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62 Capitolo nono

il quale seguiva con viva curiosità quelle diverse operazioni, senza capire gran cosa.

— Aspetta un po’, — rispondeva il bravo veneziano.

Aveva tagliato da una pianta dei rami che avevano il diametro di tre centimetri, la lunghezza di un metro e mezzo, rigorosamente diritti, e li aveva spogliati accuratamente dalle foglie.

Attese che l’asta del pennone fosse ben infuocata, poi cominciò a forare uno di quei bastoni, invitando il marinaio a imitarlo con un altro ramo.

Rinnovando parecchie volte l’operazione, dopo due ore i due bastoni erano interamente traforati.

— Il più è fatto, — disse il veneziano. — Ora fabbrichiamo le frecce.

— Una parola, signore, — disse il marinaio. — Ma dove sono gli archi?... Questi bastoni traforati non si piegano.

— Niente archi. —

Il marinaio e il mozzo lo guardarono con stupore.

— Gli archi sono difficili da maneggiare e poi occorre un legno adatto, che queste piante non possono darci. Io ho preferito costruire delle sumpitan, come usano quasi tutti i popoli della Malesia.

— Che cosa sono queste sumpitan?

— Delle cerbottane. Sono armi di grande precisione e si maneggiano con grande facilità.

— Ma voi siete un uomo straordinario, signor Albani! — esclamò Enrico. — E sperate colle vostre cerbottane di uccidere gli animali feroci?...

— Certo, amico mio.

— Ma gli animali colpiti dalle frecce avvelenate, si possono mangiare?...

— No, ma adopereremo delle frecce non avvelenate. Basta: continuiamo il nostro lavoro. —

Il signor Albani aveva raccolto delle canne sottili di giovani bambù e le aveva tagliate, dando a ciascuna una lunghezza di venti centimetri. Adattò all’estremità di ognuno