I Marmi/Parte prima/Ragionamento sesto/Ciano, Pandolfino e Lorenzo Scala
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Ciano, Pandolfino e Lorenzo Scala.
Ciano. Voi potete vedere dove io mi fidava! In effetto gli amici son pochi, i buoni. Io credeva ch’avendolo mandato a tôrre di fuori con dieci scudi della mia borsa... e poi di dove io l’aveva cavato? D’un luogo dove egli era stato svergognato e che poco vi mancava che vi sarebbe morto di fame. L’ebbi poi amalato, che lo feci guarire, con tanto mio scomodo che la signoria vostra si sarebbe stupita. Ciò che io ho mai avuto tutto è stato i due terzi suo: egli faceva di me ciò che voleva; e ogni volta che l’uomo fa tutto quello che egli può, non è tenuto a far piú.
Pandolfino. Siími credo io.
Ciano. E poi, che mi sia stato traditore, am? È egli un uomo da bene? Ignorante, gaglioffo, figliuol d’un notaiuzzo ben balbuziente e da poco. Io son brutto di persona, ma egli è sozzo di vita e sporchissimo d’anima.
Pandolfino. Non ti fidar mai piú di nessuno, il mio Ciano da bene, ché non è ingannato se non i buoni e non sono ingannati se non da’ tristi; e ti voglio allegare un galante uomo che diede un bravo ricordo a un altro circa il fidarsi e al suo vivere al mondo.
Ciano. Io ascolterò volentieri, intanto che io aspetto l’ora del sonno; come la viene, non tarderei un iota che io non me n’andassi a casa.
Pandolfino. Lucio Seneca fu quel gran mirabile spirito che si sa. Fu una volta menato a Roma da un certo Emilio, suo amico, a vedere una sua casa, che egli nuovamente aveva fabricata, e, quando vi fu dentro, si cominciò in terreno a dire: — Queste camere son buone per una venuta all’improvista di gentiluomini forestieri, questa loggia acciò che possin fare esercizio, questo giardino per ispasso delle donne. —
Lorenzo. Credo che per certo augurio vi menassino la prima volta grand’uomini.
Ciano. Come io ho finita la mia, vo’ menarci dentro il primo uomo di Firenze, se la cosa vale a’ nostri tempi.
Pandolfino. Poco allora cred’io valeva e or manco. Poi lo fece salir le scale e gli mostrò la sala, dicendo: — Qua si può convitare tutto un parentado; le donne possano passeggiarci; questa è la camera della mia donna, queste son de’ miei figliuoli, delle donzelle l’altra; qua si fará la dispensa, in questa si cucinerá e nell’altra di qua dormiranno le serve e di sopra le schiave e di sotto i famigli. — Poi, saliti piú alto, gli fece vedere il luogo della munizione e infinite stanze dispensate per i bisogni d’una famiglia. Quando Seneca ebbe ogni cosa veduto e che Emilio aspettava che egli gne ne lodasse, stette cosí sopra di sé, dicendogli: — Tu m’hai condotto fuori di palazzo per mostrarmi la tua casa: dove è ella? — Oimè! — rispose Emilio — non ve l’ho io mostrata tutta? — Io per me non so che casa si sia la tua: tu cominciasti di sotto a dire: «Queste camere son de’ tali, queste de’ quali»; e cosí per insino in cima ho udito dire d’ogn’altro esser la casa che tua; tu non ci hai pur fatta, se l’è tua la casa, una camera per te medesimo. Or piglia questi tre ricordi e consigli, per la prima volta che io son venuto in casa tua: il primo ricordo fia che mai, o sia la moglie o sia amico di qual sorte si voglia, fidi tutti i tuoi secreti, anzi, quei che sono d’importanza, gli tenghi sempre in cuore. —
Lorenzo. Dico che gli doveva dire che, da quello che non si può far di manco in fuori, l’uomo non doverebbe mai dir cosa nessuna de’ fatti suoi: a me n’è incolto parecchi volte male, perché egli è cosa certa che se uno non sa tenére secreto una cosa sua, manco un altro si potrá tenére. Seguitate.
