I Viceré/Parte terza/1
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Capitolo 1
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I.
«Palermo, li 12 febbraio 1872.
- «Signore onorandissimo,
«L’origini nommenchè l’istoria della patria nobiltà sapere, tornar’ in niente non dev’ a ciascuni, specie in ta’ tempi che la vengon stimando da sezzo, in quella vece che tuttosì dagli esteri ammirando si viene. Da ricapo narrarla, dopocchè il Mugnos, il Villabianca ed altri famosi a sè recarono immortalità sbrancandone quel denso velo, chiarirsi potrebbe un fuor’opera; se quei valentuomini, per legge di natura, arrestati non fossers’ai tempi che vissero. Ma, senzachè il proseguiment’insin’a nostri ultimi giorni, un altr’oggetto ne rischiara la convenienza; vogliam dir la rarezza di quell’oper’insigni, cui non a tutt’è dat’acquistare. Quind’e perciò, all’oggettocchè tra le mani dell’universale una nuov’opera messa in giornata ne gisse, abbiam divisato dettarla. E attalchè non ci s’imputi in superbia a tant’impres’azzardarci, non vogliamo far senza di porre qui bocca sulla scienza che dell’araldiche discipline noi succhiammo una col latte, sì come quelle ch’a discendente di non ultima, tra le sicole blasonate famiglie, famiglia, più convenissero. Lusingarci da indi possiamo che, la mercè d’uno studio indefesso, nommenchè la paziente compulsione d’archivii importanti e zeppati di documenti solo noi dato esaminare, saracci dato fornire l’assunto come disse il Poeta, senza infamia sicuro, forse con lode.
«Comecchè cultore d’istoric’istudii ed amante delle patrie glorie, Vostra Signoria Onorandissima, echeggiando al nostro proposito, negar non vorrane il suo ambito concorso; laonde viviamo fidenti della sua firma nella scheda dove le soscrizioni si ammozzolano. Bassa idea di guadagno non spronaci, laddiomercè not’essendo non averne noi uopo; nonperoddimanco onde coprire in parte le pure e semplici spese, abbisognamo il suo appoggio. Delchè dormiam’in guanciali.
«SCHEDA DI SOSCRIZIONE
«ALL’OPERA
«del cavaliere don Eugenio Uzeda dei principi di Francalanza e Mirabella, duchi d’Oragua, conti della Lumera, etc., etc.; già Gentiluomo di Camera (con esercizio) di Sua Maestà il Re Ferdinando II; medagliato dell’ordine ottomano del Nisciam-Ifitkar da Sua Altezza il Bey di Tunisi, membro di varie Accademie, etc., etc., intitolata:
«L’ARALDO SICOLO
«consistente nell’istoria documentata dell’origini, sort’e vicende delle Nobili Famiglie Siciliane da’ tempi più oscuri infino al giorno d’oggi: ben tre volumi, di cui il primo testo, il secondo alberi genealogici, il terzo stemmi. Usciranno una dispensa ogni mese. Prezzo d’ogni dispensa: lire due. Associazione all’opera completa, lire cinquanta. — N.B. Chi procura sei soscrizioni avrà diritto a pubblicare il proprio albero genealogico. Chi ne procura dodici avrà tuttosì lo stemma colorato.»
Questa circolare, diffusa a centinaia e centinaia di copie, provò ai concittadini del cavaliere don Eugenio che egli era ancora tra i vivi. Nessuna notizia di lui arrivava più da anni; sulle prime, aveva scritto ai parenti chiedendo quattrini in prestito per grandi e sicure speculazioni; ma poichè gli rispondevano picche, aveva finalmente smesso. Che cosa avesse fatto tanto tempo, dove fosse stato, non seppe nessuno. Nessuno di quelli che andavano a Palermo lo vide mai, nessuno udì parlare di lui, e insomma l’ignoranza dei fatti suoi fu così grande, che molti avevano supposto fosse passato zitto zitto al mondo di là. La posta non aveva finito di distribuire il manifesto dell’Araldo Sicolo, che arrivò l’autore in persona.
