I drammi della schiavitù/5. Il carico di carne umana

5. Il carico di carne umana

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V.


Il carico di carne umana


Il baracon del re Bango, era un’immensa tettoia costruita a breve distanza dal fiume, aperta da tutti i lati, ma circondata da un’alta e robusta palizzata, impossibile a scalarsi od a sfondarsi e guardata da un numeroso drappello di guardiani armati di fucili e di terribili sferze di pelle di ippopotamo, un colpo solo delle quali, basta per rovesciare il più vigoroso uomo.

Colà, i negri, ammucchiati alla rinfusa da parecchie settimane, attendevano, in preda a inenarrabili angosce, l’arrivo della misteriosa nave che doveva rapirli per sempre alla terra africana. I più stavano sdraiati qua e là, cupi, taciturni, i figli stringendosi addosso alle povere madri, i fratelli alle sorelle, i mariti alle mogli che forse, fra pochi mesi non dovevano più mai rivedere; gli altri, i più vigorosi ed i più indomiti, s’aggiravano lungo le palizzate come belve entro la gabbia, imprecando contro l’infame destino che li aveva fatti schiavi.

Quasi tutti malgrado le cure dei loro guardiani per rimetterli in forze, portavano le tracce delle orribili sofferenze patite. Si vedevano ancora gambe e dorsi ischeletriti, crudeli ferite non ancora rimarginate, dei lunghi solchi sanguigni prodotti dalle terribili sferze, dei colpi di lancia, di scure, di coltello, di bastone ed i più avevano il collo sanguinante pel continuo strofinìo delle infami forche di legno, che quei miseri avevano portate per settimane e settimane, forse per dei mesi, durante le lunghe marce dai lontani paesi alla costa.

Vedendo entrare il re accompagnato dal negriero e dai suoi marinai, gli schiavi si erano alzati di scatto, emettendo un minaccioso mormorìo, paragonabile a quello che annuncia l’imminente scatenarsi di un formidabile uragano.

Guai se quei cinquecento disgraziati, esacerbati dalle privazioni sofferte, resi furenti dallo stato di degradazione, avessero avuto in mano un sol momento, quel monarca ubriacone, che si preparava a venderli all’uomo bianco! Se non fosse stata la paura di quei formidabili staffili di pelle, dei quali conoscevano pur [p. 36 modifica] troppo la potenza, non avrebbero esitato a scagliarsi, come tori furibondi, contro il miserabile e le sue scorte.

Quei volti fuligginosi, contratti pel furore impotente, quegli occhi torvi che mandavano cupi lampi, quelle mani raggrinzate, quei muscoli tesi come se volessero scattare, dimostravano chiaramente l’odio, che ruggiva nei cuori di quei disgraziati.

– Uhm! – esclamò il mastro. – Non spira buon’aria qui, pel nostro amico Bango. Per Bacco!... Che bella collezione di negri, ha reclutato questo furfante ubbriacone! Sono di buona razza questi!

Il capitano, che aveva molta fretta, fece il giro del baracon accompagnato da alcuni negri muniti di torce, fermandosi di tratto in tratto ad osservare taluni schiavi, poi visibilmente soddisfatto, raggiunse il re che si era tenuto prudentemente lontano.

– Il carico mi conviene – disse. – Ma dov’è Niombo?

– L’ho fatto rinchiudere in una capanna apposita – disse Bango. – Quell’uomo poteva scagliarmi addosso queste canaglie.

– E la meticcia?

– È con lui.

– Voglio vederli.

– Me li pagherai il doppio degli altri?

– Vedremo.

– Seguimi.

Bango, sempre seguìto dalla scorta, si recò all’estremità dell’immenso recinto ed entrò in una capanna, guardata da un numeroso drappello dei suoi sudditi.

Il capitano, che lo aveva seguìto in preda ad una viva curiosità, entrò e scorse, seduto nel mezzo, su di una stuoia, un negro di statura colossale, uno dei più superbi che fino allora aveva veduto.

Era alto quasi sei piedi, aveva il petto ampio, le spalle larghe, le membra muscolose e, cosa strana in tale colosso, le estremità eleganti: dei piedi e delle mani quasi di donna. Malgrado la sua mole, si capiva di primo acchito, che quel magnifico campione della razza negra, oltre una forza immensa, doveva possedere anche una agilità prodigiosa.

Vedendo entrare quegli uomini, rialzò il capo che teneva chino sul robusto petto, mostrando un viso privo di quelle sgradevoli deformazioni che sono particolari agli uomini di razza negra, e che spariscono a poco a poco in quelli derivanti dall’incrocio delle razze arabo-africane.

