I Persiani (Eschilo-Romagnoli)/Primo episodio
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PRIMO EPISODIO
Sopra un cocchio, in ricche vesti, seguita da ancelle, giunge la regina Atossa.
corifeo
O suprema tu fra quante son le belle donne perse,
salve a te, sposa di Dario, salve a te, madre di Serse.
Sposa al Dio dei Persïani, tu sei madre anche d’un Nume,
se per noi l’antico Dèmone non mutava il suo costume.
atossa
Perciò venni, pel timore ch’or si mostri a noi contrario,
e lasciai la reggia e il talamo dove io già vissi con Dario.
Un pensiero il cuor mi lacera. Un terrore in cor s’aduna
ch’io v’espongo, amici. Io temo che l’eccesso di fortuna
non abbatta e fra la polvere la potenza non calpesti
che innalzò Dario, non senza il volere dei Celesti.
Questo duplice pensiero di continuo mi travaglia.
Mai la gloria per l’uom povero al valor suo non s’agguaglia;
ma niun pregio ha l’opulenza, quando sia d’uomini scema.
Ora intatta è la ricchezza; ma per l’occhio il cuor mi trema:
occhio io dico della casa la presenza del Signore.
Poi che a ciò dunque gli eventi giunti son, nel mio timore
siate a me, fidi vegliardi Persïani, or consiglieri:
e i consigli vostri in tutto sian per me giusti e sinceri.
corifeo
Sappi bene, o mia Regina: qual parola od opra brami
che si compia, non la devi dir due volte. Tu ci chiami;
e per ciò che possiam noi — pronti siamo ai cenni tuoi.
atossa
Sempre, da quando il figliuol mio l’esercito
spinse, e partí, bramoso di distruggere
la Ionia terra, fra notturni sogni
vivo commista. E niun fu mai sí chiaro
come la scorsa notte. Or te lo narro.
Pareano innanzi a me giunger due femmine
in vesti adorne: un manto persïano
cingeva questa, e quella un manto dorico:
e di statura molto soverchiavano
le donne d’ora, e belle senza pecca,
e d’un sangue, sorelle. Ed abitavano
contrade avute in sorte: ellène questa,
barbare quella. Or, fra le due sorgeva,
pareami, una contesa. E il figliuol mio
se ne avvede, e le frena, e le ammonisce,
ed ai carri le aggioga, e impone redini
alle cervici. E in questa foggia, l’una
si pompeggiava, ed adattava docile
alle briglie la bocca: invece l’altra
relutta fiera, e con le man’ gli arnesi
strappa del cocchio, e rompe a mezzo il giogo,
e senza freno lo trascina a forza.
Il figliuol mio giú piomba; e appare Dario
suo padre, e lo compiange. E appena Serse
lo vede, strappa dalle membra i panni.
Ciò che ti dico, ho visto fra le tenebre.
Quando poi mi levai, quando ebbi terse
d’un fonte ne le belle acque le palme,
con le mie mani ad offerir libami
a un’ara m’appressai, per fare offerte
agli Dei, che lontani i mali tengano.
E un’aquila fuggir verso l’altare
di Febo veggo. Pel terrore, amici,
muta rimango. Ed ecco, con grande impeto
d’ali, piombare scorgo uno sparviere,
che con gli artigli il capo le dispiuma:
e quella, altro non fa che rannicchiarsi
e abbandonarsi. Tali auspicî, e me
che vidi, e voi che udite sbigottiscono.
Ben lo sapete: se la sorte è fausta,
il figliuol mio sarà per tutti obietto
di meraviglia. Ma se infausta... Ebbene
conto render non deve alla città.
Sia salvo, e Re sempre sarà di Persia.
corifeo
Troppo, o madre, sbigottirti non vogliam coi detti nostri,
né che troppo imbaldanzisca. Fa’ che ai Superi ti prostri,
a implorar che spersi mandino da te lungi i tristi auspici,
ed i buoni per te avverino, pel tuo figlio, per gli amici
tutti quanti, e per la patria. Versa quindi libamenti
alla terra ed ai defunti. E rivolgi preci ardenti
allo sposo visto in sogno, che dai baratri del suolo
ogni bene ai rai del giorno per te mandi e pel figliuolo,
e sotterra il mal trattenga, fra le tenebre nascosto.