Mancava da tanti anni, ed era naturalmente invecchiato, toccando ormai la sessantina; ma stranamente imbruttito, anche, e quasi irriconoscibile. Sul viso dimagrito ed emaciato il naso sembrava essersi allungato, come una tromba, una proboscide, un’appendice flessibile atta a frugare in mezzo al letame; la caduta dei denti, affossando la bocca, aveva contribuito anch’essa a quell’apparente crescenza che dava a tutto il viso un aspetto basso, ignobile e quasi animalesco. Indosso, la sordidezza della camicia e dell’abito a coda, troppo lungo e troppo largo, con un panciotto che era stato bianco e l’untume del cappello che pareva sudasse dal troppo caldo, lo facevano prendere per un servitore di trattoria o per un bigliardiere di bisca; la gotta che gli tormentava i piedi lo costringeva ad un’andatura storta e strisciante. Prese alloggio in un albergo d’infimo ordine; ma alle prime persone alle quali si diede a conoscere — giacchè nessuno lo riconosceva — egli disse che non aveva trovato camere disponibili al Grand Hôtel e che, partito improvvisamente da Palermo, non aveva potuto portare con sè i bauli — i bàuli, come pronunziava.
La sua prima visita fu pel capo della famiglia; ma, giunto dinanzi al portone del palazzo, vide con stupore che era chiuso, col solo sportello aperto. Datosi a conoscere come zio del padrone al nuovo portinaio che lo squadrava da capo a piedi, sentì rispondersi che non c’era nessuno: nè il principe, nè la principessa, nè Consalvo: partiti tutti: il signorino in viaggio da quasi un anno, i padroni per togliere dal collegio la signorina e farle vedere un po’ di mondo. Non bene persuaso, come uno avvezzo ad esser mandato via, il cavaliere alzava gli occhi alle finestre, pareva voler guardare a traverso i muri, quando s’udì salutare:
— Eccellenza?... Vostra Eccellenza qui?
Era Pasqualino Riso, il cocchiere. Anche lui era andato giù, non sfoggiava gli abiti eleganti, gli anelli e le catene d’oro d’un tempo.
— Tutti partiti, Eccellenza.... La casa è vuota!
— Quando torneranno?
— Non sappiamo, Eccellenza; forse per le vendemmie, i padroni....
— E il principino?
— Ah, il principino non per ora....
Don Eugenio, i cui occhietti luccicavano di curiosità sul viso affamato, s’accomodò sulla seggiola senza spalliera che il portinaio teneva dinanzi all’uscio del suo stanzino, domandando:
— Perchè? Che c’è di nuovo?
E a poco a poco, Pasqualino rivelò la verità. Il signorino non poteva più stare in casa, almeno per un certo tempo, a cagione dell’urto continuo col padre. Dai tanti dispiaceri, il signor principe era caduto ammalato. Quanto a don Consalvo, non si poteva dire che s’affliggesse tanto da farne una malattia, ma neanche lui doveva ingrassare a furia di dissapori e di diverbii; il meglio perciò era che se ne stesse un pezzo lontano... Così il principe avrebbe trovato tempo di placarsi, di persuadersi che, in fin dei conti, il figliuolo non aveva ammazzato nessuno! L’accusavano di non interessarsi alle faccende dell’amministrazione, di trattar male la madrigna? «Ma Vostra Eccellenza sa com’è fatto il signor principe: piuttosto che dare ad altri i registri dei conti o le chiavi della cassa, si lascerebbe tagliare tutt’e due le mani!... Alla principessa il signorino non vuol bene come una madre, questo è vero: madre però ce n’è una sola: dico bene, Cavaliere? La madrigna, basta che la rispetti; e rispettarla, la rispetta...» La ragione vera del dissenso era pertanto un’altra: che il signor principe non voleva metter fuori quattrini, e il principino invece spendeva da signore... Perciò il signorino aveva firmato qualche cambialetta; e ogni volta che i creditori ne presentavano una al signor principe, pareva, Dio ne scampi e liberi tutti quanti, che gli pigliasse un accidente secco. E voleva perfino farlo arrestare, come se una cosa simile potesse dirsi per puro semplice scherzo, in casa Francalanza!
