I Robinson Italiani/Capitolo IX
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Capitolo IX
Gli alberi del veleno
Erano appena cessate le ultime strida degli uccelli notturni, quando i naufraghi abbandonarono la capanna, per mettersi alla ricerca dell’albero necessario per le armi che intendevano di procurarsi.
Le tenebre lottavano contro la luce che invadeva rapidamente lo spazio, tingendo il mare di splendidi riflessi madreperlacei e di scintillii d’argento che accennavano a diventare rapidamente d’oro.
Per l’aria volavano ancora pesantemente alcuni di quei grossi pipistrelli chiamati dai malesi kuleng e dai naturalisti pteropus edulis, bruttissimi, col corpo delle dimensioni d’un piccolo cane, colle ali così larghe che unite misurano un metro e perfino un metro e trenta centimetri. Ma già cominciavano ad alzarsi fra i rami degli alberi bande di pappagalli colle penne splendide; delle coppie di superbi chimancus albas, grossi come piccioni, col becco lungo e sottile, le penne nere, vellutate, a riflessi verdi fino a mezzo corpo e quelle posteriori più candide della neve e terminanti in due lunghe barbe arricciate; di epimachus speciosus, grossi come i falchi comuni, colle penne nere che parevano di seta, con certe sfumature indefinibili e con code lunghe un buon mezzo metro, sottilissime e con riflessi d’oro e stormi di graziosi cicinnurus regius, grandi come i nostri tordi, colle piume del dorso rosso-cupe con screziature d’argento, il collare verde-dorato, il petto bianco e con due grossi ciuffi di piume sotto la gola, rossicci e verdastri.
Tutti questi bellissimi volatili volteggiavano senza manifestare alcun timore, appressandosi talvolta ai naufraghi come se nulla avessero da paventare da parte di quegli uomini, il che indicava come non ne avessero prima mai veduti.
Oltrepassata la piantagione dei bambù, Albani guidò i compagni in mezzo ad una fitta foresta, i cui tronchi erano così uniti, da rendere spesso il passaggio assai difficile.
I rami e le foglie di tutte quelle piante s’intrecciavano in una confusione indescrivibile, impedendo alla luce di giungere fino a terra, mentre migliaia e migliaia di rotang s’attorcigliavano attorno ai fusti o s’allungavano fra i cespugli o pendevano in forma di festoni o formavano delle vere reti, contro le cui maglie la scure talvolta si trovava impotente.
La flora indo-malese, così ricca, così svariata, pareva si fosse concentrata in quella foresta, che sembrava si estendesse su quasi tutta l’isola. Si vedevano là delle piante che avrebbero potuto fornire ai poveri naufraghi della Liguria, mille cose utilissime, ma il signor Albani pareva che pel momento non si occupasse di loro e non si arrestava dinanzi ad alcuna, nè rispondeva alle domande dei compagni, i quali, pur avendo poca conoscenza di quegli alberi, avevano scoperto dei manghi e dei cocchi carichi di frutta deliziose.
A un tratto però il veneziano si lasciò sfuggire un grido:
— Finalmente! —
Erano giunti sul margine d’una piccola radura, in mezzo alla quale si rizzava isolato un grande albero, alto più di trenta metri, col tronco dritto, snello, senza nodi fino a tre quarti d’altezza e coperto da un fogliame folto di colore verde-cupo.
Per un raggio di trenta e più metri intorno all’albero il terreno era spoglio d’ogni vegetale, e anche le piante che crescevano di là di quelle zone apparivano malaticce e colle foglie semi-ingiallite, come se si trovassero a disagio presso quel solitario.
— Non levatevi il berretto, — disse Albani.
— Per quale motivo, signore? — chiese il marinaio.
— Perchè le emanazioni di quest’albero non mancherebbero di procurarvi delle emicranie acute.
— Che specie d’albero è quello?
— Uno dei più velenosi che esistano: è il bahon-upas.
— Viriamo di bordo, signore.
— Al contrario, Enrico. È la pianta che cercavo per fabbricare le nostre armi.
— Volete adoperare il veleno di quell’albero?
— Sì, e ti assicuro che è potente.
— Io ho udito parlare già di questi upas a Giava, signore, ed anche a Sumatra.
— Ti credo.
— Volete avvelenare delle frecce col succo di quella pianta?...
— Sì, Enrico.
— Ma come faremo a estrarlo?
