I Mille/Capitolo XXXIV
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CAPITOLO XXXIV.
REGGIO.
Felice te! che il regno ampio dei venti |
Da Melito, ove la divisione Bixio, dopo d’aver tranquillamente ed ordinatamente eseguito lo sbarco, sopportò un forte cannoneggiamento della flotta nemica che ebbe per risultato l’incendio del magnifico piroscafo, il Torino, da Melito, dico, si marciò per la spiaggia occidentale delle Calabrie verso Reggio.
Nulla di molto importante successe in quella marcia, oltre alla riunione dei prodi compagni, che con Missori avean assaltato il forte Orientale del Faro, e non potendosene impadronire, come abbiam veduto per mancanza di una guida, erano stati obbligati di prender l’Aspromonte, ove avevan lottato con varia fortuna, contro i numerosi nemici che li perseguivano.
Con Missori giunsero pure dei bravi Calabresi che ci giovarono assai nell’espugnazione di Reggio, essendo praticissimi del paese.
Si assaltò di notte e per sorpresa quella città, e verso il meriggio del giorno seguente, essa ed i suoi forti furono in nostro possesso. Al passaggio della Divisione Bixio successe quello della Divisione Cosenz verso Scilla e colla congiunzione delle due si ottenne la capitolazione d’un corpo considerevole di Borbonici a Villa S. Giovanni con perdite insignificanti da parte nostra. E padrone della sponda Calabra, l’esercito meridionale, potè passar lo stretto senza ostacoli.
Torniamo un passo indietro verso le nostre eroine, che lasciammo in preda a Talarico sulla spiaggia della Cittadella di Messina. — Appena il capo dei masnadieri ebbe partecipato al Governatore l’esito riuscito della sua impresa, questi si presentò alla contessa, che dal giubilo di tener nelle unghie la rivale, abbandonò all’uomo, che essa disprezzava, la bella mano la quale fu coperta di baci, che quasi servirono di stimolo a qualche audacia più licenziosa; ma l’altiera romana, tornata in sè da un momento d’oblio, ritrasse la mano, sollevò la bella fronte, e retrocedendo d’un passo, balenò il generale innamorato con tale sguardo da fargli subito abbassar gli occhi, e ritornare nell’umile posizione sua al cospetto di lei.
«Bravo Generale!» gli disse essa con accento di sarcasmo, ma sorridente nel viso. «Bravo! ora mi permetto di riabilitarvi nella mia stima e vi chiedo perdono per aver dubitato dell’alta vostra capacità un momento».
Padrona della sua preda, essa sentì subito il bisogno d’allontanarsi dall’esoso soggiorno d’una fortezza e di Recarsi a Roma ove l’aspettavano il trionfo della sua vittoria, e la soddisfazione di veder una rivale odiata, trascinata nel fango delle cloache pretine.
Tale è la cecità in cui le passioni avvolgono l’essere umano: il che però non manca giammai di lasciar traccia di rimorso per tutta la vita.
«Ma la compagna» pensò essa, e qui bisogna far giustizia a questa donna colpevole, e straordinaria «la compagna è innocente, non entra nella mia vendetta, e senza dubbio devo restituirla a quella libertà, che essa non ha meritato di perdere.» Però, ripensando, essa credè bene di non rinviarla sulla sponda sicula, ma di farla sbarcare a Reggio nella notte seguente, per più distoglierla dal filo della trama sciagurata.
Presa tale determinazione, la contessa ingiunse al governatore di far subito eseguire i preparativi per la partenza di lei, e di far sbarcare Lina a Reggio nella notte seguente. E tale incarico fu nuovamente dato a Talarico.
Un capo di briganti, per capo di briganti che sia, per cuore di leone ch’egli abbia, quando capitano nelle sue mani creature vezzose come la Lina, che per il nostro Talarico avea di più il pregio d’una magnifica capigliatura bionda, non comune tra le trecciate d’ebano delle calabresi, diventa generalmente mansueto come un agnello.
E tale diventò precisamente il feroce nostro figlio d’Aspromonte trovandosi una seconda volta arbitro della bellissima Alpigiana; e quindi cercò questa volta per suo proprio conto d’inoltrarsi nelle buone grazie della fanciulla.
