I Figli dell'Aria/2 - Un banchetto cinese
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CAPITOLO II.
Un banchetto cinese.
Sing-Sing era il vero tipo del cinese, tipo che è così differente dal manciuro che appartiene alla razza dominante.
Era un uomo piuttosto tozzo, molto obeso, prerogativa dei ricchi cinesi molto invidiata dal popolo, colla faccia piatta e larga, cogli zigomi molto pronunciati, il mento corto e tondo, il naso un po’ depresso senza essere schiacciato, gli occhi un po’ obliqui colla sclerotica giallastra e molto sporgenti.
Due lunghi baffi, che cadevano inerti presso gli angoli della bocca assai larga, ruvidi e grossi, gli davano un aspetto strano e contrastavano vivamente col loro colore oscuro e colla tinta bruno-giallastra della pelle.
Al pari dei ricchi borghesi, indossava una larga casacca di seta fiorata, la kao-ka-tz, che scende fino alle ginocchia, aperta sul lato destro del petto e assicurata da una cintura dalla quale pendeva una borsa; calzoni pure larghi e corti, calze di seta e scarpe quadre con alta suola di feltro bianco.
Sul capo invece portava un cappello conico, adorno di una striscia di zibellino e d’un piccolo fiocco rosso.
Dopo d’aver inforcato un paio d’occhiali di quarzo, di dimensioni straordinarie, il cinese si avanzò verso Fedoro stendendogli la mano all’europea, senza però stringergliela.
— Vi aspettava, — gli disse — e sono ben lieto di rivedervi dopo una così lunga assenza e di avervi questa sera presso di me. Si dice che i miei compatriotti hanno paura degli uomini bianchi e la vostra venuta può forse salvarmi la vita.
— Che cosa dite, Sing-Sing? — chiese Fedoro stupito da quel linguaggio incomprensibile.
— La verità, — rispose il cinese, mentre un’ombra passava sulla sua fronte.
— Chi può minacciare voi, che tutta Pekino e le città costiere conoscono e stimano?
— Chi? —
Sing-Sing si era arrestato girando all’intorno uno sguardo atterrito.
— Il luogo non può essere sicuro per delle confidenze, signor Siknikoff — disse poi, mentre si tergeva con una mano alcune stille di freddo sudore. — Oggi è giorno di festa e la cena ci aspetta; a più tardi maggiori spiegazioni. Ditemi, però: avreste paura di dormire nella mia stanza?
— Io! — esclamò il russo.
Poi, indicando il cosacco:
— Ecco un uomo che è capace di accoppare un toro con un pugno e che se ne ride dei pericoli. Un amico devoto, affezionato, con muscoli di acciaio e che ha fatto delle belle campagne in Turchia. Ditemi quale pericolo vi minaccia.
— Gli amici che ho invitato per questa sera ci aspettano; l’etichetta m’impedisce di lasciarli soli, signor Siknikoff; andiamo quindi a cenare. Chissà, può essere l’ultimo banchetto per Sing-Sing. D’altronde, da parecchi anni la mia bara sta sotto il mio letto e se devo morire, tutto sarà pronto.
— Voi mi spaventate! Chi può minacciare la vostra vita? Chi sono questi nemici?
— Degli uomini potenti, capaci di far tremare anche l’imperatore. Basta, riparleremo di ciò più tardi — disse Sing-Sing. — Ci aspettano ed ho già annunciato ai miei amici la vostra visita. —
Fedoro ed il cosacco, quantunque assai preoccupati da quell’inattesa confidenza, seguirono subito il ricco negoziante di the, attraversando lunghi corridoi sulle cui finestre brillavano miriadi di lanterne di carta oliata e di talco.
Sing-Sing aprì una porta e introdusse il russo e il cosacco in una vasta sala, illuminata da quattro gigantesche lanterne con vetri di madreperla trasparente, occupata per la maggior parte da una tavola la quale si piegava sotto il peso di splendide porcellane.
Due dozzine di cinesi, persone distintissime di certo, a giudicare dalla ricchezza delle loro vesti, stavano seduti all’intorno, sorseggiando del vino bianco caldo in piccole tazze di porcellana azzurra filettate d’oro. Vi erano dei mandarini di secondo e di terzo grado, riconoscibili pei loro cappelli conici adorni d’un bottone di corallo o di zaffiro con penne di pavone; dei letterati panciuti, dei comandanti militari che portavano sul petto l’insegna d’una tigre; dei ricchi che avevano le unghie lunghe parecchi pollici per dimostrare che non avevano bisogno di lavorare.
