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I Vicerè 477

suadere la cameriera ad affrontare il malumore della padrona portandole l’ambasciata.

Allora egli andò a battere alla porta dei Giulente. Arrivò da loro sull’annottare, dopo una giornata di corse. Benedetto non c’era e Lucrezia non si riconosceva più, tanto s’era trasformata ed imbruttita. Il corpo era diventato un sacco di carne, dove non si distinguevano più nè seno, nè vita, nè fianchi; il viso, dalla continua acrimonia che la animava, dall’inguaribile scontento della propria condizione, era divenuto duro, arcigno, inaspettatamente rassomigliante a quello del principe. E il primo discorso che tenne allo zio, rivedendolo dopo tanti anni, fu giusto contro Benedetto.

— Non c’è; non sta mai in casa. Adesso che non è più sindaco, s’è fatto nominare presidente del Consiglio provinciale. Per amor della patria, Vostra Eccellenza mi capisce. Più invecchia, e più bestia diventa. È un pazzo! Ma la disgrazia è che fa impazzire anche me. Dopo vent’anni, — ella calcolava il tempo a modo suo, — un altro che non fosse tanto bestia avrebbe capito l’inutilità di fare il servitore a questo e a quello. Invece, pare l’uovo al fuoco: più sta e più indurisce! Vuol essere deputato; per che cosa, domando io? Dopo che sarà deputato, che cosa avrà buscato? A fare il sindaco ha guadagnato questo: che nessuno lo può vedere, neppur quelli ai quali ebbe la stupidaggine di rendere servizio! Bene gli sta!...

Verso la propria famiglia ella aveva ancora quel misto d’astio, di invidia e di premura, secondo che il vanto di farne parte, il dolore d’averla lasciata o il sospetto d’esserne ripudiata predominavano nel suo cervello. Anche ora, parlando del viaggio del principe, ella ripeteva con insistenza che il fratello e la cognata le scrivevano ogni due giorni, e riferiva il contenuto delle loro lettere, annunziava il loro ritorno per l’autunno; poi cominciava a criticare ed a malignare:

— Hanno fatto bene a prender essi stessi Teresina dal collegio, e a farla viaggiare.... Mia cognata è un’altra