I drammi della schiavitù/25. La vendetta degli schiavi

25. La vendetta degli schiavi

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24. La scomparsa di Niombo


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XXV.


La vendetta degli schiavi


Il bretone ritornava al campo, furioso. Tutte le ricerche fatte per rintracciare Niombo, non avevano dato alcun frutto.

Le detonazioni dei fucili, le grida ripetute dei marinai non avevano avuto alcuna risposta. Il re negro era fuggito senza lasciare tracce visibili, portando con sè il fucile che teneva in mano, durante l’assalto del gorilla. Perchè li aveva bruscamente abbandonati in mezzo a quei boschi, dopo di averli allontanati dalla spiaggia dell’Oceano? Ecco quello che si chiedeva insistentemente Kardec, che non sospettava menomamente il piano infernale, da lunga mano preparato, dall’ex-schiavo del capitano Alvaez.

– Il miserabile temeva di ritornare schiavo e ci ha vilmente abbandonati – disse Kardec al dottore, che era diventato meditabondo.

– Lo credo anch’io, – rispose questi, scuotendosi.

– Credete che non ritorni più, signor Esteban?

– Lo ignoro. [p. 199 modifica]

– Cosa mi consigliate di fare?

– Non lo so.

– Ritornare alla costa?

– Fate come credete.

– Attenderemo l’alba e domani cercheremo di lasciare questa interminabile foresta. Io non credo alla vicinanza di una fattoria portoghese e sono certo, che quel cane di negro, ci ha qui condotti per fuggire più facilmente.

– È probabile.

– Ritornerà il gorilla?

– Ormai non lo credo.

– Metteremo delle sentinelle attorno al baobab.

– Sarà cosa prudente.

Kardec informò i suoi compagni della sua intenzione di ritornare alla costa, mise quattro uomini attorno all’albero gigantesco, armandoli coi due fucili e con le sue pistole e si sdraiò presso ai fuochi, che erano stati ravvivati.

Gli altri lo imitarono e poco dopo nel campo si russava sonoramente. Però il dottore e Seghira, non dormivano: alzavano sovente il capo scrutando attentamente la tenebrosa profondità dei boschi; trasalivano ad ogni più lieve rumore e si agitavano sul loro letto di foglie.

La notte però trascorse senza che accadesse nulla di straordinario. Niombo non si era fatto vivo, e nemmeno il gorilla si era più fatto vedere.

Ai primi albori Kardec, che era impaziente di lasciare quella foresta e che si sentiva agitato da vaghe inquietudini, fece levare il campo e dopo di essersi consigliato coi suoi uomini, comandò di mettersi in marcia per cercare di riguadagnare le spiagge dell’Atlantico.

Niombo però non era più là a guidarli e Vasco, che ormai era stato messo al corrente di tutto, si guardava bene dal far sapere di avere una bussola, con la quale potevano facilmente marciare verso l’ovest, senza tema di smarrirsi fra quei grandi vegetali.

Durante tutto il giorno il drappello marciò più rapidamente che potè attraverso a quella foresta che non finiva mai, ma senza poter giungere sulle spiagge dell’Oceano. Aveva descritto dei giri a destra ed a sinistra, era ritornato sovente sui propri passi credendo di avere il mare or da una parte or dall’altra, ma senza alcun risultato. Non era nemmeno riuscito a scoprire il fiumicello entro le cui acque, aveva cercato uno scampo contro le formiche. [p. 200 modifica]

Quando l’oscurità invase la boscaglia, i naufraghi erano così esausti, da non reggersi più in piedi, non avendo mangiato durante il giorno che poche frutta e bevute poche goccie d’acqua putrida e fangosa.

Kardec, sempre più furioso si sfogava con diluvi di imprecazioni all’indirizzo di Niombo. Invano interrogava il dottore per consigliarsi sul da farsi. Questi si era chiuso in un silenzio assoluto e non rispondeva che con un crollare del capo. Anche Seghira taceva o quasi, e rispondeva con monosillabi.