Fatto un gesto d’indignazione, Pasqualino prese un’altra seggiola nel bugigattolo, e sedette accanto al cavaliere, il quale, scrollando gravemente il capo, trasse di tasca mezzo sigaro spento e chiese un cerino al cocchiere. «Allora, Vostra Eccellenza permette?...» E accesa la sua pipa riprese il filo del discorso. Per chi dunque aveva ammassato tante ricchezze, il signor principe? Per sè stesso, no; giacchè non ne godeva; per la figlia, neppure; perchè, una volta maritata, la signorina Teresa avrebbe preso la sua dote e buona notte; dunque, pel figlio! Allora, perchè tenerlo a corto di quattrini? Un giovanotto come il principino di Mirabella aveva bisogno di tante cose; doveva, per necessità, far tante spese!... Il padrone non capiva questo, lui che, giovane, era vissuto da monaco. «Ma siamo tutti fatti ad un modo?» E poi, i tempi erano mutati: i signori dovevano spendere, se volevano essere considerati; se no, il primo ciabattino arricchito si reputava da più di loro!... E nel rammarico di non poter più guadagnare come un tempo sulle spese intime del padroncino, Pasqualino qualificava arditamente di porcherie le lesinerie del principe: diceva che per una lira colui avrebbe rinnegato il figliuolo; lasciava intendere, per trarre dalla sua il cavaliere, che il capo della casa, se fosse stato un altro, avrebbe dovuto aiutare i parenti che non erano ricchi quanto lui... Don Eugenio, fumando e sputando, con le gambe magre da don Chisciotte accavalciate, chinava il capo, dava ragione al cocchiere, si dava ragione da sè: «Io l’avevo detto... così non poteva durare... mio nipote ha un certo modo!...»
Al fresco del vestibolo la conversazione si prolungava: padrone e servo discorrevano intimamente, da pari a pari, mescolando il fumo della pipa e del sigaro; anzi, quantunque Pasqualino non fosse elegante come un tempo, pure sembrava il padrone, e don Eugenio il creato. Il guardaportone, tra scandalizzato ed invidioso della confidenza che il cavaliere accordava al cocchiere, spasseggiava dignitosamente dinanzi all’entrata, con le mani sul dorso del soprabitone gallonato.
— Chi è quel pezzo di straccione? — gli domandavano i commessi dell’amministrazione, uscendo dopo il lavoro.
— Uno zio del signor principe, dice!
E, tutto sommato, fu la miglior accoglienza che ebbe il povero don Eugenio. Il domani egli cominciò il giro dei parenti che erano in città: andò prima di tutti dal fratello don Blasco.
Il monaco pareva sul punto di scoppiare: il pancione gli s’era imbottito di lardo e la testa ingrossata; il mento si confondeva con la massa gelatinosa del collo. Non poteva muoversi, per l’enormezza della persona, per la fiacchezza delle gambe; e accanto a lui donna Lucia, la moglie di Garino, sembrava svelta e leggiera.
— Perché sei tornato? — disse al fratello, appena lo vide entrare ed a modo di saluto. Aveva infatti ricevuto la circolare dell’Araldo sicolo, e comprendendo da questo che doveva essere con l’acqua alla gola, metteva le mani avanti, per evitare richieste di sussidii.
— Sono venuto per poco, — rispose don Eugenio; — prima di tutto per rivedervi, e poi per fare associati all’opera di cui ti ho mandato il manifesto...
E cominciò a enumerare gl’insigni sottoscrittori: Sua Altezza il Bey di Tunisi, i vizir della reggenza, i più gran signori palermitani; il principe d’Alì, il marchese di Lojacomo, il duca tale e il conte tal altro.
