I drammi della schiavitù/12. L'urto durante l'uragano
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XII.
L’urto durante l’uragano
Non doveva essere che una semplice tregua, poichè tutto indicava che l’uragano doveva riprendere le sue forze, per scoppiare con maggiore violenza. Il barometro segnava grande tempesta, lo storm-glass si manteneva scomposto e l’atmosfera era satura di elettricità, mentre nel cielo si addensavano sempre più masse di vapori nere come la pece, ma coi lembi estremi tinti di un color ramigno.
Le acque dell’oceano, il giorno prima d’una trasparenza ammirabile e d’un bel color indaco, erano diventate torbide e grigiastre.
Il ciclone, che si addensava nelle profondità degli spazi celesti, non doveva tardare a scoppiare ancora.
– Temo che passeremo una brutta giornata, – disse il dottore, che guardava il cielo e l’oceano dal sabordo della cabina del capitano.
– Sì, signore, – disse il mastro, che era disceso per salutare il capitano. – Tra poche ore la Guadiana riprenderà la danza.
– Hanno sofferto i negri? – chiese Alvaez, che si era svegliato dopo un paio d’ore. – Gli ho uditi a lamentarsi tutta la notte.
– Gli urti e i trabbalzi ne hanno contuso qualcuno, capitano, ma poca cosa. Avevano paura.
– E Niombo?...
– Quel negro è audace, capitano. Era tranquillo come il nostro più valente marinaio.
– È sempre libero?
– Sempre, signore.
– Cosa dice quel Kardec di lui?
– Non lo vede di buon occhio, capitano, ma rispetta la vostra volontà. Sono certo che se potesse frustarlo a vostra insaputa, lo farebbe ben volentieri.
– Che si provi, se l’osa.
– Non l’oserà finchè sul ponte ci sono io, capitano.
– Dirai a Niombo che può venire nella mia cabina. Egli è l’amico di Seghira e so che l’ha protetta in momenti difficili.
– Mi aveva chiesto il permesso, capitano, ma io aspettavo l’ordine vostro. Deve avere una profonda affezione per Seghira, poichè mi chiede sempre sue notizie e anche della vostra salute.
– Ne ho piacere e saprò ricompensare quell’uomo della affezione che porta a Seghira.
– Cosa vuoi farne? – chiese Esteban.
– Lo rimanderò in Africa e gli darò i mezzi necessari per tornare alla sua tribù.
– È un negro, che merita di essere capo-tribù – disse il mastro. – Statura gigantesca, vigore muscolare immenso, lineamenti fieri; deve essere un vero leone in battaglia e darà molto filo da torcere a quel poltrone di Bango, se ritorna in patria. Ha dei superbi campioni, la razza negra, signor dottore.
– E tutta la razza ha un vigore straordinario, Hurtado, – disse Esteban.
– Eppure vive sotto un clima snervante.
– Ma pure è più robusta delle razze settentrionali, in generale. Intendo però parlare del gruppo negro, poichè negli altri il vigore è meno notevole.
– Ma i negri non appartengono ad una sola famiglia?
– Ad una stessa famiglia sì, Hurtado, ma questa è divisa in parecchi gruppi, che presentano fra di loro dei caratteri assai diversi. È un grande errore, il credere che i negri dell’Africa siano tutti eguali e presentino gli stessi caratteri.
«In prima linea viene il gruppo Boschimano o Bosjeman, che rappresenta la razza più antica e più vicina al tipo originario. Vivono questi negri nelle regioni interne della Colonia del capo di Buona Speranza, oltre l’Orange, spingendosi fino allo Zambese. La loro pelle non è affatto nera, ma bruno-giallastra, i loro capelli sono cresputi, ma non disposti a ciocche e la loro statura è bassa.
– È vero, – disse Alvaez. – I Boscimani formano una razza quasi a parte e vengono considerati come i primi abitatori del suolo africano.
– In seconda linea vengono gli Ottentotti, che occupano l’Africa meridionale e che vennero per lungo tempo confusi coi Boschimani. La loro pelle è colore del cuoio vecchio, i loro capelli sono disposti a piccole ciocche, la loro statura è superiore a quella dei Boschimani, toccando generalmente m. 1,52. Mentre i primi sono nomadi e vivono di caccia, questi sono pastori.
«Terzo viene il gruppo veramente negro, che ha lo scheletro robusto, le gambe un po’ arcuate, le membra inferiori più lunghe delle superiori, i piedi piatti, il naso schiacciato, le labbra tumide, la capigliatura nera, corta, lanosa, la pelle assai cupa, con riflessi rossastri o giallastri od azzurrini talvolta. Sono i meglio sviluppati, i più atti a sopportare le fatiche ed occupano gran parte del continente africano, specialmente le regioni centrali. Comprendono i Denka, gli Scilluchi e i Dari del Nilo, gli Yolofi del Senegal, i Sereri della Gambia e della Cazamance, i Kra, i Grebo, i Danalai della costa di Guinea inferiore, gli Ascianti, i Fanti, i Dahomeani, gli Akimi, gli Akuapini, gli Yoruba, ecc. della costa degli Schiavi, del delta del Niger e le tribù disperse intorno ai grandi laghi, fino alle coste dello Zanzibar.»