Pandolfino. — Perché Platone disse: «Chi confida un suo secreto, mette la sua libertá in mano d’un altro». Il secondo consiglio sará che tu non ti occupi tanto nelle faccende particolari o universali che tu non ti riserbi almanco tre ore, fra giorno e notte, di poter pensare alla tua persona solamente e alla tuo vita. —
Ciano. Per la fede mia, che questi ricordi gli vo’ scrivere in bottega, acciò che tutto il mondo gli impari che vi capita; ché buon per la nostra cittá, se ciascuno pensasse qualche volta a’ casi suoi!
Pandolfino. Sí, perché sarebbe forza che si conoscessino di donde e’ vengano, quel che fanno in questo mondo e che fine ha da essere il loro; perché, avendo a lègger sul suo libro, potrebbe scontrare le partite degli altri; e se volesse dire: «Il tale è ignorante; e io — direbbe egli — che so? Colui è figliolo d’un plebeo; e io perché voglio alzarmi e ingrandirmi, che son da manco, volendo abbassar lui?» «Quello tiene una femina, e tu, che sei nimico delle donne, che di’?» — direbbe l’altra partita. Sí che Seneca gli dava mirabili amaestramenti. Il terzo fu che ciascuno doverebbe avere una stanza nella quale mai alcuno vi entrasse dentro, salvo che lui, come fa il gran padrone della scultura, e in quella avere i suoi libri, scritti e altre cose a suo modo: quella fosse il suo secretario, il ripostilio de’ suoi pensieri; e vagliar bene bene le faccende che debbe fare e risolversi dieci volte lá dentro, inanzi che fuori se ne risolvesse una.
Ciano. Santi amaestramenti, veramente; ma dove tirate voi la cosa?
Pandolfino. Se tu avessi avuti questi ricordi inanzi, non saresti caduto nell’errore che caduto sei, di fidarti di dire i tuoi secreti, d’allevarti la serpe in seno, come si dice, di favorire furfanti, dappochi, ignoranti; non aresti gettato via il pane che dato gli hai e speso il tempo alla mal’ora dietro a un infame svergognato, vituperoso e scellerato, come tu di’; perché sarebbe stato forza, avendo riserratoti in te stesso, in luogo secreto, ed esaminato le tue faccende, che tu non avessi conosciuto in pochi giorni i ribaldi, nimici di Dio e de’ buoni costumi.
Lorenzo. Quegli antichi eran pure i mirabili uomini! Vedete che bei modi da insegnare vivere alle persone! Ci son ben molti che sanno, ma non hanno poi modi d’amaestrare.
Pandolfino. In questo caso credo che un uomo senza eloquenza sia una statua. Pittagora voleva che chi era muto andasse nelle montagne fra le bestie ad abitare. La lingua sí muove dal concetto dell’anima, e chi non tien lingua non tiene anima; e chi non ha anima è come una bestia; però le bestie si caccino alla montagna. Brutta cosa è adunque l’esser mutolo, bruttissima il favellar male; bella il parlare comunemente, bellissima e senza comparazione è parlare da filosofo eloquente. Io per me ascolterei piú volentieri un papagallo che uno ignorante che non sapesse parlare. Un certo re Erode, nimico d’Ottaviano, essendo vinto da Ottaviano, andò da lui, e, posatagli la corona ai piedi, fece un’orazione con tanta eloquenza che non solamente Ottaviano gli perdonò, ma lo rimesse nel regno. Or vedete le poche belle e buone parole quanti infiniti fatti l’acconciarono.
Lorenzo. Insomma, l’eloquenza è la briglia degli uomini, la catena e la spada. Io mi ricordo aver letto nelle istorie di Roma trionfante che Pirro, re de’ piroti, era molto dolce nel parlare e nel risponder molto savio.