Sing-Sing presentò ai suoi amici il russo ed il cosacco, poi se li fece sedere accanto, Fedoro a sinistra, posto d’onore, e Rokoff a destra.
Quasi subito i battenti d’una porta s’aprirono e una folla di servi entrò silenziosamente, portando immense zuppiere, piatti giganteschi, recipienti di ogni specie e salsiere di tutte le forme, deponendole sulla tavola, dinanzi ai convitati.
In Europa non si può avere una idea della ricchezza e della grandiosità dei banchetti cinesi, i quali devono certo superare perfino quelli di Lucullo. Quantunque non siano i celestiali forti mangiatori, in questi pranzi offerti nelle grandi occasioni, spendono somme enormi, perchè le portate non devono essere mai meno di trenta ed ognuna composta di tre piatti diversi!...
Ordinariamente uno è caldo, gli altri due sono freddi, ma questi non servono altro che per accordare ai convitati un po’ di riposo, non venendo quasi mai toccati. Il cinese non ama che i cibi appena levati dal fuoco e vi fa anche molto onore.
Le pietanze più strane, le più inverosimili e anche le più ributtanti, che un europeo non oserebbe nemmeno guardare senza provare un vero senso di nausea, si succedono.
Il riso è il primo piatto, che viene presto finito dai commensali, aiutandosi con dei bastoncini d’avorio lunghi venti centimetri, grossi quanto un aculeo d’istrice e che chiamansi Kwai-tsz, ossia agili ragazzi.
La seconda portata invece incomincia con una zuppa di pollo, con aggiunta di molto pepe, molto sale e aceto, poi si seguono vermi di terra in salamoia, cavallette fritte nel burro, ranocchi, prosciutti di cane, maccheroni, uova sode salate e stantìe, mantenute un anno nella calce, deliziosissime pei palati cinesi.
Poi pallottole di trifoglio, gamberi pestati, pinne di pescecane, piccoli pasticci di carne, lingue d’anitra in salsa bianca con aglio, zuccherini fritti in un olio puzzolente, oloturie in stufato, radici di zenzero, gemme di bambù sciroppate, e non mancano nemmeno i topi fritti, uno dei piatti più apprezzati dai celestiali.
Il vino nero manca totalmente, quantunque la Cina produca molta uva. Si bevono invece sciroppi d’ogni specie, liquori di ananas, d’arancio e d’altre frutta eccellenti.
I convitati, che dovevano prima aver subìto un lungo digiuno per far più onore alla tavola dell’anfitrione, avevano assalito vigorosamente le prime portate, onde mostrarsi persone bene educate e cercando di rimpinzarsi più che potevano.
Sing-Sing, d’altronde, era sempre lì per incoraggiarli. Ad ogni portata, rivolgeva a quello ed a questo dei convitati, che cominciavano a rallentare la foga, dicendogli con un amabile sorriso:
— Mio caro amico, voi non avete ancora mangiato nulla. Per caso trovate che la mia cucina non vi va?
— No, no — rispondeva l’interpellato, sbuffando. — Sono gonfio come un otre e la vostra cucina è assolutamente deliziosa.
E subito l’anfitrione di ripicco:
— So bene che la mia tavola non saprebbe darvi altro che dei cibi appena possibili, ma non ho di meglio. Fatevi coraggio e gli dei vi benediranno; non sdegnate dunque queste pessime vivande.
— I vostri cibi sono degni degli dei e quantunque io stia per iscoppiare, continuerò tuttavia a far onore al vostro pranzo.
Tutte frasi convenzionali, che si ripetevano su egual tono ad ogni portata, e che dovevano far sudare freddo ai poveri convitati, parecchi dei quali parevano sul punto di scoppiare davvero.
Chi faceva poco onore al pasto, senza però offendere Sing-Sing, erano i due europei. Il cosacco specialmente, non abituato a vedere in tavola nè topi, nè vermi, nè cavallette, quantunque il suo stomaco fosse d’una robustezza eccezionale, si era sentito più volte rivoltare gl’intestini e solo per non far dispiacere all’amico che lo teneva d’occhio, era rimasto al suo posto.
Brontolava incessantemente e faceva certe smorfie e certi occhiacci, da far scoppiare dalle risa Fedoro. Il povero diavolo sudava ben più copiosamente dei convitati cinesi, condannati a rimpinzarsi come oche di Strasburgo, per non mostrarsi maleducati.