Fu stabilito il campo presso un gruppo di banani selvatici, le cui foglie smisurate bastavano a difenderli dall’umidità della notte, che è abbondante e assai pericolosa nei boschi equatoriali. Due marinai, i più robusti e perciò i meno stanchi, montarono il primo quarto di guardia; gli altri, che non si tenevano più ritti, si sdraiarono accanto ai fuochi e s’addormentarono d’un sonno di piombo.

Anche il dottore e Seghira, malgrado le loro preoccupazioni, stanchi da quella lunga marcia, avevano chiusi gli occhi.

Erano trascorse parecchie ore. Gli uomini di guardia erano stati cambiati due volte e l’alba non doveva essere lontana, quando si udirono nella tenebrosa foresta dei misteriosi rumori.

Le foglie dei cespugli si agitavano, si vedevano apparire e scomparire delle forme indecise e si udiva un susurrìo strano, che pareva prodotto dallo strisciare di una moltitudine di corpi.

I due marinai, che vegliavano presso i fuochi, quantunque cadessero pel sonno che loro malgrado li invadeva, si alzarono coi due fucili in mano, ma retrocessero vivamente, muti pel terrore.

Centinaia d’ombre umane avevano circondato silenziosamente l’accampamento e li guardavano con certi occhi, che brillavano stranamente fra quella profonda oscurità. Da dove erano sorte? Cosa volevano? Cosa aspettavano per slanciarsi?

D’improvviso nella foresta echeggiò un fischio potente. Tosto tutti quegli uomini neri si precipitarono innanzi come una tromba, emettendo orribili clamori.

I due marinai fecero fuoco a casaccio. Qualche uomo cadde, ma gli altri in un baleno furono addosso all’accampamento, scagliandosi sui naufraghi che stavano alzandosi.

Ogni resistenza fu impossibile. L’assalto fu così rapido e così brutale, che in meno che lo si narri, tutti i marinai, Kardec, Vasco, il dottore e perfino Seghira, si trovarono legati e ridotti all’impotenza. [p. 201 modifica]

— Miserabili!... — urlò Kardec, che si dibatteva furiosamente. — Cosa volete voi? Noi siamo uomini bianchi!

— Ed io sono il tuo schiavo — rispose una voce tuonante.

Un negro di statura gigantesca, adorno di collane e di braccialetti, con una corona d’oro adorna di tre penne d’aquila e tenendo nella sinistra una carabina e nella destra uno staffile di pelle d’ippopotamo, si fece innanzi.

— Mi riconosci tu? — chiese il gigante.

— Niombo!... — esclamò Kardec, diventando livido.

— Io sono il re dei Baccalai!...

— Traditore!...

— Lascia le invettive — rispose il monarca negro, con disprezzo.

Poi, avvicinandoglisi vieppiù, facendo fischiare quel terribile staffile, che con un sol colpo traccia un solco sanguinoso sul corpo di chi è percosso, gli disse:

— Ti rammenti quel giorno, che nel frapponte della Guadiana, quando io ero impotente, mi hai sferzato come fossi un cane?

— Uccidimi — disse Kardec con voce cupa.

— No, perchè non mi appartieni. Potrei restituirti ora quel colpo di staffile, giacchè ti trovi legato, impotente ai miei piedi, ma Niombo è più generoso degli uomini bianchi: guarda!...

E scagliò lontano da sè il terribile staffile.

— Mi doni la vita forse? — chiese il bretone, nei cui sguardi balenò un lampo di speranza.

— No, — rispose una voce.

Kardec nell’udire quella voce divenne spaventosamente livido e sentì rizzarsi i capelli. Guardò con profondo terrore, con uno sguardo da pazzo, la persona che aveva pronunciata quella parola.

Seghira, libera dai legami, stava dinanzi a lui colle braccia incrociate sul seno, sfolgorando su di lui uno sguardo terribile, implacabile.

— Tu... Seghira!... — esclamò il miserabile, stramazzando al suolo come se le forze lo avessero improvvisamente abbandonato. — Tu!...