– Ed i Cafri? – chiese il mastro.
– Formano un altro gruppo ed è il più bello. Questo popolo, che occupa le coste orientali dell’Africa meridionale, è il più fiero, il più bellicoso di tutti gli altri gruppi ed il più intraprendente.
«Questi negri sono i più alti di tutti, toccando ordinariamente m. 1,71, di proporzioni belle, di portamento svelto ed elegante. Hanno i capelli come i negri, ma la loro pelle è d’un giallo-bruno, talvolta molto sbiadito.
«Infine viene il gruppo Nubiano, il quale si estese in gran parte dell’Africa settentrionale, dal Mar Rosso all’Atlantico, nel Sudan, nel Wadai, nel Baghirumi, nell’Aussa, nell’alto Niger e anche nel Senegal. Popolo anche questo conquistatore, s’impose ai negri del centro, portando le sue armi fino sulle rive dell’Atlantico.
«Differisce dai negri e dai Cafri pel colorito relativamente chiaro, pel tipo che ricorda quello dell’europeo e per la capigliatura. Quantunque molti abbiano diviso questo gruppo in due, in Nubiani e Puli, ne forma uno solo.
«È da questo che sono usciti gli Abissini, i Somali, i Galla, i Dankali, i Mombattù, i Niam-Niam antropofaghi, i Dera-Dera e i feroci Tuareg che scorrazzano il deserto di Sahara. Come vedi, Hurtado, i negri non formano una sola specie come i più credono, ma parecchie e che hanno fra di loro tali differenze da chiamarli famiglie distinte.
– Ma c’è una cosa, che non riesco a comprendere, dottore, – disse il mastro, che da qualche minuto pareva imbarazzato.
– E quale, Hurtado?
– Vorrei sapere da quale razza derivi la negra. Si dice che provenga dalla bianca, da uno dei figli di Noè, da Cam, ma a me sembra che la nostra sia così diversa da quella negra, da non credere affatto a questa diceria.
– Tu tiri in campo una grossa questione, che fu molto studiata anche da valenti scienziati. È prevalsa però l’opinione che le diverse razze umane siano uscite da un unico ceppo creato da una volontà soprannaturale.
– Lo credo anch’io, Esteban, – disse Alvaez, che prestava una profonda attenzione a quella interessante discussione.
– Derivano da Adamo ed Eva insomma, – disse il mastro.
– Sì.
– Ma come è che da due bianchi, supposto che Adamo ed Eva siano stati di tale colore, possono essere usciti i negri, i cinesi che sono gialli, i malesi che sono olivastri e gli indiani d’America che sono color del rame?
– Secondo i difensori di questa teoria, questi cambiamenti di tinte e di tipi, sarebbero avvenuti per incrociamenti, per l’azione dei climi diversi, pei modi di vivere, ecc. Infatti si è constatato che delle persone di una medesima razza possono col tempo, con nuovi incrociamenti, attraverso a nuove condizioni e sotto altri climi, trasformarsi a poco a poco e differire straordinariamente dal tipo primitivo.
In quell’istante, un tuono formidabile echeggiò sull’oceano, facendo tremare le invetriate dei sabordi del quadro di poppa.
– Oh! La gran voce! – esclamò Hurtado, scuotendosi. – Temo che passeremo una brutta notte, signori.
– In coperta, Hurtado – ordinò il capitano. – Ah! e non poterti accompagnare e guardare in faccia il pericolo! Dannata ferita!...
– Guarirai presto, Alvaez – disse il dottore. – Fra venti giorni sarai in piedi.
– Venti giorni sono l’eternità, Esteban – disse il capitano con un sospiro. – Se non avessi questa paziente infermiera, non starei di certo qui, fossi sicuro di non guarire più. Va’, Hurtado, e anche tu, dottore; a me basta la compagnia di Seghira.
Il mastro ed Esteban lasciarono la cabina e salirono sul ponte, sul quale già si trovavano tutti i marinai, pronti ad affrontare la nuova burrasca, che pareva dovesse prendere proporzioni formidabili.
Delle immense masse di vapori, gravide di tempesta, radevano l’orizzonte settentrionale e s’avanzavano a vista d’occhio con degli strani movimenti, come se in quella direzione soffiasse un vento circolare, poichè si vedevano girare su di loro stesse, rompersi bruscamente, poi riunirsi in forma di immensi cumuli. Le onde avevano pure delle direzioni strane, poichè invece di correre in uno stesso verso, si vedevano avanzarsi da tutte le parti dell’orizzonte in forma di muraglie di una altezza spaventevole, irte di candida spuma, che talora diventava fosforescente e venivano ad incontrarsi nelle acque della nave negriera producendo delle contro-ondate terribili e sfasciandosi con formidabili, assordanti muggiti.