Questo a te consiglia l’animo mio, presago e al ben disposto.
E che l’esito a ogni modo seguirà prossimo io stimo.
atossa
Buon volere, o tu che interprete dei miei sogni fosti primo,
t’ispirò questo responso pei miei tetti, per mio figlio.
Abbia dunque esito il bene. Come suona il tuo consiglio,
sacrifici ai cari estinti offriremo ed agli Dei,
quindi a casa torneremo. Questo poi saper vorrei:
in qual parte della terra leva Atene le sue mura?
corifeo
Lungi molto, verso i luoghi dove il sol cade e s’oscura.
atossa
Perché tanto bramò Serse di predar questa città?
corifeo
Se l’espugna, tutta l’Ellade ai suoi cenni obbedirà.
atossa
Dunque son le loro schiere di guerrieri cosí fitte?
corifeo
Un esercito han che ai Medi infliggea gravi sconfitte1.
atossa
Oltre agli uomini, han dovizia tal che basti a tanta guerra?
corifeo
Una fonte hanno d’argento che tesoro è di lor terra2.
atossa
Ne le lor mani, su l’arco tesa cuspide si vede?
corifeo
No; ma scudi e spade e lancie da pugnare a fermo piede.
atossa
Qual pastore è a lor preposto, che comandi a tanta gregge?
corifeo
Non son servi: niun mortale segna ad essi la sua legge.
atossa
Come allor sanno respingere straniero impeto ostile?
corifeo
Come a Dario sterminarono le serrate e belle file.
atossa
Per chi lunge ha i figli in campo, ciò che dici è grave affanno.
corifeo
Ma saper potrai ben presto tutto il vero, o ch’io m’inganno.
Un araldo persïano giunge a noi. Qualche notizia
certo udir da lui potremo, sia contraria, sia propizia
Giunge un araldo, stanco, affannato, recando in volto i segni
d’un estremo cordoglio.
araldo
O voi, città dell’Asia tutte, o terra
di Persia, porto di ricchezza immenso.
come ad un colpo solo andò distrutta
la gran felicità, come dei Persi
cade il fiore e si perde! Ahimè! Che male
è mirar primo i mali! E pure, è forza
che intiero il danno, o Persi, io sveli. Tutto
distrutto fu dei barbari l’esercito!
coro
Strofe I
Ahimè, miseri miseri,
mali novelli e immani!
Sgorghin le vostre lagrime
all’udir tanto strazio, o Persïani!
araldo
Tutto in rovina è andato. Del ritorno
contro ogni speme anch’io veduto ho il giorno.
coro
Antistrofe I
Ahimè! Del nostro vivere
troppo son lunghi gli anni,
quando, o vegliardi, simili
udir dobbiamo inopinati affanni.
araldo
Vi narrerò, né per veduta altrui,
ciò che patimmo: ivi presente fui.
coro
Strofe II
Indarno, indarno, ahimè,
delle commiste frecce il fitto stuolo
dalle contrade d’Asia
all’inimico mosse ellèno suolo!
araldo
Piene le spiagge son di Salamina
di tristi spoglie, e ogni terra vicina.
coro
Antistrofe II
Che dici? Ahimè, ahimè!
Senza piú vita i corpi erran dei Persi,
nel turbinio del pelago,
fra cozzo alterno di marosi immersi!
araldo
Gli archi nulla giovâr: l’urto dei rostri
tutti quanti distrusse i legni nostri.
coro
Strofe III
Leva angoscioso un gemito
sui Persïani, un ululo di lutto.
Oh derelitti! Ahi sorte in tutto misera!
Oh esercito distrutto!
atossa
Tacqui finor, misera me, percossa
dai miei malanni. La sciagura è tanta,
che parlare io non so, nulla piú chiederti.
È tuttavia necessità per gli uomini
patir gli affanni che i Celesti mandano.
Su, parla, e tutta la sventura svela,
pur se mescer dovrai parole e gemiti.