Pandolfino. Egli è vero; anzi, piú che la sua eloquenza, per fama, non essendo gli uomini presenti, solo per sentir riferire le cose sue, gli uomini lo difendevano da ogni calunnia, e, alla sua presenza, mettevano per lui la roba, la vita e lo stato. Non vedete voi che i romani ordinarono a’ loro imbasciadori che non dovessin mai negoziar con il re Pirro se non per terza persona, dubitando della sua tanta eloquenza?
Ciano. Oh bella cosa è l’abaco!
Pandolfino. Perché gli imbasciadori quando tornavano a Roma, che seco avevano parlato, diventavano suoi avocati, parziali e procuratori. Marco Tullio gli sarebbe giovato poco alla sua fama d’esser stato stimato ricco, senatore, consolo nell’imperio, eccellente in guerra; tutto si convertiva in nulla, se non era eloquente; e per l’eloquenza è stimato Tullio.
Lorenzo. Il Sabellico, s’io ho memoria, scrive d’un gran filosofo della cittá di Cartagine, chiamato Afronio, che, essendogli dimandato quel che sapeva, rispose: — Parlar bene. — Un altro volle sapere ciò che egli studiava: — Di imparar bene a favellare — disse. E, ultimamente, gli disse un altro ciò che egli andava insegnando. — Ben parlare — rispose súbito. Queste cose le diceva che egli aveva ottanta anni.
Pandolfino. Fra le cose umane pare a me che ’l bello e buon parlare sia la piú eccellente. Platone, nel libro delle sue Leggi, afferma non esser cosa che manifesti meglio ciò che vale un uomo che ’l parlare.
Ciano. «Danari, santo padre!» — disse il buffone: eloquenza in lá. Oggi non è tempo di dar parole: i libri le mangiano e non gli uomini. Andate a cicalare intorno a uno avaro con parole, vedrete se voi ne caverete mai nulla! fregatevi intorno alle nostre cortigiane con l’eloquenza e aspettate la grazia, sí, per dio! andatevi con gli scudi e siate mutolo, vedrete se sarete inteso come eloquentissimo! fate d’avere gran somma di tesoro, che sí che voi ottenete quello con esso che mille Pirri e dieci mila Tullii non otterrebbe!
Lorenzo. Perché gli uomini sono tutti impastati d’avarizia e d’ignoranza e non di virtú e di nobiltá. Che sí che dai gentili e virtuosi principi e da’ mirabili gentiluomini ancóra voi riceverete da loro ciò che volete con eloquenza e con dottrina! Ché tutto l’oro del mondo, per altra via, non gli farebbe muovere i pensier loro.
Ciano. Voi potresti fare una scelta, che io starei cheto.
Pandolfino. L’eloquenza è sempre stata la principessa delle virtú, come favella un eloquente dotto; mai ti viene a noia. Sia che musica si vuole, con poche ore la ti sazia; balli, malissimo; maschere, male e peggio; ma un oratore mirabile, quando egli finisce, tu te ne duoli e dispiaceri che egli si tosto abbi finito. I libri sono frategli carnali di questa nobiltá: quando sono pieni d’un bel numero dolce di dire, d’un’eloquenza suave e d’una dotta materia e mirabile, l’uomo non se gli sa tuôr di mano. L’eloquenza con una mano o, per dir meglio, gli uomini eloquenti porgano i lor libri e dall’altra ricevano le catene d’oro. Onde, per far pari la nostra lite con Ciano, diremo, per fargli piacere, che un uomo eloquente ha quanto tesoro egli vuole. E se tal volta voi vedete degli eloquenti che non n’hanno, è perché non lo vogliono avere. Ci sono assai che sarebbono eloquentissimi con la lingua, ma la fortuna gli ha privati di ricchezza, che non hanno potuto attendere agli studi; altri che hanno atteso agli studi e con la penna sono eloquentissimi, e con la lingua nulla possono esprimere, perché cosí ha voluto la natura.
Ciano. Io vorrei sentire una volta una donna che fusse eloquente, che facesse l’orazioni nei consigli e nell’academie leggesse e disputasse ne’ circoli; allora direi io bene che il mondo andasse a rovescio.
