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[p. 283 modifica]et lei cum questo alto signore questa continua praeda naviganti dividevano, et impartivano. Dunque questo solo extimai extrema dolcecia di dilecto. Al quale in praesentia la beata celebritate et triumpho me invitavano.


POLIPHILO NARRA CHE LE NYMPHE HAVENDO GLI REMI INFRENATI INCOMINCIORONO SUAVEMENTE DI CANTARE. ET POLIA CUM COMPARATIONE CANTANDO, MAGNA DOLCECIA D’AMORE PERSENTIVA.

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UM SUMMO FAUSTO SUPERBE ET MAgne pompe insolente triumpho, cum inopinabile laetitia et voluptico oblectamento, cum stimulanti dardi saevamente infixi nel cicatricoso core ad gli amorosi ochii di Polia et alla crebritate sagittale di Cupidine obvio et firmatissimo scopo cum ampliato core più fornaceamente ardendo, sempre più avido di augumentare l’ardore, per il solicito ministerio degli insaciabili et impacienti ochii, ad gli quali ragionevolmente io gli perdonava, considerando la causa, che cusì cupidi gli faceva, et in quella summamente applicati et sedulamente intenti. Quale il simulachro di Api, che al sole sempre si volve spectabondo, cusì né altramente gli ochii mei in essa directi, che era uno conspicuo et excitativo obvio da quel spectatissimo volto irradiante, al mondo di aequivalente bellecia proscripto, et per omni modo interdicto. Ma più noxii, et molto più iniqua et vexatrice caede gli furaci et vagi pensieri experiva di questo valoroso signore, optimi di tale materia solerti quaestori, et dil quaesto aptissimi artifici ad fabriculare et componere di foco et di fiamme sì dolce tormento, sì venerando idolo, sì formoso simulachro, sì praestante forma. Nella officina dilla imaginativa et solatiosamente fingere. O quanto, et molesto, et renuente al temperamento recusando di succumbere questi effreni, et publici sicarii dil mio riposo, et quiete se indicavano, et insatiabili et frementi dilla invisa bellecia dilla mia xanthothricha Polia, talvolta dolci, et talhora amari, alcuna volta laeti, et più dille fiate tristibili molte fiati optabili, et sepicule fugiendi se accusavano. Quale dunque validissime forcie hariano potuto gli incontinenti sensi incarcerare, che reluctanti discrepare, et discrepanti repugnare. Et repugnanti abigere, et abigendo respuere,

s ii [p. 284 modifica]qualunque septo et inclusorio per quel amoeno prato diffusamente florigero dille singulare et eximie delicie di Polia (quale susurante ape) uberrimamente infessi racoglievano, tanta dolcecia, et suavissimo dilecto, per le oppresse viscere diffundentilo. Ove le amplissime fiamme serpente, sencia relaxatione insultanti, violentarii invadevano. Per la quale cosa digno non arbitrava essere, né conveniente, che l’amoroso, et carbonculato core, in queste tale opere vigorosamente exercitato, et sustinente di summoverlo, et per molestia debilitarlo. Ma più presto modestissimamente io doveva quello tollerante supportarlo.Il quale tanto voluntiera per mio affabile contento havea operosamente contracto. Hora nella fatale navarchia, sencia amplustre et temone naviganti nui protoploi, et sopra questo impraemiditato navigio, ove tuti gli mysterii d’amore spiravano. Il quale havea per la puppe la prora, et per la prora la puppe, cum il più digno et exquisito artificio, ad Cupidine dalla matre accommodato, che unque una apta et uberrimamente faconda lingua di rotondo eloquio, il sapesse exponendo exprimere, et exprimendo recollere, et distinctamente recollendo percontare. Nel mediostimo dilla quale, cioè nel istopode, era levata una aurea hasta cum triumphale et imperatoria vexillatione, di panno tenue sericeo, di infectura cyanea, nella quale di gemmule dilla coloratione opportune, cum candidissime margarite depolitamente erano picturariamente ritramati d’ambe le facie, cum multiplici foliamenti cum summa deornatione decorissima, tri hieroglyphi. Uno antiquario vasculo, ne lo hiato buccale dil quale ardeva una flammula. Et poscia era el mundo, inseme colligati cum uno ramusculo di vinco ad gli suavi reflati dil verifero et obsequente zephyro perflatile volabile, et eximie inconstante. Lo interpreto degli quali cusì io el feci. Amor vincit omnia.