— E?... — fece il monaco, quasi per dire: «Perchè vieni a contarmi queste storie?» senza neppur domandare al fratello: «Sei stato a Tunisi? Che sei stato a farci?»
— Ho pure le firme di venti municipii, di trenta società, di otto biblioteche. L’affare è magnifico. A conti fatti, dedotte le spese di stampa, carta, posta, etc. con le sole soscrizioni sinora raccolte il guadagno è assicurato. Ma debbo ancora girare mezza Sicilia per fare associati. Se arriveremo a trecento, resteranno diecimila lire nette.
— E?...
— Io ti vorrei proporre di stampare insieme il libro.
Il monaco lo guardò fisso nel bianco degli occhi.
— Sei pazzo?
— Perchè pazzo? Non credi che ci sia da guadagnare? Ti faccio i conti in quattro e quattr’otto, ti faccio vedere le firme raccolte...
— Non voglio veder niente! Credo benissimo e ti ringrazio tanto. Tieni per te le diecimila lire.
Il cavaliere aveva un bell’insistere, col tono persuasivo e insinuante d’un sensale o d’un mezzano, e un bel sgolarsi per dimostrare a luce meridiana l’eccellenza della sua proposta; don Blasco continuava a rifiutare, dapprima seccamente, poi alzando la voce, poi gridando perchè quel seccatore gli si togliesse dai piedi.
— Allora... se non vuoi correre i rischi dell’affare... fammi un favore... I soscrittori non pagano anticipatamente; m’occorre una somma per cominciare la stampa. Prestami un migliaio di lire...
— Non le ho.
— Ti cederò le firme più sicure, le sceglierai tu stesso...
— Non le ho.
Il cavaliere non si scoraggiava neppure adesso. Ridusse la domanda da mille a ottocento e poi a cinquecento lire; e poichè il monaco continuava a rispondere, cantilenando dall’impazienza: «Non le ho, non-ho-de-na-ri.... come debbo dirtelo?...» don Eugenio concluse, pacatamente:
— Allora aspetterò finchè sarai comodo.... Non ho fretta: prima debbo compire la soscrizione... poi ti porterò a veder le schede, le domande, i manifesti...
Sperando di riuscir meglio con la sorella, il cavaliere andò a rinnovare il tentativo con donna Ferdinanda. Asciutta e verde come un aglio, la zitellona pareva sfidare il tempo, gli anni le passavano addosso senza mutarla: ne aveva oramai sessantadue e non ne mostrava più di cinquanta. Solo le mani le si coprivano di rughe e si spolpavano e s’irruvidivano a contar denari, come a lavorare il ferro od a zappar la terra. Anche lei aveva ricevuto la circolare dell’Araldo sicolo: ma, vedendo il fratello, cominciò a chiedergli notizie della sua salute, di Palermo, delle persone che conosceva in quella città; ascoltando con interesse i discorsi interminabili del cavaliere che, incoraggiato da quelle buone disposizioni, nominava un mondo di persone colle quali era come «fratello,» ne narrava i casi con tanto interesse come se fossero occorsi a lui in persona: «la separazione del duca Proti, tanto amico mio... quella pazza della baronessa non mi volle dar retta... io al principe l’avevo detto: Caro Emanuele, pensaci bene...» Le chiacchiere tiravano in lungo, perchè donna Ferdinanda gli dava la corda, ed il cavaliere non ne aveva neppur bisogno, felice di mentovare le sue grandi relazioni palermitane.
— E non sai la più bella notizia? La figlia della Palmi è sposa!
— Sì? E con chi?
— Col mio amico Memmo Duffredi, Duffredi di Casaura, il nipote di Ciccio Lojacomo: la prima nobiltà di Palermo e parecchi milloncini di proprietà...
— Ma davvero?
— Una gran fortuna per la ragazza! Quell’intrigante del barone ha combinato ogni cosa ed ha preso Memmo in trappola... Naturalmente, come parente, non potevo dir questo, altrimenti sarei andato da Ciccio per avvertirlo: «Tuo figlio può trovare un partito migliore...» E poi, quella ragazza ha un certo fare... Basta; io non ho parlato, tanto più che giusto quando si combinava la cosa, ero a Tunisi...
