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302 | capitolo trentatreesimo |
perchè i monaci avevano invaso l’appartamento dei due falsi figli di Budda, rendendo impossibile qualsiasi evasione.
I due disgraziati, dopo una lotta disperata, erano stati atterrati, legati, e lì per lì condannati a essere divorati vivi dalle aquile e quindi condotti sull’alta montagna, dove avrebbero certamente lasciato la loro pelle, senza il provvidenziale arrivo dello Sparviero.
Il capitano aveva ascoltato quelle comiche avventure, ridendo a crepapelle. Perfino il muto personaggio non aveva saputo frenare più volte un sorriso.
— Povero signor Rokoff! — esclamò il comandante. — E tutto in causa di quel sermone.
— E un po’ del sam-sciù che avevo tracannato per farmi coraggio.
— Chissà quante ne avrete dette sul conto di quel povero Budda.
— Credo di averlo paragonato a un gran diavolo con venti o trenta corna. Se aveste visto che smorfie faceva il vecchio Bogdo-Lama e che occhiate furiose mi lanciava!
— Ne sono convinto. È stata una vera fortuna che quei buddisti abbiano pensato a farvi divorare dalle aquile. Potevano cacciarvi in una stanza oscura piena di scorpioni o farvi mangiare dai selvaggi di U.
— Allora sarebbe stata proprio finita per noi, — disse Fedoro.
— Lo credo, perchè non avrei potuto certo salvarvi o sarei giunto troppo tardi, — rispose il capitano.
— Ci avreste almeno vendicati, — disse Rokoff.
— Avevo già fatto preparare delle bombe ad aria liquida per far saltare il monastero.
— Se lo avessi saputo prima, le avrei gettate sui pellegrini, — disse Rokoff. — Perchè non dirmelo?
— Dovete averne schiacciati un bel numero con quella pesante cassa. Sono stati abbastanza puniti.
— Avessi almeno accoppato quel monaco barbuto! Capitano, io ne ho abbastanza anche del Tibet; andiamocene al più presto.
— Scendiamo al sud con una velocità di quaranta miglia all’ora. Guardate, anche il Tengri-Nor è scomparso e stiamo rasentando il Nigkorta.
— Non andremo a Lhassa? — chiese Fedoro.
— No, ho fretta di attraversare la grande catena dell’Imalaia e di calare nell’India.