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I Vicerè | 181 |
Conosceva i feudi, le tenute e i poderi meglio di tutti i Cellerarii di campagna, ciascuno dei quali era preposto al governo d’una sola proprietà; e quando bisognava rammentar qualcosa, la data d’un avvenimento molto lontano, la misura d’un antico raccolto, tutti ricorrevano a lui.
Il principino era adesso la sua più grande affezione: egli se lo teneva vicino più che poteva, gli regalava dolci e balocchi, lo vantava all’Abate, al Maestro dei novizi, agli zii ed a tutti. Il ragazzo, veramente, era troppo vivace, faceva il prepotente, attaccava lite coi compagni; Frà Carmelo, paziente ed indulgente, sapeva scusarlo presso il Maestro, se commetteva qualche monellata, e raccomandava prudenza agli altri Fratelli se di queste monellate essi scontavan la pena.
— Bisogna lasciarli fare, i ragazzi; e poi sono signori, e a noi tocca obbedirli.
I Fratelli, infatti, erano addetti alle grosse bisogne, servivano i Padri al refettorio, mangiavano alla seconda tavola; e quando i monaci dicevano l’uffizio in coro, essi recitavano in un cantone il solo rosario. Per entrar novizii e diventar monaci bisognava esser nobili, e Frà Carmelo, fanatico di quelle cose quanto donna Ferdinanda, celebrava la nobiltà riunita a San Nicola. Vi si trovavano infatti i rappresentanti delle prime famiglie non solo della Val di Noto, ma di tutta la Sicilia, perchè in tutta la Sicilia c’era solo un altro convento di Cassinesi, a Palermo, e così inferiore in grandezza, ricchezza ed importanza, che mandavano lì da Catania i monaci stravaganti, per punizione. L’Abate era un gran signore napoletano, il secondogenito del duca di Cosenzano; da Monte Cassino era venuto anche il Padre Borgia, romano, di quella famiglia che aveva dato un Papa alla cristianità; e poi c’erano gli isolani, i Gerbini, che discendevano da re Manfredi per via di donne; i Salvo, venuti in Sicilia con gli Svevi; i Toledo, i Requense, i Melina, i Currera spagnuoli come gli Uzeda, i Cùrcuma e i Sagonti, di nobiltà longobarda;