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I Vicerè | 177 |
L’uscio s’aperse un poco, ed egli comparve, in pantaloni e maniche di camicia, con la pipa in bocca, in mezzo alla camera sottosopra come un campo lavorato.
— Qui c’è il nipotino di Vostra Paternità, che viene a baciar la mano alla Paternità Vostra.
— Ah, sei qui? — esclamò il monaco, nettandosi le labbra col rovescio d’una mano. — Va bene, tanto piacere! — aggiunse senza fargli neppure una carezza; poi, rivolgendosi al fratello: — Conducetelo a spasso nella Flora.
Dopo tante grida contro l’ignoranza e la mala educazione del pronipote, il monaco era montato in bestia quando il principe aveva deciso di metterlo a San Nicola. Ce lo mettevano per educazione? Voleva dire che non erano buoni di educarlo in casa! Allora aveva ragione lui quando diceva che davano al ragazzo di begli esempii? Ma Giacomo voleva mettere il figlio a San Nicola anche per gli studii: come se gli Uzeda avessero mai saputo fare di più della loro firma! E poi ci voleva molto a dargli qualche maestro, se avevano la fregola di farne un letterato? I maestri, però, poco o molto, bisognava pagarli, e questo era il solo e vero motivo della deliberazione: risparmiare i baiocchi; perchè ai Benedettini non solamente non si pagava nulla, ma le stesse famiglie degli scolari ci guadagnavano qualcosa!...
Le camere del Noviziato aprivano tutte in un giardino destinato unicamente al diporto dei ragazzi; non c’erano soltanto fiori, ma alberi fruttiferi, aranci, limoni, mandarini, albicocchi, nespoli del Giappone, e la mattina un pigolìo assordante di passeri svegliava i novizii prima ancora che Frà Carmelo venisse a chiamarli per le divozioni che andavano a dire nella cappella. Finito di pregare tornavano tutti nelle loro camere, facevano una colazione frugale perchè il pranzo era a mezzogiorno, e ripassavano le lezioni per trovarsi pronti all’arrivo dei lettori che insegnavan loro l’italiano,
I Vicerè — 12 |