— Ah, sei stato a Tunisi? E per fare che cosa?
— Che cosa?... Niente!... Per diporto... — egli tossicchiava un poco, tuttavia, imbarazzato, quasi confuso. E poichè donna Ferdinanda continuava a fargli domande, per sapere se Tunisi era una bella città, quanto tempo c’era stato e via discorrendo, il cavaliere, quasi risolvendosi, disse finalmente:
— Ci fui anche per raccogliere soscrizioni alla mia opera, sai...
— Opera? — fece la zitellona, con atto di meraviglia. — Qual opera?
— Come, non hai ricevuto il manifesto?
— Io non ho ricevuto niente...
— L’Araldo sicolo?... la storia della nobiltà?...
— Tu?... Tu stampi un’opera?... Ah! ah! ah!...
E scoppiò in una di quelle sue rare risate che pungevano nel vivo. Don Eugenio, che aveva sostenuto imperterrito tutti i rifiuti del monaco, si sconcertò all’ilarità della sorella.
— Perchè? — domandò, tentando di rialzare la propria dignità di cui donna Ferdinanda faceva ludibrio con quelle risa indecenti. — Non sono forse buono a scriverla, come tanti altri?...
— Ah! ah! ah!..
E la risata non finiva. Quando il vecchio spiegò che libro aveva scritto, essa divenne più fine, più ironica, più tagliente. Una storia della nobiltà dopo il Mugnos e il Villabianca? Per ficcarci dentro gli arricchiti che si facevano dare del cavaliere e del marchese? La nobiltà autentica era tutta scritta nei libri antichi!... E il cavaliere tentava almeno di dimostrare la bontà della speculazione: ma la zitellona non gli dava quartiere: guadagnare con la carta sporca? Per chi mai la carta sporca ha avuto valore, fuorchè pei pizzicagnoli? E chi avrebbe comprato un libro di lui? Si sarebbero messi a ridere, come rideva lei! Le firme? Le avevano poste per levarselo di torno! Bisognava vedere quanti avrebbero poi pagato!...
— Almeno, mi presti qualche centinaio di lire?
— No, perchè non me le restituiresti.
E ogni altra insistenza fu inutile.
Andato a ripetere il tentativo dalla nipote Chiara, don Eugenio non potè neppure vederla: la cameriera gli disse che il marchese era fuori e la marchesa chiusa in camera col dolor di capo.
— Digli che c’è suo zio.
— Vostra Eccellenza scusi; ma quando ha il dolor di capo, nessuno può parlare alla signora marchesa.
E facendo il cavaliere un atto d’impazienza, la donna mormorò, guardandosi attorno:
— Eccellenza, c’è guai!
— Che guai?
"La marchesa.... ma signor cavaliere, per carità, non mi faccia perdere il pane!... Pazza pel marito, è vero, Eccellenza? Tutt’una cosa; quello che voleva il signor marchese era legge per lei.... Nè il padrone ne abusava: d’amore e d’accordo in tutto e per tutto.... Adesso? Adesso non c’è più pace, per quel figlio di... chi so io! Un diavolo dell’inferno, Eccellenza; e la padrona, che non ci vede dagli occhi, dal tanto bene che gli vuole, lo lascia fare, lo difende contro il padrone.... Litigano tutti i giorni, perchè il signor marchese vorrebbe correggerlo, insegnargli l’educazione, obbligarlo a studiare; e invece la nipote di Vostra Eccellenza se la prende col padrone perchè gli maltratta il ragazzo.... Ieri vennero alle grosse; non si parlano da ventiquattr’ore.... Il signor marchese è uscito di casa all’alba.... chi sa se torna!
E, per quanto insistesse, don Eugenio non potè persuadere la cameriera ad affrontare il malumore della padrona portandole l’ambasciata.