Chi vivo è ancora, e chi dobbiamo piangere
fra i duci? Chi, preposto alle sue schiere,
le lasciò senza capo, e trovò morte?
araldo
Serse ancor vive, il sole ancor contempla.
atossa
Oh!, che gran luce alla mia casa annunzi,
che bianca aurora dopo negra notte!
araldo
Oh Salamina, esoso nome! Oh!, quanto
d’Atene al sovvenir mi sciolgo in pianto!
coro
Antistrofe III
Atene, oh! come t’odia
chi t’è avverso! Il ricordo andrà lontano
di quante donne persïane furono
e spose e madri invano.
araldo
Artèmbare sbatté, di diecimila
cavalli duce, alle Silenie rupi3:
e Dadàce, di mille, un salto a vuoto
spiccò dal bordo, d’una lancia all’urto.
Tenagone, che il primo era dei figli
di Battrïana, l’isola d’Aiace
flagellata dai flutti, abita. Arsame,
Lilaio, e terzo, Argeste, intorno all’isola
di colombi nutrice, all’aspra cozzano
spiaggia coi corni, spenti. Artèo, finitimo
del Nilo egizio ai fonti, Adève, e terzo
il clipeato Fàmuco, piombarono
da un legno sol. Criseo Matallo, capo
di trentamila cavalieri negri,
bagnò la rossa fitta ombrosa barba,
color mutando entro purpureo bagno.
L’arabo Mago, il battrio Artame, giacquero,
nuovi meteci, in quella terra dura.
Ed Amistri e Anfistrèo, che la terribile
lancia vibrava, e Arïomarde il buono
che lutto a Sardi ora procaccia, e Sisamo
misio, e Taribi che guidava navi
cinque volte cinquanta, e nacque a Lirna,
fulgido eroe, giace ora spento, misero,
ché non gli arrise la ventura. E Sínnesi
re dei Cilici, il primo fra i magnanimi,
cruccio, ei da solo, agl’inimici, grande,
morte ebbe e gloria. Io questi sol rammemoro
dei condottieri. Ma ben pochi sono
questi che annuncio, dei malanni molti.
atossa
Ahi!, quale ascolto vertice di mali,
e quale onta dei Persi ed acuti ululi!
Ma torna ancor sul tuo racconto, e dimmi
quanta la copia delle navi ellene
era, se ardí scagliar contro l’esercito
dei Persïani l’impeto dei rostri.
araldo
Sappilo ben: per numero doveva
vincer la flotta barbara! Gli Elleni
trecento e dieci legni aveano in tutto,
ed oltre a questi, dieci, a parte eletti.
Serse, bene lo so, mille ne aveva,
che formavano il grosso; e assai piú rapidi
altre duecento sette: è tale il computo.
Ti par che a forze indietro rimanessimo?
Ma un Dio fiaccò l’esercito; e gravò
d’impari pondo i piatti della lance.
Guardano i Numi la città di Pallade.
atossa
Atene è dunque ancor dal sacco immune?
araldo
Troppo ha sicuro baluardo d’uomini.
atossa
Dimmi: come fu il primo urto dei legni?
La pugna aprîr gli Elleni, o, confidando
nel numero dei legni, il figliuol mio?
araldo
A inizïare il mal, Regina, apparve
un tristo genio, un Dèmone maligno.
Dalle schiere d’Atene giunse un èlleno,
e a Serse figliuol tuo narrò, che appena
la foschia scenda della notte negra,
gli Elleni, senza attender piú, sui fianchi
balzeranno dei legni, e in fuga occulta
chi qua chi là scamperanno la vita.
Com’egli udí, senza la frode intendere
di quell’uom, né l’invidia dei Celesti,
tali parole ai suoi navarchi volge:
che appena il sol desisterà dall’ardere
coi suoi raggi la terra, e buia tenebra
i sacri templi occuperà dell’ètere,
s’addensino le navi in fila triplice,
a custodire ogni sbocco, ogni tramite,
e cingano altre l’isola d’Aiace.
Ché se gli Elleni qualche via di fuga
nascostamente troveran pei legni,
e sfuggiranno al triste fato, tutti
i suoi navarchi mozzo il capo avranno.
Con baldo cuor queste parole disse,
ché non sapea ciò che apprestava il Nume.
Quelli con pronte voglie e con bell’ordine
apprestaron le cene; indi i nocchieri
ai bene adatti scalmi i remi legano.
E poi che spento fu del sole il raggio,
e discesa la notte, alla sua nave,
mastri d’armi e di remi, ognuno balza.