Fortunatamente, fra una portata e l’altra, vi era un intervallo passabilmente lungo, durante il quale tutti potevano liberamente fumare. Dei giovani valletti, messi a disposizione dei convitati, erano pronti a offrire le pipe, già accese prima ancora che venissero richieste.
Sing-Sing ne dava l’esempio. Quando però fumava, Fedoro che lo osservava di frequente, lo vedeva immergersi come in dolorose meditazioni. Pareva che allora dimenticasse perfino i suoi convitati, non sorrideva più e rimaneva parecchi minuti silenzioso.
Fingeva di assaporare il delizioso e profumato tabacco che bruciava nella pipa; ma realmente un pensiero tetro lo tormentava perchè la sua fronte si annuvolava e nei suoi occhi si vedeva passare un lampo di terrore. Nondimeno, deposta la pipa, riacquistava prontamente il suo buon umore, sorrideva ai convitati e li incoraggiava incessantemente a far onore alla sua modesta cucina.
Dopo quindici portate, un gran telone che nascondeva l’estremità della sala fu alzato e agli sguardi stupiti del cosacco apparve un palcoscenico, riccamente decorato con baldacchini di seta e di raso, con giganteschi vasi di porcellana pieni di fiori e con panoplie d’armi scintillanti.
— Fedoro, che cosa avremo ora? — chiese al russo. — Non bastava il banchetto?
— Avremo una rappresentazione, — rispose Fedoro. — Un pranzo senza commedia sarebbe indegno d’un ricco cinese e non si esiterebbe ad accusarlo di spilorceria.
— È finito il banchetto?
— Siamo appena alla metà.
— Per le steppe del Don! — esclamò Rokoff, con ispavento. — Hanno il coraggio di mangiare ancora? Non vedete che sono tanto pieni da correre il pericolo di scoppiare? Hanno perfino gli occhi schizzanti dalle orbite!
— Troveranno modo di fare stare qualche cosa d’altro nel loro stomaco.
— E su quel teatro, che cosa rappresenteranno?
— Qualche dramma terribile, — rispose Fedoro. — Saranno artisti di vaglia, perchè un signore come Sing-Sing non può permettersi di presentare degli attori scadenti.
— Delle vere celebrità?
— Sì, Rokoff.
— Che io non potrò comprendere non avendo che una imperfetta conoscenza della loro lingua.
— Dalla loro mimica qualche cosa potrai indovinare.
— Un’altra portata!
— Non è che la sedicesima, — disse Fedoro. — Tutti piatti dolci.
— Sono mandorle quelle che nuotano in quello sciroppo giallastro?
— Non te lo dico, altrimenti scapperesti via.
— Se non sono fuggito finora! E poi, sono un cosacco e lo stomaco resisterà!
— Non dinanzi a quel piatto.
— Orsù, Fedoro, dimmi che cosa contiene.
— Un pasticcio che farà andare in estasi i convitati. Quelle bestioline color marrone che vedi...
— Bestioline.
— Larve, se ti piace meglio.
— Ah!... Quali!... Indovino! — esclamò il cosacco inorridendo.
— Larve di bachi da seta macerate nello sciroppo.
— Basta, Fedoro! Per le steppe... scappo via!
— Bada! Non mostrarti maleducato.
— È troppo!...
— Volgi altrove gli occhi. Ecco il primo attore che si mostra. —
Fra una miriade di lanterne microscopiche, danzanti su alcuni fili, era comparso un antico armigero in costume ricchissimo, cremisi ed oro, formidabilmente armato, con un cimiero scintillante che voleva rappresentare una testa di leone.
Era Hong-ko, l’eroe della cavalleria cinese, una specie di cavaliere errante del medio evo e che si preparava a vincere imperatori e mandarini, a trucidare spiriti maligni, ed a mettere lo scompiglio dappertutto.
Lo seguivano altri armigeri e paggi vestiti da imperatrici e da regine, tutti abbigliati sfarzosamente, acclamanti il formidabile guerriero.
I convitati si erano appena degnati di gettare uno sguardo sugli attori, i quali avevano cominciato a declamare ed a battagliare fra di loro a gran colpi di spade e di lancie. Quantunque pieni come otri, avevano ripreso lena per far onore alle larve dei bachi da seta, uno dei più deliziosi piatti dolci dell’infernale cucina cinese.