La sua fronte era ampia, il naso invece di essere schiacciato [p. 37 modifica] era sottile, le labbra leggermente tumide, i lineamenti energici e fini. I suoi occhi, più piccoli di quelli dei negri, erano bellissimi, scintillanti, intelligenti.

Vedendo Bango, che si teneva prudentemente presso la porta, per essere più pronto a salvarsi, il gigante si rizzò con uno scatto di fiera, scuotendo furiosamente le catene che gli stringevano i polsi e le gambe, ma non fece alcuna dimostrazione ostile e non disse verbo.

Ai suoi piedi, coricata sulla stuoia, dormiva una giovane donna, dalla carnagione leggermente abbronzata, le cui forme erano coperte da una specie di mantello di leggera mussola, stretto alla cintola da una fascia di seta rossa.

Udendo quello stridere di ferri, s’alzò bruscamente fissando i suoi grandi occhi neri sul capitano e sulla scorta. Quella donna poteva avere sedici o diciassette anni; i suoi lineamenti graziosi, ma arditi, che tradivano la sua origine europea, erano di una purezza ammirabile, e nulla ella aveva perduto nell’incrocio col sangue arabo-africano.

Le sue forme opulente ma insieme eleganti, il suo sguardo che a volta sembrava dolce ed a volta selvaggio, la sua pelle che pareva vellutata e morbida come quella delle indiane, i suoi lunghi capelli neri più dell’ebano, la sua bocca dalle labbra vermiglie che lasciava intravedere dei denti piccoli come granelli di riso, ma di una bianchezza abbagliante, quelle sue mosse che avevano un non so che di felino, quel fremito potente di gioventù e di energia, che faceva vibrare quelle carni, produssero sul capitano della nave negriera un effetto che prima d’allora non aveva forse mai provato e che forse non sapeva spiegarsi.

Egli era rimasto immobile, stupefatto, fissando la giovane mulatta, dinanzi alla quale le belle creole di Cuba o della Martinica o della Guadalupa, tanto vantate, non avrebbero potuto reggere al confronto.

– È questa la schiava che vuoi vendermi? – chiese infine a Bango, con un’emozione che non sfuggì all’astuto monarca.

– Questa – rispose il re. – La vuoi?

– Sì e te la pago cento metri di cotonina, due fucili e una dozzina di fazzoletti.

– Accettato. E Niombo, lo comperi?

Il capitano non rispose: pareva assorto in un profondo pensiero e non riusciva a staccare gli occhi dalla mulatta, che dal canto suo lo fissava con strana ostinazione, come se volesse affascinarlo.

– E Niombo? – ripeté Bango. [p. 38 modifica]

– Sì – rispose Alvaez, come se obbedisse ad una volontà non sua.

– Duecento pannos.

– Sia.

– Vieni a consegnarmi la merce.

Alvaez seguì il re, ma pareva che fosse assai preoccupato. Si sarebbe detto che la vista della giovane schiava, aveva prodotto su di lui una profonda emozione.

Mastro Hurtado, che aveva ricevuto gli ordini necessari si era recato già sulle rive del fiume e l’equipaggio della Guadiana aveva cominciato sollecitamente lo scarico delle mercanzie, consistenti in barili di tafià, botti di rhum di tratta, orribile miscela nella quale il vetriolo ha larga parte, vecchi fucili, scuri, coltelli, aghi, filo di ottone, conterie, oggetti di vetro d’ogni specie, casse di vestiti militari fuori d’uso, fazzoletti e soprattutto numerose balle di tela di cotone e di tela indiana.

Queste tele sono appositamente fabbricate pel commercio coi popoli africani, su un modello che viene da secoli e secoli, esattamente copiato.

Le tele di cotone sono a righe bianche e turchine o a quadretti di vari colori, ma devono avere un’orditura stabilita ed una larghezza di trentasei pollici; le tele indiane invece, hanno una larghezza minore ma anche in queste il disegno e la orditura devono essere rigorosamente identici. Una riga diversa, un fiore o un quadretto di altra tinta, una minore larghezza, anche minima, bastano per farle inesorabilmente respingere dai compratori negri, che prima di riceverle le esaminano scrupolosamente.

Il prezzo degli schiavi si paga sempre in pannos, misura questa che ha una larghezza di trenta pollici, ma non accontentandosi i negri di avere tutta tela, stabilirono un valore speciale per i pannos. Così ottanta pannos, generalmente vengono valutati su per giù da ottanta a cento lire e con questo prezzo i negri ricevono ordinariamente un fucile, un po’ di polvere, una certa quantità di rhum, un po’ di tela, degli aghi, delle conterie, qualche fazzoletto, qualche specchio da pochi soldi, un berretto di lana rossa, oppure un coltello o un po’ di carta colorata, ecc.

