I Figli dell'Aria/33 - I giganti dell'Imalaia
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CAPITOLO XXXIII.
I giganti dell’Imalaia.
Mezz’ora dopo quel miracoloso salvataggio, gli aeronauti, seduti dinanzi a una succulenta colazione, raccontavano le loro avventure che per poco non finivano così tragicamente pel russo e pel cosacco, in causa di quel disgraziato sermone o meglio di quel mezzo fiasco di sam-sciù che aveva fatto girare il capo al predicatore.
Come abbiamo veduto, la predica era terminata malamente e Rokoff aveva dovuto scappare a precipizio, per non farsi lapidare o, peggio ancora, moschettare dai pellegrini. La paura aveva fatto snebbiare il cervello del cosacco, il quale aveva finalmente compreso quale grosso pericolo si era tirato addosso coi suoi asini pascolanti nelle praterie del nirvana di Budda e i suoi episodi della guerra russo-turca.
Suo primo pensiero era stato quello di abbandonare subito il monastero assieme a Fedoro, ma il tempo gli era mancato, perchè i monaci avevano invaso l’appartamento dei due falsi figli di Budda, rendendo impossibile qualsiasi evasione.
I due disgraziati, dopo una lotta disperata, erano stati atterrati, legati, e lì per lì condannati a essere divorati vivi dalle aquile e quindi condotti sull’alta montagna, dove avrebbero certamente lasciato la loro pelle, senza il provvidenziale arrivo dello Sparviero.
Il capitano aveva ascoltato quelle comiche avventure, ridendo a crepapelle. Perfino il muto personaggio non aveva saputo frenare più volte un sorriso.
— Povero signor Rokoff! — esclamò il comandante. — E tutto in causa di quel sermone.
— E un po’ del sam-sciù che avevo tracannato per farmi coraggio.
— Chissà quante ne avrete dette sul conto di quel povero Budda.
— Credo di averlo paragonato a un gran diavolo con venti o trenta corna. Se aveste visto che smorfie faceva il vecchio Bogdo-Lama e che occhiate furiose mi lanciava!
— Ne sono convinto. È stata una vera fortuna che quei buddisti abbiano pensato a farvi divorare dalle aquile. Potevano cacciarvi in una stanza oscura piena di scorpioni o farvi mangiare dai selvaggi di U.
— Allora sarebbe stata proprio finita per noi, — disse Fedoro.
— Lo credo, perchè non avrei potuto certo salvarvi o sarei giunto troppo tardi, — rispose il capitano.
— Ci avreste almeno vendicati, — disse Rokoff.
— Avevo già fatto preparare delle bombe ad aria liquida per far saltare il monastero.
— Se lo avessi saputo prima, le avrei gettate sui pellegrini, — disse Rokoff. — Perchè non dirmelo?
— Dovete averne schiacciati un bel numero con quella pesante cassa. Sono stati abbastanza puniti.
— Avessi almeno accoppato quel monaco barbuto! Capitano, io ne ho abbastanza anche del Tibet; andiamocene al più presto.
— Scendiamo al sud con una velocità di quaranta miglia all’ora. Guardate, anche il Tengri-Nor è scomparso e stiamo rasentando il Nigkorta.
— Non andremo a Lhassa? — chiese Fedoro.
— No, ho fretta di attraversare la grande catena dell’Imalaia e di calare nell’India.
— Attraversando il Nepal?
— È probabile, — rispose il capitano.
— E dove finiremo?
— Lo ignoro ancora. Tutto dipende da certe circostanze.
— Non andremo a Calcutta? — insistette Fedoro.
— Non desidero che mi si veda colà. —
Il capitano, che non amava, a quanto pareva, spiegarsi sui suoi futuri progetti, si era alzato da tavola accendendo una sigaretta e si era recato a prora dicendo:
— Guardate il Nigkorta: è stupendo. —
L’enorme montagna, una delle più alte del Tibet, giganteggiava verso l’est, capofila dell’immenso ammasso di picchi enormi che formava la catena del Nin-thang-la.