— Come fanno i selvaggi del Borneo: ora lo vedrai. —
Il veneziano aveva recato con sè un pentolino ed una canna di bambù tagliata per metà e aguzzata ad una estremità. Afferrò la scure e fece ai piedi dell’albero una profonda incisione, cacciandovi dentro il cannello. Vi mise sotto il pentolino, poi si ritrasse sollecitamente sotto il bosco, invitando i compagni a seguirlo.
— Non è prudente respirare le esalazioni di quel succo velenoso, — disse. — Si corre il pericolo di perdere i denti e di contrarre dei dolori difficili a guarirsi. Attendiamo qui che il recipiente si riempia.
— Ma così potente è il veleno di quell’albero? — chiese il marinaio.
— Tanto potente, che come vedi, nessuna pianta può crescere sotto l’ombra di quel solitario e che gli uccelli che si posano inavvertitamente sui suoi rami, cadono fulminati. Se tu ti sdraiassi sotto quell’ombra, non tarderebbero a coglierti dei dolori e se tu non avessi un berretto, potresti perdere i tuoi capelli.
— E voi userete quel veleno?...
— So come si deve adoperarlo, avendo veduto parecchie volte i Kajan del Borneo a raccoglierlo e poi manipolarlo.
— Un uomo colpito da una freccia intinta nel succo dell’upas, muore?...
— Sì, in capo a dieci o quindici minuti. Sembra che il principio venefico dell’upas, secondo le ultime ricerche fatte dai naturalisti, consista in un alcaloide vegetale e in un acido che non fu ancora determinato.
L’uomo colpito da una freccia avvelenata prova subito un tremito convulso, una debolezza estrema, poi un’ansietà penosa, difficoltà di respirazione, quindi vomiti, convulsioni tetaniche e spira fra dolori atroci.
— E non vi sono rimedi contro tale veleno?...
— È difficile la guarigione, però alcuni feriti sono sopravvissuti, essendo stati curati con grande quantità di bibite alcooliche. Anche l’ammoniaca si dice che abbia dato buoni risultati.
— Ma basta bagnare le frecce nel succo, perchè diventino micidiali?...
— No, bisogna prima lasciarlo condensarsi al sole, poi mescolarlo con altri succhi. Se avessimo del tabacco sciolto in un po’ d’acqua basterebbe, ma non possedendone, troverò di meglio.
— Un’altra pianta velenosa?...
— No, del succo di gambir. Ho veduto già parecchie di quelle piante e so dove trovarle.
— Il succo dell’upas solo non basterebbe?...
— Sì, ma perde facilmente le sue qualità venefiche, mentre mescolato al gambir le conserva per un anno. Andiamo a vedere se il pentolino è pieno. —
Il recipiente era già quasi colmo d’un succo lattiginoso, il quale continuava a scendere abbondantemente dall’incisione fatta. Il veneziano lo rimescolò con un bastoncino, poi affidò il pentolino al mozzo, dicendogli:
— Non temere nulla; il succo appena scolato non ha alcuna efficacia, e anche se delle gocce ti lordassero le mani, nulla ti accadrebbe. —
Si rimisero in cammino per tornare alla capanna, ma il signor Albani continuava a guardare gli alberi, come se cercasse qualche altro vegetale. Avevano già percorso mezzo chilometro, quando indicò ai compagni una pianta sarmentosa coperta d’una corteccia rosso-cupa, con piccoli rami cilindrici e foglie ovali terminanti in una punta acuta e liscia d’ambo le parti, armate verso il picciuolo di spine uncinate.
— Ecco un gambir! — esclamò. — Raccogliamo queste foglie. — Stava per alzare le mani, quando si volse bruscamente.
— To’!... To’!... — esclamò. — Ecco un arbusto che raddoppierà la potenza del veleno dell’upas.
— Un’altra pianta velenosa? — chiese il marinaio.
— Sì, Enrico, e forse più terribile, poichè si dice che il succo introdotto nella circolazione del sangue ha un effetto più rapido producendo il tetano e quindi la morte. Tu raccogli le foglie del gambir, mentre io mescolo al succo dell’upas alcune gocce di questo cetting (strichnos tientè). —
Fece un’incisione nell’arbusto, che si era attortigliato attorno a una palma sontar e lasciò che l’umore lattiginoso si mescolasse con quello dell’upas, mentre i marinai facevano un’ampia provvista di foglie di gambir.
Quand’ebbero terminato lasciarono la foresta, non senza aver prima fatto raccolta di frutta di durion e di grossi aranci.
Ritornati alla capanna e rifocillatisi alla meglio con ostriche, crostacei e frutta, il signor Albani si mise al lavoro per preparare le armi.