Come era bella, serena, la notte d’agosto in cui la nostra Lina incamminavasi verso Reggio, nella poppa della Sirena, scivolando sull’onda di quello stretto di Scilla e Cariddi, che gli antichi tanto avean temuto, colla velocità della quaglia, quando questa senza bussola o sestante, abbandonando le arene infuocate dell’Africa, traversa il Mediterraneo cercando clima più fresco!
Somigliava il mare a uno specchio, tanta era la calma, ed i rematori con una voga uniforme solcavano il seno d’Anfitrite, illuminato dal moto dei remi e dalla striscia lasciata dalla sottilissima chiglia del palischermo.
«Che bella notte, e che felice traversata avremo noi, signorina» disse il protervo abitatore della montagna, raddolcendo sino a contraffarla, la rozza e maschia sua voce. «Che bella notte!» ripeteva accentuando più il tono; e l’altra, zitta, stizzita e burbera, quantunque di notte non fosse facile discernerla, era decisa di non rispondere.
Un periodo di silenzio seguì l’interrogazione od allusione di Talarico, ed il brigante, che non era poi uno stupido, capì che si doveva toccar altra corda per udir la desiata favella e far cessare il silenzio della bella sua preda.
Ed ecco come vi riescì:
«I Mille» egli disse «entrarono in Reggio la notte scorsa e pare che niente possa resistere a questi rossi demonii.
«I Mille in Reggio!» esclamò Lina obliando aver essa risoluto di non rispondere al suo predone.
«Sì! in Reggio! ed essi entreranno in Napoli un giorno o l’altro, giacché i vigliacchi e panciuti generali di Francesco altro non sanno che far la guerra ai quattrini della nazione ed altro Dio non adorano che il ventre.»
Lina rimase un po’ stupita da questa foggia di discorso, ed essa avrebbe diffidato del comandante della Sirena se questi non si fosse spiegato con un accento d’ira e di disprezzo che dava garanzia della veracità delle sue parole.
Un momento di silenzio seguì l’ultimo discorso di Talarico, e vedendo che la fanciulla non rispondeva, egli ricominciò con più fervore di prima.
«Italiano lo sono anch’io, per la Madonna! e tengo primo fra gli onori quello del mio paese. — Poi, è da molto tempo che in cuor mio» e si pose la mano al cuore «io sono con codesti prodi propugnatori del patrio decoro. — Da molto tempo pure io disprezzo questi mercenari servi, vili strumenti di chi li paga, che coi preti hanno ridotti i nostri popoli ad essere il ludibrio dello straniero.
Ogni nazione è padrona in casa propria, e perchè in Italia cotesti padroni — Austriaci da una parte, Francesi dall’altra, che pare se l’abbiano comprata? — Le frutta deliziose delle nostre terre e la bellezza delle nostre donne allettano quei signori. Ebbene, noi darem loro del ferro nel cuore in cambio. — Voi la vedete, signora, quella massa oscura che comparisce a tramontana da noi: ebbene quella è una nave da guerra d’alto bordo del Bonaparte1 venuta nello stretto per dar leggi a tutti.»
Gli occhi del Principe della Montagna sfavillavano nell’oscurità della notte come quelli del tigre che si è accorto dell’insidie del cacciatore, ed egli movea quel suo elastico corpo come se, insofferente di trovarsi rinchiuso in quella scorza di navicella, volesse precipitarsi nel mare.
E quanti ve ne sono dì questi forti figli della patria nostra che potendo essere validissimi in una guerra contro lo straniero sono invece pericolosissimi a noi perchè suscitati all’odio del libero reggimento da quella bella roba che si dicono ministri di Dio!
Coll’infuocato discorso di Talarico, sparirono le diffidenze di Lina, ed all’acuto suo spirito, balenarono subito vari sentimenti; quello dell’acquisto alla parte nostra del valido appoggio di tal uomo straordinario, quello di penetrare negli arcani di un evento di cui essa era stata vittima, e più di tutto, il potere aver contezza dell’amata sua Marzia.
La naturale curiosità donnesca la stimolava poi immensamente, già placata com’era dalla notizia che i suoi Mille eran padroni di Reggio e che presto sarebbe essa redenta all’amore de’ suoi cari.
«E voi che vi millantate Italiano ed apprezzatore delle gesta dei Mille, in cui tutto dev’essere generoso e decoroso per la patria italiana, perchè v’incaricate di molestar la pace di due fanciulle che non vi offesero e che appartengono a quella nobile schiera?
