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Per la quale di inubere pensiculatione la anxia mente cum refocilatione d’animo pabulava, et cum curiosuli risguardi, et petulci appetiti. Le manifeste et perfecte formositate (et raro tale assueto di apparentia) di Polia avidissimamente mirava, omni altra cosa spectanda di tuitione deviabile renuendo. Ma singularmente allhora pergratioso erami il suo micante pecto picturato mirificamente di purpurante rose, et di lactei zigli, nel suo primo aprire, in la lachrymosa aurora sencia obstaculo ad gli ochii mei, placidissimo spectaculo, obvio palesemente conceduto, et sencia impedito medio, ma sufficientemente colorato, ad quello quam spectatissimo obiecto, che era il suo volto tanto illice et mirabilmente bello, legiadro, et perspicuo, che tale non appare cum l’ornato suo Hippe nel puro coelo, cum crinuli capreolati sopra, et la rosea fronte et piane tempore tremululanti, gli quali cum maximo decoramento per il niveo collo, et albicante spalle deflui. La lasciviente et verifera aura eximie reflava. Quanto unque l’altissimo Iupiter, imaginare se pote alla natura dil suo conferire, et di dovere benignamente producere et fabrefare, né mai Apelle harebbe potuto dipingere uno simigliante, et molto meno Aristide, che gli humani animi cum il suo penniculo fingeva. Dil quale intuito non poteva saturarme, né più né meno, che le susurante ape dil olente Thimo et Amello, et le petulce capelle dil florente Cythiso, et dille tenelle fronde non se saturano. Et cum libente animo, et cum incredibile piacere, io il mio amorosissimo core harei riserato, niente grave arbitrando, et tessellato, che ella d’indi prospecta la experientia indicio havesse ricevuto, quale sono le qualitate, che amando se tollera. Quale ad Caesare il stigmato Antipatro, et come l’alma mia fue praestamente dal suo visulo dolce, et insigne figura seducta, et in servitricia deditione redacta, non altrimente pervio facendo il pecto mio lacerando fenestrato, che la pientissima Pelicano Aegyptia, nella solitudine dil turbido et acephalo Nilo habitante, agli fremendi pulli di fame, cum pungente et crudele rostro si sfinde, et ischianta, exviscerando il pietoso et materno core. Il quale non a Dionyso, ma solum a essa perpetuo è dicatissimo excitabile, et diffundentise deflui in me gli insani et lernei amori, et gli focosi disii, et gli pensieri incitativi fingeva nel consentaneo core, componendo a consumarme, et me stesso strugiere, una ardente et peruribile fiamma, per me tuto concepta. Et cum magiore miraculo el lethale et mortifero telo innocuamente transfixo librava nel mio ferito core, che il telo pensile lethale in Epheso sencia laqueo nel tempio di Diana. L’alma perciò interdicta, a vivificarme pienamente non valeva. Dunque per sì facta cagione mortificato oltra mensura ardente, si non gli delectevoli risguardi sui me recentando recreavano, et gli amorosi nuti s iiii