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I Vicerè 479

che incontrava per istrada e che fermava col pretesto di rivederle e salutarle. Cominciava a riferire, come se le avesse avute direttamente, le notizie del principe e di Consalvo apprese da Lucrezia, s’addolorava per la lite fra padre e figliuolo, annunciava il ritorno della principessina, che diceva d’aver visto a Firenze: «una bellezza da sbalordire!...» e poi parlava del suo soggiorno di Palermo, descriveva l’appartamento di dieci stanze che aveva abitato sul Cassaro, drappeggiandosi maestosamente nell’abito lercio e sdruscito che diceva la miseria, la fame, le ignobili promiscuità; riferiva ancora il viaggio di Tunisi, l’onorificenza beilicale ma senza spiegare a qual titolo l’avesse ottenuta, che cosa avesse precisamente fatto alla corte di Sua Altezza; e quando aveva bene intontito la gente con tutti quei discorsi, domandava a bruciapelo:

— Avete ricevuto il mio manifesto?

E riesponeva il concetto dell’opera, enumerava le adesioni ricevute: ogni volta, queste crescevano di numero: le firme dei privati salivano da duecento a trecento, a quattro, a cinquecento; quelle dei municipii sommavano a cinquanta, a settanta, a novanta; le biblioteche si moltiplicavano da un momento all’altro. Mille sottoscrittori erano già sicuri, un altro migliaio non potevano mancare. E offriva la compartecipazione, si restringeva all’anticipo, da ultimo dichiarava di contentarsi di dodici firme, di sei, anche di una. Per levarselo di torno, la gente prometteva ambiguamente; ma egli prendeva nota dei nomi in un suo portafogli unto e squarciato, unicamente imbottito di circolari e di schede, delle quali faceva nuove distribuzioni, ficcandole in tasca a chi rifiutava col gesto, raccomandando di diffonderle, di riempirle al più presto.... Dopo una giornata di lavoro, nel momento che stava per rientrare nell’albergo, incontrò Benedetto che ne usciva.

— Eccellenza!... Come sta?... Ero venuto a trovarla; mi dispiacque tanto, ieri, di non essere in casa...

Un poco imbarazzato, don Eugenio lo invitò a salir