— Sì, io, Kardec, che vengo a vendicare il capitano Alvaez! — diss’ella con accento feroce.

La benda cadde dagli occhi del bretone: comprese tutto, fin troppo. Un urlo strozzato, una specie di ruggito, gli irruppe dalle labbra contratte e rimase immobile, come fulminato, con [p. 202 modifica]occhi spaventosamente sbarrati, fissi sulla giovane africana, che lo contemplava con profondo disprezzo.

– Seghira – rantolò.

– T’odio! – diss’ella con voce cupa.

– No... non è possibile... tu mi ami!...

– T’odio, ti ripeto, assassino del capitano Alvaez.

– Taci... tu mi fai paura... io ti amo, Seghira... tu menti... io non ho ucciso nessuno! – esclamò il miserabile, facendo sforzi sovrumani per spezzare i legami.

– No, – ripetè l’implacabile africana. – Tu hai ucciso il capitano Alvaez, l’uomo che io amavo e tu morrai.

– Non l’ho ucciso!...

– Me lo hai confessato tu, la notte che mi dicesti di amarmi, a bordo della zattera, in mezzo all’oceano.

– Tu menti!...

– Niombo ti ha udito.

– È vero – disse il negro.

– Miserabile!...

Niombo si avanzò.

– Tu, – disse, – neghi ciò che hai spontaneamente confessato, perchè la morte ti fa paura. Avevo previsto ciò, ed ho fatto preparare il cambambù!

– Sei un cane!... – urlò Kardec.

Niombo alzò le spalle con disprezzo e volgendosi verso i suoi negri, che avevano formato un immenso cerchio intorno ai prigionieri, disse:

– Si porti il cambambù!

In tutta l’Africa centrale, ed anche nell’Africa meridionale, è grandemente in uso la prova del giuramento. Quando un uomo viene accusato d’un delitto e lo nega, per provare la sua innocenza o colpabilità, gli si fa inghiottire il cambambù, il quale porta diversi nomi, secondo le tribù e le regioni.

Nell’Africa meridionale si chiama la n’gaje; i Bengalos lo chiamano invece lo n’dua, i Lunda il maagi.

È una strana infusione composta della polvere d’una scorza d’una specie di acacia e di acqua, con la quale si compone una pasta di color rossastro, che produce dei violenti vomiti sanguigni, dovuti forse a qualche corpo assai astringente.

Uno stregone chiamato pure cambambù, somministra quell’infusione all’accusato, dopo di avergli messo dinanzi un pezzo di stoffa rigata, dodici bastoncini di lunghezza eguale, della scorza d’agade ed un becco di pappagallo. [p. 203 modifica]

Se il paziente riesce a rigettare tutta la pasta, viene proclamato innocente e nessuno oserebbe porre in dubbio l’efficacia del cambambù; se la ritiene, è colpevole, poichè quella miscela diabolica lo fa morire, e ciò avviene quasi sempre, sia colpevole od innocente.

Kardec, che non ignorava cos’era il cambambù, udendo quell’ordine si mise a dibattersi con furore, ma ad un cenno del monarca quattro negri robusti lo afferrarono per le braccia e per le gambe, riducendolo nell’impossibilità di fare il menomo movimento.

Lo stregone della tribù, un orrido negro coperto di penne, di collane di becchi di pappagalli e di denti di animali selvaggi, si fece innanzi portando con sè il vaso contenente la mortale infusione.

Depose dinanzi a Kardec i bastoncini, la stoffa rigata, la scorza di agade ed il becco di pappagallo, poi afferrandolo bruscamente pel naso per costringerlo ad aprire la bocca, gli somministrò il cambambù, versandogli di quando in quando dell’acqua per impedirgli di soffocare.

Il bretone faceva sforzi sovrumani per liberarsi dalle strette dei negri, ma invano; cercava di allontanare lo stregone e di chiudere i denti, ma questo agiva con rapidità, costringendolo ad aprirli; nulla potendo fare, ruggiva come una fiera e roteava gli occhi, lanciando sguardi feroci su Niombo e Seghira, che assistevano impassibili a quella strana operazione.