Si sarebbe detto che intorno a quel tratto d’oceano, si scatenava un furioso ciclone d’un giro immenso e che la nave occupasse il centro.
Il vento però, curioso fenomeno, era bruscamente cessato e non soffiava quasi più, in quello specchio d’acqua percorso dalla Guadiana, ma al di là dell’orizzonte si udivano di tratto in tratto dei fragori cupi che talvolta diventavano stridenti ed i marinai assicuravano che erano prodotti da un vento furioso, il quale non doveva tardare ad avvolgere fra le sue potenti spire anche la nave.
La notte era calata con quella rapidità che è propria delle regioni equatoriali, ma era una notte oscurissima, nera come il fondo d’un barile d’inchiostro. Solamente fra le onde, che parevano fossero diventate di pece liquida, si vedevano scintillare di quando in quando dei rapidi bagliori, dovuti senza dubbio ad un principio di fosforescenza.
La Guadiana, immersa in quei neri flutti, non procedeva che con molta lentezza, essendo, come si disse, il vento quasi interamente cessato in quel tratto d’oceano, ma invece veniva orribilmente scrollata da quelle onde, che muggivano attorno ad essa come una banda di molossi affamati, cercando di rovesciarsi sopra le murate.
Si rizzava da prua a poppa come un cavallo, che s’inalbera sotto lo sperone del cavaliere, ricadeva pesantemente sui flutti gemendo e scricchiolando, si rovesciava impetuosamente ora sul tribordo ed ora sul babordo, scrollando furiosamente i poveri negri immagazzinati nel frapponte, facendoli ruzzolare gli uni addosso agli altri ed imprimendo, a quelli che erano incatenati, delle scosse dolorose. V’erano certi momenti che si inclinava tanto, che il suo bompresso sferzava le onde e le grue tuffavano la chiglia delle scialuppe in acqua.
Il secondo, che malgrado tutto era un valente uomo di mare, approfittava di quella calma momentanea per prepararsi a far fronte all’uragano, che rumoreggiava all’orizzonte.
Dopo d’aver fatto imbrogliare i pappafichi ed i contropappafichi e di aver fatto terzaruolare le vele di trinchetto, di parrocchetto, di maestra, e la gran gabbia, si era affrettato a far legare solidamente i pezzi d’artiglieria, che potevano sfondare i fianchi della nave, a raddoppiare i cavi delle imbarcazioni sospese alle grue ed a rinforzare parte delle manovre fisse, paterazzi e sartie.
Egli sentiva per istinto che un grave pericolo minacciava la Guadiana e che quella calma non doveva tardare a rompersi.
Infatti, verso la mezzanotte, i primi soffi di vento cominciarono a giungere; erano raffiche violentissime, che venivano ora dal nord ed ora dal sud, le une dietro alle altre, con brevissimo intervallo. Le nubi, che ormai avevano invaso tutta la volta celeste, s’aprirono bruscamente come se fossero state lacerate da un vento furioso e si abbassarono come se volessero appoggiarsi sui flutti dell’Atlantico.
La Guadiana, colla velatura ridotta, fuggiva ora colle mure a babordo, salendo e scendendo i cavalloni che l’assalivano da ogni parte con tremendi muggiti. La sua velocità aumentava di minuto in minuto col crescere delle raffiche che sibilavano e stridevano attraverso all’attrezzatura, facendo crepitare le vele che erano enormemente gonfie.
Ad un tratto, nella profonda oscurità, si vide improvvisamente brillare un punto luminoso.
– Ohè! – gridò il mastro che era a prua. – Attenti che abbiamo una nave dinanzi!... Bada, timoniere! Ci taglia la via!...
Una gran nave, probabilmente un transatlantico, era improvvisamente sorta fra le tenebre e si avanzava, spinta dal vento furioso, minacciando di tagliare il passo alla Guadiana o di farsi sventrar da un colpo di sperone.
– Ohè!... della nave!... – gridò Hurtado.
Senza dubbio i muggiti delle onde ed i fischi del vento impedirono alla sua voce di giungere fino ai vascello, poichè questo, che pareva non si fosse accorto della vera rotta della Guadiana, continuò la sua via.
– Signor Kardec! – gridò il mastro, impallidendo. – Andiamo ad investire od a farci speronare!...
Infatti il transatlantico non era più che a trenta metri dalla nave negriera e pareva che si sforzasse a passarle da prua. Sul suo ponte si videro delle ombre e si udirono dei comandi precipitati.
Fra l’equipaggio della Guadiana s’alzò un grido immenso di spavento, poi echeggiò la voce di Kardec:
– Fila la scotta di trinchetto, cambia la scotta di maistra, cambia quella di trinchetto, barra sottovento, tutto a tribordo!
I marinai si precipitarono sulle scotte mentre il timoniere cacciava rapidamente la barra sottovento, ma ormai era troppo tardi per compiere la manovra.
La Guadiana, spinta dal proprio slancio investì il transatlantico sotto l’anca di tribordo ed il suo sperone affilato si sprofondò con un fragore terribile nel ventre del legno, colpendolo a morte.