Lorenzo. Lelia Sabina non solamente aveva buona grazia nel lèggere, ma miglior eleganzia nello scrivere; e dicono gli scrittori antichi che la faceva molte orazioni e le scriveva di propria mano. Onde Silla, suo padre, se ne serviva poi nelle sue dicerie nel senato e dove gli accadeva ragionare.
Ciano. Almanco ce ne fosse egli oggi qualche centinaio di coteste Lelie!
Pandolfino. S’io ho memoria del nome, egli scrive Iarco, istoriografo greco, che furon due donne greche, una detta Assiotea e l’altra Lasterma, molto dottissime, famose assai fra i discepoli di Platone. Una di queste era di sí alta memoria e l’altra di sí profondo intelletto che se Platone non le vedeva a udire la sua lezione, diceva che in vano, quasi, spargeva la sapienza delle sue parole. Aristippo filosofo, che fu di Socrate discepolo, ebbe una figliuola chiamata Areta, che tanto fu intelligente nelle lettere grece e nelle latine mirabile che si levò una fama che l’anima di Socrate gli era entrata adosso; e non lo dicevano per altro che per veder questa donna leggeva e dichiarava cosí ben le cose di Socrate che pareva piú tosto che lei l’avesse composte che imparate. Il nostro Giovan Boccaccio scrive che la compose molti libri: Della infelicitá delle donne. Della tirannia, Della republica di Socrate, Dell’agricoltura degli antichi, Delle maraviglie del monte Olimpo, Della providenza delle formiche e Del vano ordine delle sepolture.
Ciano. L’avrebbe che scrivere assai di questi nostri depositi, casse, cassoni, truogoli, arche, avelli e altri fantastichi aggiramenti che fanno i vivi e ordinano per la morte! Chi vuole stare in aere, chi a mezzo, un altro nel muro, uno in terra, l’altro in cima de’ campanili: oh che pazze cose si fa egli! Io che son gobbo, mi vo’ far sotterrare a sedere, per istar piú agiato; perché l’avere a star tanto su le reni mi potrebbe generare qualche male grande, che io non ne leverei mai piú capo. Cotesta femina aveva un grande intelletto, se la faceva tanti libri.
Pandolfino. La ne fece degli altri assai: Della vanitá della gioventú, e un altro Della calamitá della vecchiezza. Pensa, Ciano, se l’era dotta! ché ella leggé filosofia naturale e morale nell’Academia d’Atene piú di trentacinque anni e compose forse da trenta otto o quaranta volumi ed ebbe per discepoli cento e dieci filosofi; poi si morí d’etá di settantasette anni.
Ciano. Oh che gran peccato che morisse una sí fatta femina! Ordinò ella il suo pitaffio galante o la sua cassa coperta di velluto, con bullette indorate, arme e altre cose da farsi guardare: «Ve’ lá; ve’ colá su; quella fu; quella fece»?
Pandolfino. La zucca! La virtú fa dir «véllo lá, eccolo qui» e non i velluti; i libri stanno in piedi, e vivono, non le casse e i depositi. Gli Ateniesi gli fecero bene sepoltura onorata e scrissero sopra alcune lettere, se la memoria mi servirá a dirle.
Ciano. Sí bene; se voi dite di queste, e’ non mi verrá mai sonno stanotte.
Pandolfino. «La gran greca Areta diace qua dentro, che fu il lume della Grecia: fu bella quanto Elena e onesta al par di Tirma; negli scritti suoi oprò sí ben la penna come Aristippo, nella dottrina paragonò Socrate e la lingua ebbe equale a Omero».
Ciano. Son troppo rare cose, e ci sarebbe sei persone a questi Marmi che non ne crederebbono i due terzi.
Lorenzo. Io ho un libro antico a casa, parente, all’altezza, a quegli dello Stradino, dove il Modogneto ha cavato tutte le sue composizioni e quel modo del dire contrapesato; e lo compose una donna chiamata Teoclea, sorella di Pittagora; e qui ho a canto una lettera che egli gli scrive, fra l’altre, quando la gli mandò un suo libro composto Della fortuna buona e cattiva; e credo che ’l Petrarca lo vedesse anch’egli.