I negrieri però, prima di sbarcare le merci, aspettano che i negri siano ubriachi, per mescolare dell’acqua nei liquori e sbarazzarsi di tutte le cianfrusaglie più avariate e d’infimo valore.

Bango però, malgrado le due bottiglie vuotate, non aveva perduto completamente la testa, come non l’aveva perduta la sua [p. 39 modifica] scorta e si era accomodato sulla spiaggia per visitare minutamente le merci, che i marinai della Guadiana sbarcavano.

Il capitano intanto, fatti sbarcare venti uomini armati, procedeva rapidamente all’imbarco dei negri, che i guerrieri di Bango conducevano sulla sponda a drappelli, e accuratamente legati per impedire qualsiasi tentativo di fuga. Quei disgraziati però, sembravano ormai rassegnati alla loro triste sorte ed in preda a un terrore così vivo da paralizzare le loro forze: senza dubbio quel misterioso legno, del quale ne avevano udito vagamente parlare e sul cui conto narravano tante strane e paurose istorie, esercitava sui loro animi una profonda e superstiziosa impressione.

Sfilavano cupi, taciturni, tremanti, fra i marinai, gettando sguardi angosciosi su quella grande nave, la cui massa imponente spiccava sinistramente sulle acque biancastre del fiume. Giunti sulla sponda i marinai li afferravano brutalmente, li ammucchiavano nelle scialuppe e li trasportavano a bordo della Guadiana, facendoli scendere nel frapponte, dove i più robusti e i più pericolosi venivano tosto incatenati ai numerosi anelli che erano infissi nel tavolato e alle pareti.

Alla mezzanotte il carico era quasi completo: non rimanevano da imbarcarsi che poche donne, Niombo e la mulatta. Tutti gli altri erano già ammassati nel frapponte, gli uomini a poppa e le donne e i ragazzi a prua.

I marinai spingevano alacremente innanzi gli ultimi preparativi della partenza. Mentre alcuni affrettavano lo scarico delle ultime merci ed altri completavano le provviste d’acqua e imbarcavano una considerevole quantità d’olio d’elais, che serve di nutrimento ai negri e di certe noci amare che sono assai nutritive e molto apprezzate da quelle popolazioni, mastro Hurtado faceva sciogliere le vele e preparare le armi ed i cannoni, per essere pronti a respingere l’attacco dei due incrociatori.

Bango, seduto in mezzo alle sue ricchezze, assieme ai suoi stregoni ed ai dignitari, aveva già cominciata l’orgia e tracannava come un otre le bottiglie ammucchiate attorno a lui, brindando alla salute del suo grande amico Alvaez, il quale non rispondeva che a monosillabi.

Da qualche po’ il capitano era diventato assai pensieroso. Rispondeva distrattamente alle domande del monarca, che voleva sapere l’epoca del suo ritorno, per preparargli un altro carico di negri; rimaneva serio dinanzi alle spiritosità dei buffoni di corte, che facevano scoppiare dalle risa i dignitari e gli stregoni e non toccava il suo bicchiere, malgrado le insistenze del re negro. [p. 40 modifica]

Pareva preoccupatissimo e in preda ad una viva agitazione. Pensava egli ai due incrociatori che lo attendevano all’uscita della baia per dargli battaglia, o qualche altra cosa ben più grave turbava il suo cervello, che ordinariamente era così sereno e tranquillo?

Ad un tratto si alzò bruscamente, respingendo i negri che lo circondavano e i suoi sguardi irrequieti si arrestarono sui marinai, che stavano per imbarcare gli ultimi schiavi rimasti a terra. Aveva scorto fra loro la giovane mulatta e il gigantesco Niombo.

Si arrestò qualche istante indeciso, poi si diresse rapidamente verso la riva come se avesse preso una risoluzione istantanea e volgendosi verso Vasco che comandava il drappello, gli disse:

– Lasciami la mulatta.

L’ufficiale obbedì e la staccò dalla corda che la univa agli altri schiavi.

Il capitano la prese quasi con rabbia per un braccio, e trascinandola verso un folto manglo che stendeva i suoi rami sulla riva del fiume, spargendo sotto di sè una cupa ombra, le disse bruscamente:

– Vuoi essere libera?...

La schiava fissò su di lui i suoi grandi occhi neri, che scintillavano come due diamanti fra quelle dense tenebre, ma non disse verbo.

– Mi hai compreso? – chiese Alvaez, con agitazione.

– Sì – rispose ella.

– Vattene adunque, ritorna al tuo paese.

– Io sono tua schiava e tu sei il mio padrone – disse ella incrociando le braccia sul seno.

– Ma se ti dono la libertà?