Espose al sole il veleno perchè si condensasse, mise a bollire nella pentola le foglie di gambir dalle quali si estrae, dopo sessanta ore di cottura, quella sostanza bruno-scura, di consistenza elastica, conosciuta in commercio col nome appunto di gambir e che viene impiegata per fissare i colori, specialmente sulle stoffe di seta, ma che i bornesi e i malesi adoperano invece per far meglio aderire i succhi velenosi alle loro armi e alle frecce.
Ciò fatto fece accendere un grande fuoco e si mise ad arroventare due delle sbarre di ferro dei pennoni, scelte fra le più regolari e le meno grosse.
— Ma che cosa fate? — chiedeva insistentemente il marinaio, il quale seguiva con viva curiosità quelle diverse operazioni, senza capire gran cosa.
— Aspetta un po’, — rispondeva il bravo veneziano.
Aveva tagliato da una pianta dei rami che avevano il diametro di tre centimetri, la lunghezza di un metro e mezzo, rigorosamente diritti, e li aveva spogliati accuratamente dalle foglie.
Attese che l’asta del pennone fosse ben infuocata, poi cominciò a forare uno di quei bastoni, invitando il marinaio a imitarlo con un altro ramo.
Rinnovando parecchie volte l’operazione, dopo due ore i due bastoni erano interamente traforati.
— Il più è fatto, — disse il veneziano. — Ora fabbrichiamo le frecce.
— Una parola, signore, — disse il marinaio. — Ma dove sono gli archi?... Questi bastoni traforati non si piegano.
— Niente archi. —
Il marinaio e il mozzo lo guardarono con stupore.
— Gli archi sono difficili da maneggiare e poi occorre un legno adatto, che queste piante non possono darci. Io ho preferito costruire delle sumpitan, come usano quasi tutti i popoli della Malesia.
— Che cosa sono queste sumpitan?
— Delle cerbottane. Sono armi di grande precisione e si maneggiano con grande facilità.
— Ma voi siete un uomo straordinario, signor Albani! — esclamò Enrico. — E sperate colle vostre cerbottane di uccidere gli animali feroci?...
— Certo, amico mio.
— Ma gli animali colpiti dalle frecce avvelenate, si possono mangiare?...
— No, ma adopereremo delle frecce non avvelenate. Basta: continuiamo il nostro lavoro. —
Il signor Albani aveva raccolto delle canne sottili di giovani bambù e le aveva tagliate, dando a ciascuna una lunghezza di venti centimetri. Adattò all’estremità di ognuno uno spino assai acuto fornitogli dai bambù selvaggi e all’altra una specie di tappo di midolla vegetale, in forma di cono, del calibro della canna delle cerbottane.
Prese le sue armi e i suoi dardi e invitò gli amici a seguirlo. Presso un macchione di palme, una banda di kakatoe nere, splendidi uccelli grossi come un gufo, col capo sormontato da un ciuffo di piume, stava appollaiata fra i rami, cicalando a piena gola.
Il veneziano introdusse una freccia nella cerbottana, accostò questa alle labbra e dopo aver mirato con grande attenzione, soffiò con forza.
Il leggero dardo s’innalzò rapidamente e andò a colpire una delle più grosse kakatoe. L’uccello, ferito sotto la gola, con una precisione così straordinaria che indicava come il cacciatore fosse già assai esperto nel maneggio di quell’arma, interruppe bruscamente i suoi cicalecci e cadde a terra starnazzando disperatamente le ali.
Il mozzo fu lesto a raccoglierlo e scappò verso la capanna gridando:
— Vado a metterlo allo spiedo.
— Che colpo maestro!... — esclamò il marinaio, la cui sorpresa non aveva più limiti. — Ma voi avete adoperato ancora queste canne?
— Sì, a Pontianak, — rispose il veneziano, sorridendo.
— E credete che riuscirò anch’io a colpire gli uccelli?...
— La cosa non è poi tanto difficile. Fra tre settimane, esercitandoti tutti i giorni, potrai diventare un abile cacciatore.
— Ora che possediamo le armi, che cosa ci procurerete, signor Albani?...
— Il pane.
— Il pane!... E ne troverete?...
— Ho già veduto stamane delle piante che contengono la farina e domani andremo a tagliarle. Poi, se non sopravvengono degli incidenti, penseremo al resto. Andiamo a cenare, Enrico: abbiamo bisogno di un arrosto, dopo tanti molluschi e tante frutta. —