Allora egli andò a battere alla porta dei Giulente. Arrivò da loro sull’annottare, dopo una giornata di corse. Benedetto non c’era e Lucrezia non si riconosceva più, tanto s’era trasformata ed imbruttita. Il corpo era diventato un sacco di carne, dove non si distinguevano più nè seno, nè vita, nè fianchi; il viso, dalla continua acrimonia che la animava, dall’inguaribile scontento della propria condizione, era divenuto duro, arcigno, inaspettatamente rassomigliante a quello del principe. E il primo discorso che tenne allo zio, rivedendolo dopo tanti anni, fu giusto contro Benedetto.
— Non c’è; non sta mai in casa. Adesso che non è più sindaco, s’è fatto nominare presidente del Consiglio provinciale. Per amor della patria, Vostra Eccellenza mi capisce. Più invecchia, e più bestia diventa. È un pazzo! Ma la disgrazia è che fa impazzire anche me. Dopo vent’anni, — ella calcolava il tempo a modo suo, — un altro che non fosse tanto bestia avrebbe capito l’inutilità di fare il servitore a questo e a quello. Invece, pare l’uovo al fuoco: più sta e più indurisce! Vuol essere deputato; per che cosa, domando io? Dopo che sarà deputato, che cosa avrà buscato? A fare il sindaco ha guadagnato questo: che nessuno lo può vedere, neppur quelli ai quali ebbe la stupidaggine di rendere servizio! Bene gli sta!...
Verso la propria famiglia ella aveva ancora quel misto d’astio, di invidia e di premura, secondo che il vanto di farne parte, il dolore d’averla lasciata o il sospetto d’esserne ripudiata predominavano nel suo cervello. Anche ora, parlando del viaggio del principe, ella ripeteva con insistenza che il fratello e la cognata le scrivevano ogni due giorni, e riferiva il contenuto delle loro lettere, annunziava il loro ritorno per l’autunno; poi cominciava a criticare ed a malignare:
— Hanno fatto bene a prender essi stessi Teresina dal collegio, e a farla viaggiare.... Mia cognata è un’altra madre per questa figliastra!... Dal tanto amore, l’ha tenuta due anni più del bisogno in collegio, per farne una letterata. Graziella s’intende molto di letteratura!...
Però, subito dopo soggiunse:
— Vostra Eccellenza non ha visto l’ultimo ritratto di Teresina?.. No?... Aspetti.... vedrà che bellezza; me l’hanno mandato due mesi addietro.... Di Consalvo però, — riprese dopo che ebbe mostrato il ritratto allo zio, — nè nuova nè vecchia.... come se non fosse loro figlio anche lui.... Senza le lettere che scrive alla zia, non sapremmo se è vivo o se è morto.... Adesso dice che è a Parigi. È stato a Berlino, a Londra, a Vienna....
Il cavaliere non l’udiva, rimuginando il discorso da tenerle. Appena la nipote fece una pausa, egli espose la speculazione ideata, che riuniva l’immancabile riuscita finanziaria alla nobiltà dello scopo. Ma Lucrezia:
— Storia della nobiltà? — replicò. — Dov’è più la nobiltà? Che storia vuole scrivere Vostra Eccellenza? Adesso sono in favore i lustrascarpe, non i nobili! Per esser considerati, bisogna venire dal niente! Scriva piuttosto la storia dei villani e dei mastri notari; quella sì, che c’è da guadagnare!...
Imperturbabile, don Eugenio ricominciò il giorno seguente. Dai Radalì-Uzeda trovò il duca Michele e il barone Giovannino; la duchessa era fuori di casa. Michele, a venticinque anni, perdeva i capelli e pareva vecchio del doppio; Giovannino era invece più grazioso di prima, fine, elegante. Udita la richiesta del parente, entrambi risposero che solo la madre gli avrebbe potuto dare risposta. Il giorno dopo il cavaliere tornò a parlare con la duchessa, e questa cadde dalle nuvole:
— Io stampar libri? E come mai vi viene in testa una cosa simile? So molto di queste cose, io!