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AMOR VINCIT OMNIA

Il divino Nauclero io cum riverenti, et cum decenti risguardi volentilo volentiera, cum omni possibile conato speculare, il disproportionato obiecto, il mio debile intuito aconciamente non pativa. Ma le gene connivando, per questo modo alquanto il divino fanciullo pluripharia comprehendeva. Alcuna fiata mi appareva di gemino aspecto. Talhora di triplice, et ancora tal fiata se monstrava cum infinite effigie. Il quale cum Polia lo itinerario nostro facevano foelice, beato, et glorioso. Et per questa via lo amoroso, et proreta Cupidine ventilante le sacre penne, dille perpete ale, nelle quale Canens amante di Pico solaciavase, più che oro obrizo fulgevano di vario, et periucundo coloramine, sopra gli flucticuli in circulo rotante. Più bello et più gratissimo, che il crystalino trigonio columna di Euclide ad gli ochii aproximato dimonstra. Hora le nautice Nymphe deteron principio cum suavissima nota, et cum celica intonatione, da l’humana totalmente devariata, et ultra il credere cum ragione cantionica, di cantare et uno concento dolcissimo, cum voce consona et melodia teretigiare. In tanto che dritamente dubitai di excessiva dolcecia ischiantare, perché quasi dil suo loco dimoto sentiva il resultante et ferito core, et di dolcecia ad me parea ragionevolmente quello per gli mei labri exulare, et elle sequente cum vibrante lingule, nella sonora uvea rompevano crispulando geminando, et triplicando in una le brevissime cromaticule, overo accodate notule, et prima intercepto due a ddue. Poscia trine et trine. Poi ad quatro, ultimo tute sei, gli rosei labrunculi tremuli moderatamente aprendogli, et gratiosamente iungendoli, proferivano gli modulanti spiriti, cum emusicata proportione, cum voce mellea nel caldo core syncopata et stanche prolatione d’amore. Voce agli loci sospirante, suavissimamente gutturando, da fare in oblivione ponere il naturale bisognio et negligere, cum fidici instrumenti canticulavano le dolcece, et qualitate di amore, gli faceti furti dil superno Iove. Le solatiose caldecie dilla sanctissima Erothea, le lascivie dil festevole Baccho. Le foecunditate dilla alumna et flava Cerere. Gli saporosi fructi di Hymenaeo, cum versifico modo exprimendo et rithmiticamente proferendo, et melos emmetron. Per la quale cosa, cum la mente devia firmissimamente teniva tale non essere stato quel dulcisono che Euridice portata nelle volucre trige ad l’infere et s iii [p. 286 modifica]opacissime sedie, dalle aeterne fiamme liberoe. Né ancora cum tale sono Hermete adormentoe lo oculato pastore. Quale per il purgatissimo aire spargentise fora dille pretiose et coralicee bucce spirava. Et per il candido iugulo traiectare vedevasi gli vocali spiriti, cum modulata suavitate diffundevasi. Imperò che quella era coeleste carne, et divo composito transparente, quale crystallina frigidissima, et reficiata camphora di chermeo tincta. Diqué ristato si sarebbe Phoebo di venire ad inrosare la lycophe aurora degli corruscanti radii, et di dipingere sarebbe dimenticato, et fare gli colori ad gli fiori, et di recentarse gratioso dì ad gli mortali. Et per questo sencia dubio la arcigera Diana, gli curvi archi et le volante sagitte, et le sedule venatione, et le dense silve oblite harebbe, et thermato il gelido fonte, et spreto non harebbe la praesentia del incauto venatore, et cornigero cervo, ad gli mordenti cani lacerabondo non l’harebbe convertito. Et la omnivaga Selenea se sarebbe ritrata da illustrare cum il suo splendore gli superni cieli, et la umbrificata terra. Et la spaventifica Proserpina nel suo luctuoso regnio, non harebbe ispasimato gli dolorosi subditi, si alle sue orechie consimile tono pervenuto se fusse. Et il solatioso Baccho harebbe facto resistentia alle lubrice lascivie, et harebbe neglecto gli ogigii colli, Eleo, Naxo, Chio, et Masicho monte, et Mareotis, et harebbe parvifacto le mustulente delicie dil vindemioso Autumno. Et l’alma Cerere harebbe sempre in virore ritenute le spiche. Postponendo gli habondevoli regni di Ausonia, né commutate harebbe le crasse, et tetragrane spiche cum Chaonia. Et il nubitonante alite fora dilla aduncitate dille inverse ungue non harebbe sentito il rapto pocillatore Phrygio fugirsene, tanto suavissimamente le Nymphe cantavano et concordemente sonavano, et ciaschuna di loro cum la mia Polia cantillante, alle patule urechie coeleste melodie dispensavano. Per le quale sopito se sarebbe il nigro et multiforme et lucubrario Cerbero. Né