla porta.

Curzio si avvicinò, e chiese sommessamente:

— Chi è?

— La Libertà di Roma! rispose piano del pari la voce di Gaetano Tognetti.

La porta fu aperta. E Tognetti coll’ajuto dei due compagni, trasse dalla vettura, e introdusse nel magazzino due barili, poi entrò dentro anch’esso.

La porta fu rinchiusa: la vettura partì.

— Come vanno le cose nostre?

Così chiese Curzio a Tognetti.

— Male, rispose. I nostri si trovano dappertutto senz’armi, e vengono massacrati senza pietà.

Bisogna pensare a soccorrerli, disse Curzio. Entrando qui dentro abbiamo urtato in un fascio di fucili. Eccoli... sono qua. Noi porteremo loro queste armi.

— Ma prima, disse Tognetti, dobbiamo eseguire questo colpo della mina.

— Per la mina basto io solo! esclamò Monti, voi altri andute.

— Che dici?

— Sì, fidatevi di me! penso io a tutto. Voi altri andate ad assistere i nostri fratelli, che si battono uno contro dieci.

— Qua, Tognetti, dammi la miccia e parti, al resto penso io.

— La miccia?

— Ma sì.

— Ah! non ci ho pensato!

— Disgraziato e come fare?

— Vado a cercare...

— Ma no, non v’è da perdere un istante. Ogni minuto che passa, costa la vita di cento romani. [p. 42 modifica]

— Non c’è più scampo!

— No, no, disse Monti. C’è un riparo!

— Quale? chiesero Curzio e Tognetti, ansiosamente, a una voce.

— Ecco qua: io tengo in saccoccia dei fiammiferi e un pezzo d’esca, questo mi è sufficiente.

— Che dici?

— Andate voi altri. Qui basto io solo, vi dico.

— No, no tanto pericolo vogliamo dividerlo con te.

— Ah sì!

— E i fratelli che hanno bisogno del nostro soccorso, li lascerete voi senza aiuto? Andate, non perdete tempo; andate a portar loro dei fucili.

— Ma tu come farai?

— Accenderò questo pezzo d’esca, poi lo porrò vicino alla polvere.

— Ma tu ti esponi a una morte quasi sicura.

— Non importa: se io rimango morto, pensate voi alla mia povera moglie a’ miei figli.

— L’Italia intera ci penserà, disse Curzio. Tu rinnovi l’eroismo di Pietro Micca.

— Andate, andate! prendete i fucili.

— E dobbiamo lasciarti solo in tanto rischio!

— Non andate ad arrischiare la vita anche voi altri? correte dove c’è bisogno di voi.

I tre patrioti si strinsero le destre in atto di supremo addio.

Curzio e Tognetti si caricarono di quanti fucili si poterono portare, ed uscirono.

Monti rimase solo.

Chi potrà dire quanti e quali pensieri gli corsero per la mente in quell’istante? V’hanno dei momenti dei quali si comprende una eternità di idee, e quello fu l’un d’essi per Monti. Egli pensò certo alla sua moglie e a’ suoi figli, che aveva nominati poco prima; alla moglie e ai figli, che stava forse per lasciare abbandonati e soli sopra la terra!

Pure egli non cedette a lungo al fascino di quei pensieri: l’idea del dovere, dell’obbligo ch’egli si era assunto in faccia ai compagni, lo dominò, e si accinse all’opera.

Assuefatto al barlume di luce che rischiarava debolmente il magazzino, scorgeva abbastanza gli oggetti che lo circondavano.

Andò a prendere i due barili di polvere nel luogo dove erano stati deposti, e ad uno ad uno li trasportò nel mezzo della camera. Li dispose in modo che le due bocche s’incontrassero.

Poteva avvenire però che non prendessero fuoco insieme. Per ovviare a questo inconveniente, dispose fra le due bocche un mattone, ed estratto da uno dei barili un pugno di polvere, la seminò su quel mattone in modo che servisse di strada da una bocca all’altra. [p. 43 modifica]

Toccò di nuovo i barili, si assicurò che fossero ben disposti, che la polvere di ognuno d’essi si congiungesse a quella del mattone.

— Ed ora, pensò, mi protegga Iddio!

Estrasse di saccoccia, il pezzo d’esca, lo stirò, lo palpò. Poi trasse fuori un astuccio, ne cavò un fiammifero, e lo accese fregandolo contro il medesimo astuccio.

Accostò uno dei capi dell’esca alla fiamma di quel fiammifero, poi la buttò via.

Si assicurò che l’esca fosse bene accesa soffiandovi sopra; poi, aiutato dal debole chiarore che spandeva lo stecco dello zolfanello, tuttora ardente per terra, appressò l’esca alla polvere sparsa sul mattone, e quivi la depose in maniera che coll’estremità non accesa toccasse la polvere.1

Dopo ciò, procedendo a tentoni, ma rapidamente, Monti trovò la porta, ed uscì sulla via.

Era giunto appena nella vicina piazza di Scossa-Cavalli, che una detonazione spaventosa lo avvertiva che la mina era scoppiata.

Note

  1. Questi particolari sono esattamente conformi alla stessa confessione fatta dal Monti durante il processo.