Al pari delle altre era tutta coperta di nevi, dalla base alla cima e appariva come un enorme pane di zucchero. Sui suoi fianchi, immensi ghiacciai scintillavano sotto i raggi del sole vomitando senza posa, nelle sottostanti vallate, blocchi colossali di ghiaccio che dovevano più tardi alimentare i fiumi che scendono in gran copia da quel colosso.
Lo Sparviero, costretto a mantenersi a un’altezza di tre mila metri, faticava non poco, in causa delle furiose correnti aeree che s’incrociavano in mille guise e che a ogni istante cambiavano direzione, nondimeno riusciva a percorrere le sue trentacinque o quaranta miglia all’ora.
Alla sera passava sopra Gang-Ischaka, una borgata di qualche importanza, mettendo in subbuglio la popolazione che in quel momento si trovava nelle vie a mungere gli jacks domestici; poi con una rapidissima volata andava a posarsi sulla cima d’una montagna situata trenta miglia più al sud, in un luogo che sembrava deserto.
L’indomani, ai primi albori, il capitano, che pareva avesse molta fretta di attraversare il Tibet, dava il segnale della partenza.
Cominciavano allora ad apparire delle pianure. La regione montuosa spariva a poco a poco per riprendere più tardi il suo impero al di là del Bramaputra, colla gigantesca catena dell’Imalaia.
Alle due del pomeriggio il capitano additava a Fedoro e a Rokoff un fiume larghissimo che scorreva dall’ovest all’est con larghi serpeggiamenti.
Era il Bramaputra, uno dei più celebri fiumi dell’Asia, perchè le sue acque, al pari di quelle del Gange, vengano ritenute per sacre.
Questo gigante fra i giganti, nasce nel Tibet occidentale, sui fianchi settentrionali dell’Imalaia. Si apre un varco attraverso l’infinito numero di montagne che ingombrano il paese dei Lama, poi con una immensa curva entra nell’India per la valle dell’Assan, raccogliendo sul suo corso oltre cinquanta fiumi tutti navigabili e va a scaricarsi in mare dopo duemila cinquecento e settanta chilometri di percorso.
È più lungo del Gange e ha una massa d’acqua assai maggiore, ma è meno sacro del primo per gl’indiani, quantunque sia chiamato il figlio di Brama.
Nel momento in cui lo Sparviero lo attraversava, numerosi battelli solcavano le acque del fiume, carichi di mercanzie. I battellieri, scorgendo quel mostro che sbatteva le sue immense ali, presi da una irrefrenabile paura, si erano precipitati in acqua, urlando come se fossero diventati pazzi.
— Noi spargiamo il terrore dappertutto, — disse Rokoff. — Vedremo se anche gl’indiani fuggiranno.
— Se ci vedranno, — disse il capitano.
— Viaggeremo di notte?
— Non amo che gl’inglesi mi scorgano.
— Non volete aver rapporti coi popoli civili? — chiese Rokoff, sorpreso.
— Per ora no.
— Eppure avete attraversato l’America.
— E chi mi ha veduto? — chiese il capitano. — Avete mai udito raccontare che una macchina volando sia stata osservata a New-York, o a Nuova Orleans, o a Buffalo, o a San Francisco di California?
— No, mai, signore.
— Eppure io sono passato su tutte quelle città.
— E perchè non volete che i popoli civili ammirino il vostro Sparviero?
— Per ora è un segreto che non vi posso svelare, signor Rokoff. Ah! Che cosa sono questi punti bianchi? Guardate questa strana nube che stiamo attraversando.
Lo Sparviero correva in quel momento sopra le montagne del Giang-tse, le quali s’alzavano in forma d’immensi scaglioni, spingendo le loro cime a tremila e novecento metri.
La gigantesca catena dell’Imalaia non era lontana, quantunque non si scorgessero ancora le vette di quei colossi che separano il Tibet dall’India.