Ciano. Costoro che compongono oggi, credo che molti di loro mettino le mani ora su questa cosa e ora su quest’altra de’ passati nostri antichi.
Lorenzo. Tu ce ne vedi assai de’ libri nuovi: non vedi tu che ciascuno rappezza, riforma o, per dir meglio, il piú delle volte spezza e rovina? Vedi pure come sta il povero Centonovelle; e se non fosse che egli n’è uno, scritto al tempo di Giovan Boccaccio per mano d’un cittadino della casata de’ Mannelli, copiato dall’originale dell’autore e dall’autore letto e acconcio di suo mano, in guardaroba del nostro illustrissimo duca, la cosa andrebbe male; perché di qui a pochi anni, per volerci dar di naso certi savi della villa tutto dí1, lo ridurrebbono in lingua italiana.
Ciano. Come, in lingua taliana? in che lingua è egli? tedesca?
Lorenzo. Anzi fiorentina.
Ciano. O perché dite voi che lo ridurrebbono, eccetera?
Lorenzo. Farebbonlo parlare, vo’ dir io, una parola orvietana, una pugliese, l’altra calavrese.
Ciano. Perché non dir bergamasca, lombarda, romagnuola e piamontese?
Lorenzo. Per non esser ancóra tanto inanzi.
Pandolfino. L’è gran cosa questa de’ forestieri, a volere acconciare l’opere d’altri, dico volere parere d’acconciarle, per mostrar di sapere, con postille greche, latine e azzuffare di dieci sorte testi, e sapere eleggere (darsi ad intendere) la migliore dizione, conoscere il piú bel numero e sentire il suono migliore di tanta varietá! Noi altri ci stiamo a man giunte e gli lasciamo fare senza ripararci.
Lorenzo. Chi diavol riparerebbe a cento sorte di stampature? Ché un correttore corregge in un modo e quell’altro a un altro, chi lieva, chi pone, certi scorticano e certi altri intaccano la pelle.
Pandolfino. Questi che rappezzano libri per acquistarsi vitupèro in cambio di buona fama, la maggior parte, e quasi tutti, non fanno mai nulla da loro; stanno sul tarare, su l’appuntare e sul dire.
Lorenzo. Io credo certo che il lor cervello abbi preso la mira tanto alto, di saper dire e fare, che non si contentino poi quando veggano gli scritti loro, se talvolta però hanno cominciato a voler fare opera alcuna; perciò che, nel rimirargli, la seconda volta riscrivono, alla terza trascrivano, alla quarta aggiungano, alla quinta lievano, alla sesta gli stanno peggio che la prima, alla settima se ne forbiscono: eccovi finita tutta la settimana de’ loro studi al Culiseo.
Ciano. Anzi credo piú tosto, messer Pandolfino padron mio, che, rimirando i loro secreti scritti, a paragone de’ publici stampati, che caschi lor le brache e, per l’albagia che eglino hanno nel capo, di credersi di saper dire e fare meglio, e’ vegghino e la rivegghino e la pilucchino un pezzo, poi all’ultimo e’ s’accorghino che gli stanno male a opinione.
Lorenzo. Odi, ancor questa non puzza!; però cercano di rovinarci tutti i buoni scrittori nostri con fargli variare i vocaboli, le dizioni, i numeri e lo scrivere, come fanno gli avocati, che, non potendo vincer la lite, allungano il tempo e l’avviluppano piú che possono. Ma alla fine si stamperá un Boccaccio a Firenze, da quello originale, e allora il mondo conoscerá che questi farfalloni che fanno il dotto si sono aggirati intorno al lume.
Ciano. Faccino delle lor sapienze in mal punto, e lascino stare le nostre gofferie.
