I Caratteri/I caratteri morali/La spilorceria

I caratteri morali - La spilorceria

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Teofrasto - I Caratteri (Antichità)
Traduzione dal greco di Goffredo Coppola (1945)
I caratteri morali - La spilorceria
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10.

LA SPILORCERIA

La spilorceria1 è un risparmio di spese2 oltre il convenevole, e lo spilorcio cotal uomo che nel mese va fino a casa3 a richiedere mezzo obolo, e se dà un convito conta quanti bicchieri ha bevuto ciascuno, e fa ad Artemide l’offerta più meschina di tutti i commensali. E per quanto si pensi di aver comprato a poco egli dice che tutto costa [p. 97 modifica]soverchiamente; e se il servo gli fracassa la pentola o la scodella, la sbatte dal suo salario. E se sua moglie smarrisce tre centesimi, egli è capace di mettere sottosopra le suppellettili, i letti e gli armadi e di frugar4 nelle coperte. E se vende un oggetto, lo vende a tanto che non torna utile al compratore; e non lascia assaggiare i fichi del suo orto, né che si attraversi il suo fondo né che si raccolga un fico o un dattero di quelli che son caduti a terra5; e ne ispeziona i confini tutti i giorni se sono sempre gli stessi. È capace perfino di riscuotere la mòra di un giorno e l’interesse dell’interesse; e quando convita quelli del rione imbandisce carni che ha tagliato a pezzettini6, e se va a far la spesa ritorna a casa senz’aver comprato nulla. E proibisce alla moglie di non dare in prestito né sale né lucignolo, né comino7 né origano, né bende, né farro né chicchi d’orzo (o roba da sacrifizi)8, ma dice che in capo all’anno queste minuzie fanno il molto. E insomma, degli spilorci è possibile vedere tarlati anche gli scrigni del danaro, e le chiavi arrugginite9; ed essi poi portar vestiti più corti delle gambe10, ungersi da ampolline piccole piccole, e andar rasati fino alla pelle11. E sul mezzo del giorno levarsi le scarpe12; e scongiurare i tintori13 che il loro vestito lo puliscano con di molta terra, affinché poi non si insudici subito.

Letteralmente μικρολόγος significa «colui che calcola le piccole cose», e che però tiene conto d’ogni minuzia, che rabbatte e detrae il quattrino di dove lo può dibattere, ed è duro a spendere. In italiano potremmo chiamarlo anche «rabbattino», o anche avari «stillino», o anche e «tirchio», che son sinonimi, e che, senza essere avari spaccati, ci tirano però, e son tenaci e stretti e meschini. In latino: deparcus, tenax, sordidus, strictus, aridus.

Leggesi in Aristotele un passo dal quale resulta che τὸ διάφορον = sumptus.

L’edizione del Diels ha con i più recenti codici ἐπὶ τῆν οἰκίαν, e traduco di conseguenza. Ma mi piace ricordare l’ingegnosa congettura di Unger ἐπιτοκίαν che sarebbe «d’interesse», cioè a dire che lo [p. 98 modifica]spilorcio va a chiedere perfino mezzo obolo d’interesse. Credo però che ἐπὶ τὴν οἰκίαν non soltanto indichi che lo spilorcio recasi in casa del debitore ma che ci vada per riscuotere la mesata di pigione, cosí come «nel mese» allude al fatto che ci va a mese non scaduto ma durante il mese prima della scadenza.

Il greco ha διφᾶν, e a qualcuno esso è sembrato vocabolo sospetto perché poetico. Ma è in Callimaco ed è in Eronda, e dunque era dell’uso comune come lo erano anche altre parole cosiddette poetiche.

Alcuni codici hanno «che son caduti a terra», altri «che giacciono a terra». La questione dei datteri è grave però, e molti hanno espunto il «dattero» osservando che datteri in Grecia non ce n’erano, e Pasquali ha perfino creduto di scorgere nel «dattero» la patria d’origine dell’... interpolatore; che son poi ridicolezze del voler troppo vedere e sentenziare. Il fatto è che nella «Storia delle piante», libro terzo, capitolo terzo, paragrafo quinto, Teofrasto dice che in Grecia le palme non possono condurre le frutta a «piena» maturità, e però il traduttore Leondarakis commentava intelligentemente: «da ciò ben si rileva l’estrema spilorceria di costui che non permette a nessuno di non toccare neppure i frutti delle palme i quali cadono dagli alberi ancora immaturi e non buoni a mangiarsi». Neppure a farlo apposta, anche nella «Storia delle piante» Teofrasto parla prima dei fichi e subito dopo dei datteri. E si chiamavano in Grecia συκοτραγίδεις i poveri che si sfamavano con fichi. In latino la frase teofrastea sarebbe da tradurre nec vel olivam vel palmulam.

Plinio, nella lettera sesta del secondo libro, racconta di aver mangiato presso un tale che era a un tempo sordidus e sumptuosus, e imbandiva a se stesso leccornie, opima, agli altri minutaglia, ceteris vilia et minuta ponebat.

In Aristotele κυμινοπρίστης è lo spilorcio che taglia fin le rape del comino per non dare la pianticella intera; e un adagio di Erasmo s’intitola cumini sector. Le medesime cose suppergiù raccomanda Euclione nell’«Aulularia» di Plauto alla serva Stafila «se chiedono un coltello, il mortaio, il pestello, la mannaia o le stoviglie che i vicini sogliono chiedere in prestito... ».

Forse θυηλήματα è glossa, giacché tutte le cose prima mentovate son roba da sacrifizio: e dunque la glossa spiegherebbe che roba esse sono e per quale uso.