Il passo era ancora popolato. Villaggi e borgatelli comparivano di quando in quando e anche numerose carovane di cammelli e di jacks si vedevano salire faticosamente le strette vallate dei monti.
Verso sera lo Sparviero si abbassava sulle rive del Tsono, un lago perduto quasi ai confini tibetani, rinchiuso fra montagne altissime. Il freddo era aumentato in causa della vicinanza degli immensi ghiacciai dell’Imalaia e soprattutto del gigantesco Dorkia, costringendo gli aeronauti a riprendere le loro vesti d’inverno e a riaccendere la stufa.
— Sarà domani che passeremo la grande catena? — chiese Rokoff al capitano, prima di ritirarsi nella sua cabina.
— A mezzodì passeremo presso il Dorkia, — rispose il comandante.
— E non andremo a vedere l’Everest?
— Lo scorgeremo egualmente, essendo visibile a distanza incredibile.
— Sicchè non andremo verso l’ovest?
— No, scenderemo in India attraverso il Butan. Buona notte, signor Rokoff, a domani. —
Erano appena le quattro del mattino, quando lo Sparviero riprendeva il volo per attraversare la grande catena che doveva condurlo in India. Già i primi contrafforti apparivano in forma di altipiani, i quali s’inalzavano rapidamente, costringendo gli aeronauti a portarsi sempre più in alto per non urtare contro quegli enormi ostacoli.
La vegetazione scompariva rapidamente. Non più foreste di pini e di abeti, non più praterie verdeggianti, dove pascolavano prima cavalli e mandrie di jacks e anche non più villaggi. Il deserto cominciava, ma un deserto di neve e di ghiaccio.
Fu verso il mezzodì, quando le brume che coprivano l’orizzonte si furono sciolte, che agli sguardi ansiosi e meravigliati degli aeronauti apparve l’imponente massa dell’Imalaia coronata di nevi e di ghiacci. I mostruosi colossi, fra i quali primeggiava il Dorkia, che spingeva la sua vetta a oltre sette mila metri, chiudevano tutto l’orizzonte meridionale, accavallandosi confusamente e mostrando vallate gigantesche, attraverso le quali si vedevano serpeggiare fiumi dal corso impetuoso. All’ovest, a una grande distanza, scintillava l’enorme Gaurinkar, o meglio l’Everest, il monte santo degl’Indiani, il più mostruoso picco del globo, il re delle montagne, perchè supera tutti toccando un’altezza di ben ottomila e ottocento sessanta metri.
La catena dell’Imalaia, che è la più vasta che esista sul nostro pianeta, e che in sanscrito significa luogo nevoso, perchè è sempre coperta di nevi anche durante l’estate, corre dal Bengala al Cascemir per uno spazio di 1.096.000 chilometri quadrati, limitata all’est dal Brahmaputra e all’ovest dall’Indo, i due più grandi fiumi della penisola indostana.
Ancora cent’anni or sono era pochissimo nota agli europei, in causa delle ostilità dei montanari e soprattutto delle tribù dei Gorka, le quali negavano ostinatamente il passo agli esploratori inglesi, come se temessero che i piedi degli uomini bianchi portassero sventura o scatenassero i nani nascosti nelle caverne di quelle enormi montagne.
Fu solamente nel 1809 e poi nel 1815 che gli ufficiali inglesi, approfittando della guerra che combattevano contro le tribù montanare del Bopal, poterono spingersi su per quelle immense vallate e quindi misurare una ad una le altezze delle montagne con strumenti così imperfetti, da non poter dare a essi la loro esatta dimensione.
Kirpatrik e Fraser, due distinti ufficiali, furono primi a tentare l’ascensione di quei colossi, seguiti poi dal capitano Webb e da Colebrosk. Il colonnello Waugh saliva in seguito l’Everest, poi Humbold il Fawahir, Gerard il Chipca-Pic ai confini della Tartaria cinese, poi Hodgson e il tenente Herbet visitavano la catena centrale, scoprendo nel 1821 la vera sorgente del maestoso Gange, il fiume sacro degli Indiani, situato a circa 4480 metri, vicino al Vanaro Fuga. Oggi tutta la catena è nota e tutti i monti sono stati esplorati e misurati scrupolosamente.