Pandolfino. A me fanno eglino un gran piacere, quando mettano su’ lor libri tradotti in lingua volgare, a dire «tradotto in lingua italiana», perché ci darebbono un gran carico, se dicessero «in lingua toscana» o «fiorentina»; perché coloro che gli leggessero, crederebbono che qua a Fiorenza si parlassi cosí e scrivessi, onde noi staremmo male. Ma, dicendo «in lingua italiana», non dicano bugia e non fanno torto alla buona pronunzia; perché i lor dottissimi libri «tradotti», che non hanno pari al mondo (cosí si credono) son pieni di numeri strepitosi, di suoni rochi, di dizioni strane, di vocaboli non usitati, di detti mozzi, motti zoppi e clausule storpiate: adunque mi fanno gran piacere a dire «tradotti in lingua italiana».
Lorenzo. E’ bisogna che confessino questi saggi scrittori e sapienti litterati, la prima cosa, se sono fiorentini o toscani o no. — Non — diranno. — Voi non sapete adunque il suono naturale né avete la dolcezza del numero. — Oh — risponderanno — noi l’abbiamo imparata e studiata e con la sapienza nostra conosciamo qual dice meglio; e sappiamo certo di scriver molte cose noi, che siamo forestieri, meglio che voi che sète fiorentini. — Va di manco a questa posta! — Questa è buona ragione! — soggiungerei io — ma pur che la sia cosí. Donde avete voi avuto questo numero e questo buon suono? Dal Boccaccio, dal Petrarca e da Dante. Chi sono o furon costoro? Fiorentini. Quando voi favellerete, adunque, cicalerete per bocca di costoro, a voler dir bene; non saranno, adunque, quando scriverete bene, le vostre composizioni composte altrimente in lingua italiana, ma in fiorentina: onde, perché la cosa non sta al martello, voi vi ritirate con il dire «italiana»; e fate bene, per non ci caricare di tanti cattivi detti. Io ho quell’Andrea Calmo per un bravo intelletto, ché almanco egli ha scritto mirabilmente nella sua lingua e ha fatto onore a sé e alla patria. Perché s’ha da vergognare uno di favellare natio? è egli ladro per questo? Ruzzante m’è riuscito un Platone: ma, mettiamo che fosse stato un villano proprio, che avesse favellato nella sua lingua (ma egli fu un Tullio); l’avrei lodato similmente di questa professione. Ma chi non vuole o non sa scriver bene nella fiorentina fa bene a scriver bene nella sua, piú tosto che male in quella d’altri. Ma io ho speranza che la cosa s’andrá vagliando a poco a poco, tanto che si scerrá il loglio dal grano. Non bisogna dire: voi altri fiorentini dite «mana, rene» e altre baie da ridersene, perché noi attendiamo alla mercanzia; conciosia che ’l sito magro ci fa correre dietro a questa strada e non ci lascia scartabellare il Boccaccio e gli altri a tutto transito. Ecco che egli è venuto un tempo che ci si studia littere grece e latine; onde i nobili sanno che cosa è eloquenza, e i plebei, ho speranza, per tanti nostri scritti e lezioni che odono nell’academie, che lasceranno star di dir «mana» e «rene».
Pandolfino. Voi mi parete alle mani con questi scrittori; non vedete voi che voi favellate al vento? Qua non c’è se non fiorentini.
Lorenzo. Non è mai stato giá nessuno tanto ardito che egli abbi avuto animo di dire, nel titolo del suo libro, ancóra che sia toscano (e ci sono stati toscani scrittori eccellenti), dico, di dire «in lingua sanese», «in lingua pisana» o «in lingua lucchese», per non dire «da Prato» o «da Fiesole»; e i nostri corron pur questa preminenza di dire «in lingua fiorentina».
Ciano. Io ho sonno e non voglio piú ragioni, perché mi pare che tutti abachiate: favelli uno il peggio che sa, basta che sia inteso a’ suoi bisogni. Io ho pur letto una lettera del Boccaccio in lingua napolitana: se s’ha da scrivere in ogni cosa come il Boccaccio, si debbe ancóra scrivere qualche cosa in napolitano.