Quando lo stregone ebbe finito, il bretone vaneggiava: pareva che fosse stato colpito da un’acuta perturbazione cerebrale. Parlava della Guadiana, di Alvaez, di Seghira, di giacche strappate, di colpi di pistola e di pugnali.

Ad un tratto un getto di sangue gli irruppe dalle labbra: tosto i negri lo lasciarono libero.

Allora lo stregone gli si avvicinò e mettendogli in mano otto bastoncini gli chiese:

— Quanti sono?

— Due — burbugliò Kardec.

Gli pose in mano un kauris, una conchiglia che nel centro dell’Africa ed anche presso le coste serve di moneta, chiedendogli:

— Cos’è?

— Un pugnale — rantolò il bretone.

Lo stregone mandò un grido di trionfo.

— Quest’uomo è colpevole! — esclamò.

— Muoia adunque — disse Niombo. [p. 204 modifica]

Non era necessario ucciderlo: il cambambù faceva rapidamente il suo effetto. A poco a poco le forze dell’assassino scemavano e il suo viso, gonfio come se volesse scoppiare, impallidiva a vista d’occhio.

Ben presto un nuovo getto di sangue gli montò alla gola, le sue braccia si irrigidirono, le suo gambe si distesero, un ultimo tremito scosse il suo corpo ed esalò l’estremo respiro.

Seghira gli si appressò, contemplandolo con gioia selvaggia e si sedette accanto a lui, mormorando:

— Sono vendicata: Alvaez sarà contento!

Allora Niombo rizzando l’alta sua statura e volgendosi verso la sua tribù, accennando il dottore e Vasco, disse:

— Liberate questi uomini: sono miei amici.

Poi additando i marinai esterrefatti, aggiunse:

— Impadronitevi di questi bianchi. Li condurrete dal mio alleato il re dei fani e direte a lui che sono suoi schiavi e che come tali esigo che vengano trattati.

«A costoro dono la vita, ma lavoreranno i campi della nostra Africa, sotto la sferza implacabile dei negri e sotto i morsi del sole equatoriale. Andate!

— Niombo – disse il dottore. – Tu che sei generoso, grazia per quei disgraziati.

— No, tobib — rispose il negro. — Essi conducono i figli dell’Africa a lavorare le loro terre; vadano ora, gli uomini bianchi a lavorare le terre dei negri. Anch’io mi vendico!

— E di noi, cosa farai?

— Il tobib è mio amico: parla, dove vuoi andare? Sono ridiventato re della grande tribù dei Baccalai, che non mi aveva dimenticato e per te posso fare quello che tu vorrai, poichè tutti qui mi obbediscono.

— E se io volessi rimanere con te? Curerei i tuoi uomini e potrei esserti utile.

— Grazie, tobib, ti accetto — disse Niombo.

Poi guardandolo fisso e sorridendo, disse:

— Tu speri di poter liberare un giorno i tuoi compagni dalla schiavitù; lo leggo ne’ tuoi occhi. Se potrai farlo, Niombo non si opporrà!

— Grazie.

— E tu, Vasco, dove vuoi andare? Ti darò tanto oro da poter vivere tranquillo nella tua lontana patria — disse Niombo.

— Se mi vuoi, rimango io pure con te.

— Sei mio amico: ti nomino comandante dei miei guerrieri, [p. 205 modifica]ma non aver fretta a liberare i tuoi camerati. Ti ho pure compreso.

S’allontanò, mormorando:

– Uomini generosi!

Seghira stava sempre assisa dinanzi al cadavere di Kardec, senza mai staccare gli sguardi da quel volto, che la morte aveva orrendamente scomposto. Niombo le si avvicinò, l’alzò dolcemente e le chiese:

– Sei vendicata?

– Sì – rispose ella, con voce sorda.

– Sarai mia sposa, ora?

Ella emise un profondo sospiro e s’abbandonò fra le braccia di lui, chiudendo gli occhi.

– Sì – diss’ella, con aria tetra. – M’hai vendicata: sarò dunque tua sposa!