Un amaro sorriso increspò le labbra della mulatta.

– La libertà – mormorò. – Al mio paese ritornerei schiava, perchè come tale sono stata venduta. I miei compatrioti di razza nera, mi venderebbero.

– È vero – disse Alvaez. – Lo schiavo venduto non riacquista la libertà, ma l’Africa è grande e tu puoi recarti altrove.

– No, sono tua schiava – ripetè la mulatta con strana energia, mentre i suoi grandi occhi fissavano insistentemente il negriero.

– Rifiuti?...

– Tu sei il mio padrone.

– Ma sai dove ti condurrò io?

– Che importa? [p. 41 modifica]

– Ma sai che io andrò lontano, assai lontano, al di là dell’immenso oceano e che tu non rivedrai più mai la tua Africa, le tue foreste, i tuoi parenti, la tua capanna?...

– La schiava non ha patria.

Alvaez la guardò con profondo stupore. Quell’ostinazione lo sgomentava, e pareva che accrescesse in lui quella agitazione, che da qualche ora turbava il suo animo e il suo cervello.

– Ma vattene! – esclamò, quasi con rabbia.

– Perchè? – chiese la mulatta. – Non mi hai comperato tu?...

– Ma non comprendi tu che sei bella? – esclamò il negriero, con voce sorda. – Io non ti voglio sul mio legno, perchè tu mi fai paura!

– Io!... – esclamò ella, trasalendo.

– Tu – disse il negriero con maggior violenza. – Ho paura della tua bellezza e voglio esser libero io, m’intendi, donna?...

– Uccidimi allora: tu sei il padrone.

– Ucciderti!...

– Giacchè non vuoi che io sia la tua schiava, uccidimi.

– Sei pazza?...

– No, padrone – rispose la mulatta che lo fissava sempre, quasi volesse affascinarlo colla potenza dei suoi occhi.

– Ma non hai dei parenti tu?... Non hai una madre, non hai nessun legame che ti unisca al tuo paese?

– Nessuno: tutti sono morti, la mia capanna è stata distrutta, sono ormai sola al mondo.

– Ma chi era tuo padre?

– Un capo dell’alto Ogobai.

– Tua madre?

– Una donna bianca come te.

– Sono morti?...

– La guerra li ha spenti da lunghi anni.

– Ma la tua tribù?...

– Dispersa o fatta schiava. Dove vuoi che vada se non ho nessuno? Tu mi hai comperato e voglio seguirti.

– Vieni adunque, ma tu mi porterai sventura.

– Uccidimi: morrei felice uccisa da te.

– Perchè?

– Non lo so.

– Seguimi – disse bruscamente il negriero, che era ridiventato meditabondo e inquieto.

Il carico era stato terminato. L’equipaggio aveva già issate le [p. 42 modifica] scialuppe alle grue di babordo e di tribordo, e non aspettava che il capitano per ritirare gli ormeggi e salpare le ancore.

A terra non si trovava che il mastro, il quale attendeva il negriero per trasportarlo a bordo.

Alvaez andò a salutare il re negro che era già sconciamente ubriaco, e che si divertiva a maltrattare a colpi di frusta le sue donne, i suoi ministri, i suoi stregoni ed i suoi capi, che non erano però meno ubriachi di lui, s’imbarcò nella piccola baleniera seguìto dalla mulatta.

Il re ed i suoi cortigiani si erano radunati sulla riva per assistere alla partenza del legno e salutavano l’equipaggio con discordi clamori.

– È tornato il secondo? – chiese Alvaez appena mise piede sul ponte della nave.

– No, signore – risposero i marinai.

– Salpate le ancore.

– E questa schiava? – chiese Vasco, che si preparava a tradurla nel frapponte.

– Non è più schiava: è donna libera – disse Alvaez mentre la sua fronte s’annebbiava. – Conducetela nel quadro di poppa e si metta a sua disposizione una cabina.

Il fischietto di mastro Hurtado echeggiò sul ponte, dominando i clamori dei negri affollati sulla sponda. Tosto i due argani di prua e di poppa si misero a girare sotto la spinta delle aspe manovrate dagli uomini, e le due àncore vennero strappate dal fondo del fiume.

– Via gli ormeggi! – gridò il mastro.

Le due gomene che trattenevano la Guadiana alla sponda, vennero slegate dai sudditi di Bango e ritirate a bordo.

– Buon viaggio! – gridò Bango, agitando la bottiglia che teneva in mano.

– E buona digestione – rispose il mastro.

Un istante dopo la Guadiana, con tutte le vele spiegate, spinta da una leggera brezza, che soffiava dall’est, scendeva lentamente le cupe acque del Nazareth col suo carico di schiavi.