Partia la nave capitana gli ordini;
e, come cenno aveva, ognuno naviga;
e per tutta la notte i duci schierano
l’intera armata in ordine sul mare.
E trascorrea la notte; e non tentarono,
donde che fosse, ascosa fuga gli Èlleni.
Poi, come il dí coi suoi puledri bianchi
tutta occupò del fulgor suo la terra,
pria con gran rombo dalle schiere d’Èllade
suonò festoso armonïoso strepito;
ed alta un’eco subito rispose
dalle isolane rupi. Sbigottirono
tutti, delusi dall’attesa, i barbari:
ché non di fuga era preludio, questo
sacro peana degli Ellèni: a pugna
anzi con temerario ardor rompevano.
Col suo squillo accendea tutti la tromba:
col sonoro concorde urto dei remi
rompèano, a tempo, i gurgiti muggenti:
ed ecco tutti ai nostri sguardi apparvero.
Venia primo, in bell’ordine schierato,
il corno destro, ed era guida. E tutta
lo seguiva la flotta. E un alto grido
suonar s’udiva insieme: «O figli d’Èllade,
movete, orsú, liberate la patria,
le spose, i figli liberate, e l’are
dei Numi patri, e l’arche dei nostri avoli!»
Surse di contro, dalle file nostre,
un rumorio di persiani accenti:
né d’indugi era tempo: già la nave
alla nave battea col bronzeo rostro.
Fu d’un navile ellèno il primo cozzo,
e sfracellò d’un legno di Fenicia
tutti gli aplustri; e nave contro nave
chi qua chi là dirigono le prore.
La gran fiumana dell’armata persa
resse da pria. Ma poi che la caterva
dei legni nello stretto era stipata,
né luogo avea reciproco soccorso,
anzi l’un l’altro con i bronzei rostri
si percoteano, gli ordini dei remi
franti furono tutti; e i legni ellèni
accortamente l’investiano in giro.
Rovesce andaron le carene: sotto
i frantumi dei legni, e sotto i corpi
insanguinati, scompariva il mare,
spiaggia e scogli eran colmi di cadaveri;
e quante navi avean le schiere barbare,
facean forza di remi, a sconcia fuga.
Ma, come tonni, o come pesci in rete
già stretti, gli altri con troncon’ di remi,
con le schegge e i frantumi, li colpivano,
li sbranavano: e gemiti di morte
e trionfal clamore empieano il pelago,
sin che li ascose de la notte il volto.
Ma dir non ti potrei tutta la piena
delle sciagure, pur se il mio racconto
durasse dieci anni continui. Sappi
bene questo, però: che sí gran numero
d’uomini in un sol dí mai non fu spento.
atossa
Ahi!, che gran mare di sciagure ruppe
sui Persïani e sopra tutti i barbari!
araldo
Sappi che il mal non è finora al mezzo:
tanti danni sovra essi ancor piombarono,
che al tratto della lance gli altri uguagliano.
atossa
Qual sorte piú nemica esser potrebbe?
Dimmi, quale è questo esito di mali
che tracollar fece ancor piú la lance?
araldo
Quanti dei Persïani eran piú prodi,
d’animo insigni, nobili di stirpe,
e per fede al sovrano ognor fra i primi,
morte han trovata senza gloria, turpe.
atossa
Misera me! Che tristi eventi, amici!
E a qual destino, dici, soccombettero?
araldo
Sorge, vicina a Salamina, un’isola
breve, né rade ha pei navili dove
su la spiaggia del mar viene sovente
Pan de le danze amico. E qui mandati
Serse li avea, perché, quando i nemici
disfatti omai, balzino giú dai legni
nell’isoletta, a scampo, i nostri possano
facile scempio far di tutti gli Èlleni,
e dai gorghi gli amici in salvo trarre.