Lorenzo. Non entriamo in su le baie. Io vo’ lègger questa lettera che io ho tradotta di quel libro composto da Teoclea, la quale, come io v’ho detto, la scrive Pittagora a lei come sorella per la ricevuta di quel libro.
Pandolfino. Or leggete, via; e poi ce ne andremo.
Lorenzo. «Il libro che tu mi mandasti Della fortuna e infortunio io l’ho tutto letto da un capo all’altro. Ora conosco veramente, cara sorella, che tu non sei manco grave nel comporre che graziosa nell’insegnare; la qual grazia, data dal cielo a noi di terra, viene poche volte in noi uomini l’una e l’altra, talmente che l’è maraviglia, quando accade; in te adunque è maravigliosa. Aristippo fu piú profondo nello scrivere che nel parlare; Amenide nel parlar fu mirabilissimo, piú assai che nello scrivere; ma a te ogni cosa viene felicemente. Veramente le sentenze che tu poni paion di tutti i filosofi insieme e par che tu abbi veduto e letto tutte le cose passate; onde tu passi i termini di donna. Il natural di tal sesso è occupar la vista nel presente e scordarsi il passato e poco curarsi dell’avenire: io odo che tu vuoi scrivere, e che giá ti eserciti, la guerra della nostra patria; e in veritá non posso dire in questo caso altrimenti se non che tu hai preso una difficile impresa, conoscendo io che del tempo nostro sono i travagli da scrivere inestricabili e a pena gli potrei lègger in un libro, non che ricordarmegli nella memoria. Ora io credo che sia cosí come io m’imagino: che tu d’ogni gran difficultá ne uscirai a onore; però ti prego per gl’immortali dii che nello scriver le cose della patria tua tu scriva brevemente e puramente, non come si trova che hanno fatto altri, che talvolta ci mettano, per distendere il lor parlare, sogni e bugie; e accade spesso che uno istoriografo, per iscusar tale stato, republica o uomo, senza ragione, appassionandosi troppo per la patria, con ragione la istoria è tenuta a sospetto. — Come si potrá mai scriver questo senza parzialitá? — Odi, di grazia: nella passata battaglia quei di Rodi furon da noi vinti; niente di manco il vincitore si diede in preda al vinto: in questo caso non accade metterci sopra le stelle né abassare loro perché combattessero per la vendetta di ingiuria ricevuta. Io sono entrato in questo avvertimento, perché il solito della complession feminile nel difender le cose de’ suoi uomini è come un lione e gli uomini nel difender quelle delle femine son come galline. Che tu per questo non facessi qualche giudizio a modo della natura; perché allora mostrerai quanto vaglia il tuo sapere che rettamente scriverai le cose per ciascuna parte. Voglio ben che l’amor della patria possi una certa parte piú dell’altra; ma ancóra i paesi d’altri non sono da lasciar senza lode, perché, alla fine, chi va ricercando, in tutti i luoghi si può biasimar qualche cosa e lodarne molte, né fu mai nazione sí perfetta che non si potesse in qualche cosa tassare. Bilancia adunque, cara sorella, ogni cosa. Tu non puoi negare che, di tre frategli che noi siamo, io non sia il maggiore; e io confesso poi d’essere il minore de’ tuoi discepoli, e come discepolo son tenuto a ubidirti; e tu, perché io ti son fratel maggiore, debbi credermi. So che mi crederai (avendomi ancor creduto ne’ tuoi pochi anni) che le poche risolute parole sono mirabili e lo scriver la veritá è cosa perfetta conciosia che sempre l’hai osservato con quello intelletto buono che hai veduto; ché, si come il corpo poco vale senza l’anima, cosí la bocca dell’uomo val meno che sia senza veritá. Vivi felice».
Ciano. A queste serenate ci si potrebbe star piú d’un’ora piú del solito a udire: parvi che facciamo fine?
Pandolfino. Per istasera sia fatto come vi piace, o fine o non fine.