«Io lo ammenderò questo mio fallo» rispose il brigante, e dopo un momento di meditazione:
«Sì, lo ammenderò! ed uno ben maggiore di questo io devo ammendare!2»
Queste ultime parole furono articolate con voce sommessa, ma con un accento quasi di disperazione.
Poi energicamente soggiunse:
«Me le perdonate le ingiurie da me ricevute ed i danni, nobile donzella? Vedete, io abbisogno del vostro perdono come dell’aria che respiro. E se mi perdonate, questa miserabil vita che mi è divenuta insopportabile, ve la consacrerò tutta intiera! Non come un amante, io ben so che il vostro cuore ha scelto, ma come uno schiavo. — Io mi contenterò di baciar le zolle da voi calpestate, di seguirvi nelle pugne da voi combattute. — E certo voi mi vedrete dar l’ultimo respiro sorridendo, s’io sarò così fortunato di poter dare per voi questa sciagurata esistenza! Ma non mi negate di seguirvi, e sopratutto non mi negate di farmi ammettere sconosciuto nelle fila di quei generosi vostri fratelli d’armi, gloria ed onore d’Italia!»
Dopo un momento di truce posa, egli ripigliò:
«Sconosciuto, sì, sconosciuto, m’intendete, poiché come Talarico, né i vostri amici potrebbero accogliermi, né il mondo compatirebbe un nome infame in quella eroica schiera. Ma io la laverò quell’infamia nel sangue dei nemici della libertà italiana! Laverò quei vent’anni d’una vita di delitti e di vergogne in cui mi aggiogarono i malvagi sostenitori dell’altare e del trono, ossia della menzogna e della tirannide!
«Ove trovasi Marzia?» chiese Lina non più decisa al silenzio, ma disposta ancora al risentimento dagli anteriori procedimenti di Talarico.
«Marzia è in Roma a quest’ora» fu la risposta del Calabrese. «Il più agile dei piroscafi borbonici l’imbarcò la notte scorsa per tal destino.»
Intanto la Sirena solcava l’onda cristallina dello stretto, ed un flebile raggio della luna spuntante dalla frondosa cervice dell’Aspromonte, illuminava l’orientale meraviglia di quelle sponde incantate. — Reggio, che sortendo dall’onde e frammischiando l’aroma delle sue foreste d’aranci a quello della sorella Messene, involve il navigante in un’ebbrezza di gaudio e d’ammirazione della natura tanto benevole e prodiga a quelle bellissime contrade, sì travagliate in compenso da pessimi governi!
«Non temete voi d’incontrare gente dell’esercito meridionale in Reggio?» disse Lina a Talarico.
Un momento di silenzio e di meditazione seguì le parole della fanciulla.
«Io più nulla temo su questa terra!» rispose l’altero crollando il maestoso e terribile capo. «Nulla! nulla! E voi dunque non mi accettate come servo e come schiavo?»
Vi era tanta eloquenza nelle rozze e superbe parole del brigante! Egli le avea pronunziate con tale accento di disperazione, che la bella figlia di Bergamo ne fu commossa, e quasi senza avvedersene abbandonò la mano a Talarico che la bagnò di baci e d’un torrente di lagrime di gratitudine.
«Grazie, grazie» furono i soli accenti che singhiozzando potè articolare quel protervo bandito, una volta terrore delle calabre contrade ed oggi divenuto più mansueto di un agnello. — Tale è la potenza della donna sul sesso nostro per indurito e depravato che sia.
E quell’uomo, quel brigante che in causa di un’educazione pervertita era stato prima d’ora capace d’ogni atroce delitto, trovavasi in oggi trasformato in altro, capace d’innalzarsi all’eroismo sotto il magnetismo di semplice donzella.
Vi era dunque, come in tutti gli altri esseri della stessa famiglia, una parte buona in Talarico che, coltivata da un uomo che non fosse un prete, poteva dare un cittadino onesto od un milite capace di onorare l’Italia.
Ritornato in sè, e quasi vergognato dal suo pianto, aggiunse:
«Comunque, io voglio seguire la buona o la cattiva fortuna dei coraggiosi che tanto innalzarono la riputazione guerriera del nostro, pria, disprezzato popolo.»
I compagni di Talarico, a lui devotissimi, si aggregarono pure alle liberali milizie, e l’Italia acquistò cinque campioni, che ne valevan ben dieci per valore e massime per la loro pratica del continente meridionale della penisola.