— Comprendi qualche cosa? — chiese Fedoro a Rokoff, il quale pareva interamente assorto a seguire le diverse fasi della commedia o del dramma che fosse.
— Sì, che si bastonano maledettamente, — rispose il cosacco. — Mi pare che a quest’ora siano stati uccisi cinque o sei imperatori malvagi e non so quanti spiriti maligni. Un terribile uomo quell’armigero. E le portate, continuano?
— Siamo quasi alla fine. Fra poco berremo il the.
— Che cosa stanno mangiando ora? Dei serpenti fritti?
— No, mi pare che siano dei ventrigli di passero con occhi di montone all’aglio.
— Quando avranno finito me lo dirai, — disse il cosacco. — Non oso più guardare la tavola.
— Hai torto, perchè hanno portato ora un nuovo piatto, che tutti gli europei hanno dichiarato eccellente.
— Non mi fido.
— Si tratta d’una zuppa famosa.
— Dove c’entreranno per lo meno delle code di gatto?
— No, Rokoff: ecco la ricetta che io ho studiato sul Cuciniere cinese:
«Prendi quanti nidi di rondini salangane potrai, perchè di questa leccornia non ne offrirai mai abbastanza ai tuoi amici.
«Dopo aver tolte via le penne e le altre materie inutili, farai cuocere i nidi nell’acqua fino a che formino una massa gelatinosa.
«Versa il tutto su uova sode di piccione, aggiungi alcune fette di salsicciotto, le quali devono galleggiare sulla zuppa come piccole barchette sul mare.
«Gl’invitati saranno entusiasti del piatto squisito e faranno grandi elogi al padrone di casa e al suo cuoco».
— È passata la zuppa? — chiese il cosacco, senza voltarsi.
— L’hanno divorata.
— Buona digestione!
— Hai perduto una rara occasione per gustarla.
— Vi rinuncio volentieri, Fedoro. Hanno accoppato un altro spirito malvagio. Interessante questo dramma! Il palcoscenico è pieno di morti. Che ammazzino poi anche noi? Da questi cinesi ci si può aspettare qualunque sorpresa. Fortunatamente ho la mia rivoltella.
— Ecco il the.
— Finalmente! Mi rimetterò a posto gl’intestini già perfino troppo sconvolti.
Alcuni valletti erano entrati recando dei vassoi d’argento pieni di chicchere minuscole color del cielo dopo il crepuscolo, delle teiere colme d’acqua calda e dei vasi di porcellana colmi di the shang-kiang, ossia profumato, essendovi mescolate alle foglioline delle preziose piante, dei fiori d’arancio, dei mo-lè che sono specie di gelsomini, foglie di rosa e di gardenia torrefatte.
I cinesi non usano mescolarvi latte e per lo più lo bevono senza zucchero. Di rado ci mettono un pizzico di quello rosso.
Quell’ultima portata segnava la chiusura del banchetto, la quale coincideva anche colla fine della tragedia.
I convitati, dopo reiterati sforzi, si erano levati coi volti infiammati, gli occhi schizzanti dalle orbite, i ventri gonfi fino al punto di crepare per l’eccessivo mangiare. Qualcuno dovette essere portato dai servi, di peso fino alla sua lettiga.
Quando Sing vide uscire l’ultimo convitato, si volse verso i due russi, dicendo loro:
— Deve essere stato un vero tormento per voi, ma voi mi vorrete perdonare se io ho abusato della vostra pazienza. Gli europei non si trovano bene ai nostri pranzi, lo so.
— Ho assistito ad altri, — disse Fedoro — quindi potevo prendere parte anche al vostro. —
Sing-Sing rimase un momento silenzioso, girando gli sguardi intorno alla sala deserta e silenziosa, poi riprese:
— E chissà che domani questo luogo non risuoni invece di pianti e di grida. Strano contrasto, dopo tanta allegria!...
— Sing-Sing — disse Fedoro — perchè dite ciò? Spiegatevi una buona volta; quale pericolo vi minaccia?
— Siete armati? — chiese il cinese.
— Voi sapete che un europeo non osa percorrere di sera le vie di Pekino senza avere almeno una rivoltella.
— Venite nella mia stanza; là almeno saremo sicuri di non venire ascoltati da altri. Badate però: potreste esporvi anche voi al medesimo pericolo. —
Fedoro guardò Rokoff.
— Noi aver paura? — disse questi. — Ah! No, non sappiamo ancora che cosa sia. Andiamo, Fedoro; questa inaspettata avventura m’interessa assai. —