excubiato harebbe cum immoti ochii le metallacie valve di Tenaro. Et allhora la furente Tesiphone, cum le monstrifere sorore alle misere alme s’haveriano exposte placidissime, et benigne, né unque Parthenope cum le sorore, Leucosia, et Ligia, filiole di Acheloo, et di Calliope, alle Capree insule apresso Peloro cantante, se udirono cum tanta harmonia, cum voce, modo, Lyra, et forabile tibie, d’onde l’alma incendiosamente infiammata dal suo loco summota per gli foelici canti, et soni, effigie bellece, comitato, et maiestate redimere non la valeva né farla sua. Ma strectissimamente ligata il stato suo in le delicate brace commendava, et nel albicante sino di Polia obside perpetuo et dedititia la obligava. La quale poscia cogitando, per delectabile semite et voluptici conducti perveniva alle archane delitie. Et d’indi cum tute mie excitate virtute in me ristrecto non poteva altro reasumere, se non una solacievole imaginativa, et gloriosa. [p. 287 modifica]

Per la quale di inubere pensiculatione la anxia mente cum refocilatione d’animo pabulava, et cum curiosuli risguardi, et petulci appetiti. Le manifeste et perfecte formositate (et raro tale assueto di apparentia) di Polia avidissimamente mirava, omni altra cosa spectanda di tuitione deviabile renuendo. Ma singularmente allhora pergratioso erami il suo micante pecto picturato mirificamente di purpurante rose, et di lactei zigli, nel suo primo aprire, in la lachrymosa aurora sencia obstaculo ad gli ochii mei, placidissimo spectaculo, obvio palesemente conceduto, et sencia impedito medio, ma sufficientemente colorato, ad quello quam spectatissimo obiecto, che era il suo volto tanto illice et mirabilmente bello, legiadro, et perspicuo, che tale non appare cum l’ornato suo Hippe nel puro coelo, cum crinuli capreolati sopra, et la rosea fronte et piane tempore tremululanti, gli quali cum maximo decoramento per il niveo collo, et albicante spalle deflui. La lasciviente et verifera aura eximie reflava. Quanto unque l’altissimo Iupiter, imaginare se pote alla natura dil suo conferire, et di dovere benignamente producere et fabrefare, né mai Apelle harebbe potuto dipingere uno simigliante, et molto meno Aristide, che gli humani animi cum il suo penniculo fingeva. Dil quale intuito non poteva saturarme, né più né meno, che le susurante ape dil olente Thimo et Amello, et le petulce capelle dil florente Cythiso, et dille tenelle fronde non se saturano. Et cum libente animo, et cum incredibile piacere, io il mio amorosissimo core harei riserato, niente grave arbitrando, et tessellato, che ella d’indi prospecta la experientia indicio havesse ricevuto, quale sono le qualitate, che amando se tollera. Quale ad Caesare il stigmato Antipatro, et come l’alma mia fue praestamente dal suo visulo dolce, et insigne figura seducta, et in servitricia deditione redacta, non altrimente pervio facendo il pecto mio lacerando fenestrato, che la pientissima Pelicano Aegyptia, nella solitudine dil turbido et acephalo Nilo habitante, agli fremendi pulli di fame, cum pungente et crudele rostro si sfinde, et ischianta, exviscerando il pietoso et materno core. Il quale non a Dionyso, ma solum a essa perpetuo è dicatissimo excitabile, et diffundentise deflui in me gli insani et lernei amori, et gli focosi disii, et gli pensieri incitativi fingeva nel consentaneo core, componendo a consumarme, et me stesso strugiere, una ardente et peruribile fiamma, per me tuto concepta. Et cum magiore miraculo el lethale et mortifero telo innocuamente transfixo librava nel mio ferito core, che il telo pensile lethale in Epheso sencia laqueo nel tempio di Diana. L’alma perciò interdicta, a vivificarme pienamente non valeva. Dunque per sì facta cagione mortificato oltra mensura ardente, si non gli delectevoli risguardi sui me recentando recreavano, et gli amorosi nuti s iiii [p. 288 modifica]confortavano, et le summisse et dulcicule parolette me vivificavano. Solicitantime essa affectuosamente, che io desse opera ad gli suavi cantari de sì egregie, et dive cantatrice, et tante mirabile cose, cum gli sensi fruire. Interrumpendo il fixo riguardo in lei et tuto il mio cordiale intento, oltra tuto quello che si pole opinare più grata la mia pulcherrima Polia ad gli mei fervescenti urori, che per aventura tanto grate et expectate non si sarebberon praesentate le rapide unde di Xantho et di Simoenta alle iliace fiamme. Né tanto grato si prestoe lo honorato dono dil capo dil setigero Apro, di Meleagro ad Atalanta. Né ad l’amata Alcmena il bel dono