A Pasquali dà fastidio ἰωμέναςἰ; «arrugginite», rubigine obsitas, obductas, perché perfetto; ma io non capisco perché, una volta che il perfetto significa che lo spilorcio non s’è curato di far pulire le chiavi.

Leggo naturalmente μηνῶν, correzione di Enrico Etienne. I codici in genere hanno μικρῶν: e sarebbe perciò «vestiti piú corti [p. 99 modifica]dei corti » che non è cattiva lezione. Qualche codice ha anche μέτρων, «dei normali», che è pessima lezione; ma di prima mano il codice A ha μηρῶν poi corretto in μικρῶν.

Ad vivum, ad cutem rasos. Per non andar spesso dal barbiere.

Quand’era caldo, per fare economia.

Figlio di un tintore, Teofrasto certo le cose le sapeva e le aveva anche vedute, e forse aveva anche conosciuto di cotesti spilorci che nella bottega di suo padre chiedevano si risciacquassero e imbucatassero per bene i loro mantelli stropicciandoli con molta terra. E anche in un frammento della sua opera «Le pietre», parlando di certe pietre friabili porose e fibrose, dirà γῆν ἐμπάττειν εἰς τὰ ἱμάτια, «spander terra sui vestiti».

  1. [p. 105 modifica]Letteralmente μικρολόγος significa «colui che calcola le piccole cose», e che però tiene conto d’ogni minuzia, che rabbatte e detrae il quattrino di dove lo può dibattere, ed è duro a spendere. In italiano potremmo chiamarlo anche «rabbattino», o anche avari «stillino», o anche e «tirchio», che son sinonimi, e che, senza essere avari spaccati, ci tirano però, e son tenaci e stretti e meschini. In latino: deparcus, tenax, sordidus, strictus, aridus.
  2. [p. 105 modifica]Leggesi in Aristotele un passo dal quale resulta che τὸ διάφορον = sumptus.
  3. [p. 105 modifica]L’edizione del Diels ha con i più recenti codici ἐπὶ τῆν οἰκίαν, e traduco di conseguenza. Ma mi piace ricordare l’ingegnosa congettura di Unger ἐπιτοκίαν che sarebbe «d’interesse», cioè a dire che lo
  4. [p. 106 modifica]Il greco ha διφᾶν, e a qualcuno esso è sembrato vocabolo sospetto perché poetico. Ma è in Callimaco ed è in Eronda, e dunque era dell’uso comune come lo erano anche altre parole cosiddette poetiche.
  5. [p. 106 modifica]Alcuni codici hanno «che son caduti a terra», altri «che giacciono a terra». La questione dei datteri è grave però, e molti hanno espunto il «dattero» osservando che datteri in Grecia non ce n’erano, e Pasquali ha perfino creduto di scorgere nel «dattero» la patria d’origine dell’... interpolatore; che son poi ridicolezze del voler troppo vedere e sentenziare. Il fatto è che nella «Storia delle piante», libro terzo, capitolo terzo, paragrafo quinto, Teofrasto dice che in Grecia le palme non possono condurre le frutta a «piena» maturità, e però il traduttore Leondarakis commentava intelligentemente: «da ciò ben si rileva l’estrema spilorceria di costui che non permette a nessuno di non toccare neppure i frutti delle palme i quali cadono dagli alberi ancora immaturi e non buoni a mangiarsi». Neppure a farlo apposta, anche nella «Storia delle piante» Teofrasto parla prima dei fichi e subito dopo dei datteri. E si chiamavano in Grecia συκοτραγίδεις i poveri che si sfamavano con fichi. In latino la frase teofrastea sarebbe da tradurre nec vel olivam vel palmulam.
  6. [p. 106 modifica]Plinio, nella lettera sesta del secondo libro, racconta di aver mangiato presso un tale che era a un tempo sordidus e sumptuosus, e imbandiva a se stesso leccornie, opima, agli altri minutaglia, ceteris vilia et minuta ponebat.
  7. [p. 106 modifica]In Aristotele κυμινοπρίστης è lo spilorcio che taglia fin le rape del comino per non dare la pianticella intera; e un adagio di Erasmo s’intitola cumini sector. Le medesime cose suppergiù raccomanda Euclione nell’«Aulularia» di Plauto alla serva Stafila «se chiedono un coltello, il mortaio, il pestello, la mannaia o le stoviglie che i vicini sogliono chiedere in prestito... ».
  8. [p. 106 modifica]Forse θυηλήματα è glossa, giacché tutte le cose prima mentovate son roba da sacrifizio: e dunque la glossa spiegherebbe che roba esse sono e per quale uso.
  9. [p. 106 modifica]A Pasquali dà fastidio ἰωμέναςἰ; «arrugginite», rubigine obsitas, obductas, perché perfetto; ma io non capisco perché, una volta che il perfetto significa che lo spilorcio non s’è curato di far pulire le chiavi.
  10. [p. 106 modifica]Leggo naturalmente μηνῶν, correzione di Enrico Etienne. I codici in genere hanno μικρῶν: e sarebbe perciò «vestiti piú corti
  11. [p. 107 modifica]Ad vivum, ad cutem rasos. Per non andar spesso dal barbiere.
  12. [p. 107 modifica]Quand’era caldo, per fare economia.
  13. [p. 107 modifica]Figlio di un tintore, Teofrasto certo le cose le sapeva e le aveva anche vedute, e forse aveva anche conosciuto di cotesti spilorci che nella bottega di suo padre chiedevano si risciacquassero e imbucatassero per bene i loro mantelli stropicciandoli con molta terra. E anche in un frammento della sua opera «Le pietre», parlando di certe pietre friabili porose e fibrose, dirà γῆν ἐμπάττειν εἰς τὰ ἱμάτια, «spander terra sui vestiti».

Note