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i giganti dell’imalaia | 307 |
risiederebbe la dea Yamuna, che nessuno può vedere perchè verrebbe arrestato prima di giungervi.
— Che cosa ne dite di queste montagne? — chiese il capitano, mentre lo Sparviero, che aveva raggiunto un’altezza di cinquemila e cinquecento metri, imboccava un vallone che s’apriva da un fianco orientale del Dorkia.
— Mettono spavento, — disse Rokoff.
— Un panorama meraviglioso, unico al mondo, — rispose Fedoro. — Che cosa sono i nostri Urali in confronto a questa catena? Delle semplici colline, meno ancora, dei monticelli di terra.
— Farebbero una meschina figura anche le Alpi, che pure sono annoverate come una meraviglia dell’Europa, — disse il capitano. — Questi colossi vincono tutti.
— E animali se ne trovano qui? — chiese Rokoff.
— Qualche orso. Quando però avremo raggiunto la falda boscosa, che ha una estensione considerevole, non avrete a lamentarvi della selvaggina. Troveremo sciacalli, tigri, elefanti, rinoceronti e orsi in maggior numero.
— Spero che non lasceremo l’India senza aver almeno dato la caccia a qualche tigre, — disse Rokoff.
— Vi condurrò più tardi in un luogo ove ne troverete quante vorrete, — rispose il capitano. — Probabilmente sarà là che noi ci lasceremo.
— Per sempre? — chiesero a una voce Rokoff e Fedoro.
— Chi può saperlo? — rispose il capitano. — Può darsi che un giorno noi possiamo di nuovo vederci. Che cosa direste, per esempio, se io venissi a trovarvi a Odessa o fra le steppe del Don? Sbrigate certe faccende che non vi posso spiegare, tornerò libero e allora... guardate laggiù quella fortezza appollaiata come un’aquila, su quel dirupo. È Pharò, l’ultima del Tibet; laggiù ecco il Tabilung, un bel monte che separa questa regione dal piccolo Stato di Sikkim.
— Signori, stiamo per entrare nell’India: il Butan non è che a due passi. —
Lo Sparviero era uscito da quell’immenso vallone aperto fra la catena e ora volava su un caos di picchi e d’altipiani nevosi, mantenendosi sempre a un’altezza che variava fra i cinque e i seimila metri. Avanzava sempre faticosamente in causa dei venti che turbinavano su quei desolati altipiani con mille ruggiti e mille sibili, fra le gole spaventevoli che