dal benigno Iove. Né tanto grato et opportuno se offerite ad Hannibale nelle aque lo elephanto. Quanto Polia quam gratissima ad omni mio dilecto et contento. Constante dunque alla incepta opera, tra dulcissima voluptate, et odibile dilatione perseverava. Né più, né meno, che il ponderoso oro allo extremo cemento, et ad gli subtilissimi liquori persiste. Me volveva poscia al divino puerulo. O flammigero Cupidine summurmurabondo diceva. Tu alcuna fiata, signore mio, dilla bellissima Psyches te medesmo et cum le proprie crudele sagette vulnerasti, fina alla novissima linea di ardore. Quale gli mortali, essa extremamente amando, et ti piaque lei sopra tute puelle amare. Et assai te dolse il doloso consiglio dille invide et fallace sorore, et sopra il nubilo cupresso contra essa cum diutino plangore cruciata, iracondo lamentabile quaerimonie, increpantila facesti. Usa et exercita pertanto verso me pietate, et considera experto la fragile qualitate degli cupidi amanti, et tempera alquanto le tue adurente facole, et modifica l’arme tue nocevole, et il tuo lethifero archo ralenta, perché d’amore tuto me discrucio. Il perché io ragionevolmente argumento, che si in te medesimo saevo et impietoso vulnerando te fusti. Quale aequabilitate d’animo suade, che io non me terischa, che sencia pietate, verso di me, più immite et effreno, et saevissimo non te praesti? Et cusì exasperato concitatamente audeva, et cum diverse petitione, et precature et fabricate quaerimonie, et fincte satisfactione deliniva alquanto la forte invasura, et il crebro impulso dil improbo, et exoculato amore. Ma per tuto questo non era condignamente reconciliato il mio infocato core, né realmente satisfacto al discuncio appetito mio. Et quello che allhora e’ gli precava, solo che fine pona almeno al mio crucioso et diutino sperare, cum molesta expectatione di exito carceraria. Avenga che molto più sia di aviditate suavissimo il futuro concupito, che il praeterito dilecto acquisito, ma pure omni infesto amore contende allo expectato fine. Dunque abrevia cum subita abolitione, et temporia sperancia. Signore mio questo ingrato et displicibile differire, più che ad gli puri ochii il fumeo Nubilo, et ad gli denti la obstupente acredine et che il [p. 289 modifica]pigritare l’aiuto al cupitore, perché a concupiscente animo grave tormento egli è, lo odioso perendinare, et lo desiderato fine prorogare. Incusando poscia ancora, et la praegnante natura ragionevolmente, che ella solertemente il tuto habia et optimamente conciliato, se non che relicto hae incompacto lo appetito cum il potere. Poscia ritornando in me forte mirabondo. Imperoché io non poteva perfectamente sapere, ove tanta praeparata et durabile materia, (quale inconsumabile Etna) lui trovasse et pyriaterio copioso di tanto foco dentro al mio alumno et arsibile core. Alla fine solamente di guardare vigilmente lo eximio, et nobilissimo compto, composito, et ornato obiecto, et exhaurire cum le mie latebrose orechie le dolcissime consonantie cum caelica intonatione, dalle quale ineffabile spasso ricevendo gustava ad gli sensi vegetabile, et extremo dilecto. Hora per questo inexperto modo sopra le placide et complanate undicule dil non sulcato pelago, la nostra propera exeres discorrea qual leve tipulla, et le decorissime remige festivissime iubilante cantavano cum tonato Iasio, et la diva Polia ancora sencia le altre sola, da quelle minime dissonante ma comparabile, lydiamente cantilava. Non gli pianti dilla furente Tragoedia, nella cachinante Satyra, nella inganevola Comoedia, negli flebili Elegi. Ma cum exornatissimo poema, et cum elegante parolette, le supreme dolcecie dilla sancta et alma Erycina compositamente proferivano et le delectabile fallacie dillo astante fiolo facondamente cantilavano. Et Polia affabile et decora, di culto ornato, polito et elegante congratulabonda gli rengratiamenti dille adepte gratie (in admiratione provocando) cantilava, cum tale vehementia et dulcisono. Quale dil caeco Demodocho all’udita dil sagurato Ulysse, cum ululante cithara non pervene. La quale quam gratissima comite, non meno delectarse parciaria sentiva, parlando iocosamente, et blandicella tentantime, che ad me le instante cose appariano? Nominantime di qualuncha Nympha remige il proprio nome, et cum dolce suadela mi affirmava, che perseverantia sola gerisce la victrice diadema. Et in questa effrenata aviditate totalmente delapsi, et proiectissimi iucundissimamente navigassimo, et prosperi pervenissimo alla deliciosa insula Cytherea.