E don Eugenio ci rimise le pedate.
Ma egli non si perdette d’animo. Dai lontani parenti passò agli amici, ai semplici conoscenti, alle persone che incontrava per istrada e che fermava col pretesto di rivederle e salutarle. Cominciava a riferire, come se le avesse avute direttamente, le notizie del principe e di Consalvo apprese da Lucrezia, s’addolorava per la lite fra padre e figliuolo, annunciava il ritorno della principessina, che diceva d’aver visto a Firenze: «una bellezza da sbalordire!...» e poi parlava del suo soggiorno di Palermo, descriveva l’appartamento di dieci stanze che aveva abitato sul Cassaro, drappeggiandosi maestosamente nell’abito lercio e sdruscito che diceva la miseria, la fame, le ignobili promiscuità; riferiva ancora il viaggio di Tunisi, l’onorificenza beilicale ma senza spiegare a qual titolo l’avesse ottenuta, che cosa avesse precisamente fatto alla corte di Sua Altezza; e quando aveva bene intontito la gente con tutti quei discorsi, domandava a bruciapelo:
— Avete ricevuto il mio manifesto?
E riesponeva il concetto dell’opera, enumerava le adesioni ricevute: ogni volta, queste crescevano di numero: le firme dei privati salivano da duecento a trecento, a quattro, a cinquecento; quelle dei municipii sommavano a cinquanta, a settanta, a novanta; le biblioteche si moltiplicavano da un momento all’altro. Mille sottoscrittori erano già sicuri, un altro migliaio non potevano mancare. E offriva la compartecipazione, si restringeva all’anticipo, da ultimo dichiarava di contentarsi di dodici firme, di sei, anche di una. Per levarselo di torno, la gente prometteva ambiguamente; ma egli prendeva nota dei nomi in un suo portafogli unto e squarciato, unicamente imbottito di circolari e di schede, delle quali faceva nuove distribuzioni, ficcandole in tasca a chi rifiutava col gesto, raccomandando di diffonderle, di riempirle al più presto.... Dopo una giornata di lavoro, nel momento che stava per rientrare nell’albergo, incontrò Benedetto che ne usciva.
— Eccellenza!... Come sta?... Ero venuto a trovarla; mi dispiacque tanto, ieri, di non essere in casa...
Un poco imbarazzato, don Eugenio lo invitò a salir su in camera. Una camera col pavimento affossato, due strisce di tela bianca a guisa di tendine dinanzi alla finestra, una catinella sopra una seggiola e una brocca per terra.
— Ho dovuto venir qui perché al Grand Hôtel era tutto pieno. Come si sta male in questa città! A Palermo avevo un appartamento di dodici stanze... bisognava vedere che scala!...
E, nonostante il rifiuto oppostogli da Lucrezia, egli cavò di tasca le circolari ed entrò subito in materia.
— Tua moglie non t’ha detto?... Sono venuto per stampare la mia opera... un affare magnifico... tremila copie assicurate fin da ora... Per ventimila lire non la cederei a nessuno... Ma non ho quattrini da cominciare la stampa. Vogliamo farla insieme? Spartiremo i guadagni, da buoni parenti ed amici.
Giulente esitò un poco, poi domandò:
— Che ha detto Lucrezia?
— Tua moglie? Ha detto di sì, solo che tu ti persuada della convenienza della cosa. Guarda un po’... — E non capendo nei panni dalla gioia d’aver trovato finalmente uno che non rifiutava, gli sciorinò dinanzi alcune schede con qualche firma.
— Va bene, va bene, giacchè Lucrezia approva...
— Se anche mutasse parere, in fin dei conti, potremmo fare a meno del suo consenso!...
Benedetto esitò un poco, poi disse:
— Nossignore, è necessario... perché adesso i denari li tiene lei...
— Come! I denari? Tu non puoi disporre di qualche migliaio di lire?
— Eccellenza no... Gli affari pubblici mi portavano via molto tempo... Ho ceduto a lei l’amministrazione...