Ma lesse male nel futuro. Appena
concesse un Nume agli Èlleni la gloria
della battaglia, subito recinte
le membra con le belle armi di bronzo,
balzar giú dalle navi, ed inondarono
l’isola tutta: e i nostri ove rivolgersi
non sapevano piú. Molti cadevano
sotto i sassi scagliati: altri, le frecce
volavan dai vibranti archi a trafiggerli;
e infine, con un solo impeto mossi,
colpi addensano, sbranano le membra
degli infelici, insino a che la vita
di tutti ebbero spenta. Ululi alzava
Serse, vedendo il baratro dei mali:
ché sedea sopra eccelso clivo, presso
al mare aperto, donde a lui visibile
era tutto l’esercito. E, strappandosi
via le vesti, levando acuti stridi,
tosto raccoglie le pedestri schiere,
e si gitta con quelle a sconcia fuga.
Questa sciagura oltre alla prima or piangi.
atossa
Oh Dèmone odïoso, oh!, quale inganno
tramavi ai Persïani! Oh!, quanto amara
al mio figliuolo parve la vendetta
della celebre Atene! I tanti barbari
già spenti a Maratona, non bastarono!
Crede’ trame vendetta il fígliuol mio,
e su la fronte sua tanta di mali
moltitudine attrasse! Ora tu dimmi:
dove lasciasti i legni che sfuggirono
al fato? Sai tu ben significarmelo?
araldo
I duci delle navi anche superstiti,
confusamente, senza ardire, dove
soffia la brezza, si volgono a fuga.
Quel che restò de le terrestri schiere,
perí nel suolo dei Beoti: questi
travagliati da sete intorno al fiotto
delle sorgive: estenuati quelli,
senza anelito4. E quindi il suol di Fòcide,
e la dorica terra attraversiamo,
e il seno di Malía, dove col flutto
benigno i piani irriga lo Spercheo.
Quivi, stremati d’ogni cibo, il piano
li accoglieva d’Acaia, e le città
della Tessaglia. I piú quivi morirono
di sete e fame: ché soffrian d’entrambe!
E alla terra Magnesia e al suol Macedone
giungemmo, sopra il valico dell’Assio,
di Bolbe sopra le palustri canne,
di Pange all’alpe, ed all’Edonia terra.
In questa notte un Nume suscitò
intempestivo gelo, e le fluenti
tutte agghiacciò del limpido Strimone.
Qui, tal che pria fede negava ai Numi,
allora si prostrò, la terra e il cielo
con le preci invocò. Quando poi tregua
ebber le tante suppliche, l’esercito
il fiume traversò, fatto cristallo.
Ma sol chi lo varcò prima che i raggi
si spandesser del sole, in salvo giunse:
poiché l’orbe del sol, di raggi ardendo,
e con la vampa il tràmite bruciando,
lo liquefece a mezzo. Oh!, fortunato
chi perse prima l’alito vitale!
Quei che, serbati, attinsero salvezza,
traversata la Tracia a gran fatica,
sul patrio suolo sono qui, fuggiaschi;
né molti sono. Onde può Susa piangere
la sua piú cara gioventú perduta.
Il vero è questo. Ed altri assai tralascio
mali che un Nume ai Persïani inflisse.
coro
Oh!, con che greve piede, infesto Dèmone,
balzato sei sopra la persa stirpe!
atossa
Misera me, l’esercito è distrutto!
Oh!, visïoni dei notturni sogni,
come palese mi svelaste il danno!
Ahi!, male voi l’interpretaste! Pure,
poiché prevalse la sentenza vostra,
voglio prima innalzar preci ai Celesti.
Poi nella reggia tornerò, recando
ai defunti ed a Gea sacri libami.
Gli eventi omai, lo so, compiuti sono:
ma piú fausto il futuro esser potrebbe.
Ora, in questo frangente, o fidi miei,
presto darete a noi fidi consigli.
E il figlio mio, se di me prima giunga,
consolatelo, a casa accompagnatelo,
che nuovo male non s’aggiunga ai mali.
Atossa parte.
Note
- ↑ [p. 352 modifica]Si allude, qui, come, poco dopo, piú esplicitamente, (pag. 100, v. 1), alla battaglia di Maratona.
- ↑ [p. 352 modifica]Le miniere argentifere del Torico, e, piú famose, del Laurio.
- ↑ [p. 352 modifica]Silenie erano dette le spiagge di Salamina. Vedi oltre, pag. 109, v. 15 sg.
- ↑ [p. 352 modifica]Questo luogo si può interpretare variamente. Forse è da intendere che molti morissero per bere senza riguardo essendo in gran traspirazione.