Questo enorme ammasso di montagne ha undici passaggi posti però ad altezze che variano fra i cinquemila e i seimila metri, ventisette picchi culminanti che toccano i seimilacinquecento metri fino ai settemilaseicentosettanta e un numero infinito di ghiacciai situati a un’altezza straordinaria, quasi quanto il Chimborazo, il colosso dell’America meridionale.
Tutti gl’Indiani hanno una grande venerazione per la catena dell’Imalaia, che per loro è d’origine santa e da migliaia e migliaia d’anni milioni di pellegrini si recano a visitare i templi sparsi su quelle giogaie. Anzi, secondo una loro tradizione, esisterebbe fra quei monti un lago sacro ove risiederebbe la dea Yamuna, che nessuno può vedere perchè verrebbe arrestato prima di giungervi.
— Che cosa ne dite di queste montagne? — chiese il capitano, mentre lo Sparviero, che aveva raggiunto un’altezza di cinquemila e cinquecento metri, imboccava un vallone che s’apriva da un fianco orientale del Dorkia.
— Mettono spavento, — disse Rokoff.
— Un panorama meraviglioso, unico al mondo, — rispose Fedoro. — Che cosa sono i nostri Urali in confronto a questa catena? Delle semplici colline, meno ancora, dei monticelli di terra.
— Farebbero una meschina figura anche le Alpi, che pure sono annoverate come una meraviglia dell’Europa, — disse il capitano. — Questi colossi vincono tutti.
— E animali se ne trovano qui? — chiese Rokoff.
— Qualche orso. Quando però avremo raggiunto la falda boscosa, che ha una estensione considerevole, non avrete a lamentarvi della selvaggina. Troveremo sciacalli, tigri, elefanti, rinoceronti e orsi in maggior numero.
— Spero che non lasceremo l’India senza aver almeno dato la caccia a qualche tigre, — disse Rokoff.
— Vi condurrò più tardi in un luogo ove ne troverete quante vorrete, — rispose il capitano. — Probabilmente sarà là che noi ci lasceremo.
— Per sempre? — chiesero a una voce Rokoff e Fedoro.
— Chi può saperlo? — rispose il capitano. — Può darsi che un giorno noi possiamo di nuovo vederci. Che cosa direste, per esempio, se io venissi a trovarvi a Odessa o fra le steppe del Don? Sbrigate certe faccende che non vi posso spiegare, tornerò libero e allora... guardate laggiù quella fortezza appollaiata come un’aquila, su quel dirupo. È Pharò, l’ultima del Tibet; laggiù ecco il Tabilung, un bel monte che separa questa regione dal piccolo Stato di Sikkim.
— Signori, stiamo per entrare nell’India: il Butan non è che a due passi. —
Lo Sparviero era uscito da quell’immenso vallone aperto fra la catena e ora volava su un caos di picchi e d’altipiani nevosi, mantenendosi sempre a un’altezza che variava fra i cinque e i seimila metri. Avanzava sempre faticosamente in causa dei venti che turbinavano su quei desolati altipiani con mille ruggiti e mille sibili, fra le gole spaventevoli che si aprivano in tutte le direzioni, veri baratri scavati dai fiumi di ghiaccio che scendevano dagli enormi ghiacciai della catena e dalle acque che si vedevano precipitare dovunque, in gigantesche cascate.
Alle quattro del pomeriggio anche la piccola fortezza veniva lasciata indietro, senza che il suo presidio si fosse accorto del passaggio del mostro volante e mezz’ora dopo gli aeronauti varcavano la frontiera tibetana, entrando nel Butan.
L’India s’apriva dinanzi a loro coi suoi fiumi giganti, le sue sterminate foreste, le sue jungle immense e le opulenti città.