Guerino detto il Meschino/Capitolo XXVI
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CAPITOLO XXVI.
Come Guerino e l’oste entrarono in cammino e arrivarono al castello, quindi al romitorio, ed ebbe egli consiglio dai romiti, dopo il che trovò le oscure alpi della fata Alcina1.
selve, e più andando a piedi che a cavallo. La sera quando il sole fu oscurato, giunsero ad un romitorio grande, che era tra due cime di monte, per modo che le ripe venivano sino alla cima di questo luogo, e chi avesse voluto passare non poteva, se non per mezzo di questo romitorio, perchè le due cime del monte sono rovinate, e dal mezzo del monte si moveva un collo di monte che durava un miglio, ed era largo un braccio, e pareva la schiena d’un grossissimo storione che fosse di simil grandezza. Conviene che vada appiccandosi per la maggior parte colle mani in certi sassi chi vi vuol andare. Ora disse il Meschino, che quando giunsero al romitorio, erano stanchi, e smontarono da cavallo e batterono all’uscio. Un de’ romiti rispose: «Gesù Nazareno ci aiuti!» e sentirono con gran riverenza: «Deus in adjutorium meum intende etc.», e vennero all’uscio con questo suono. Ed erano tre romiti, ed ognuno aveva una crocetta in mano; li scongiurarono, ed uno di loro disse: — Tornate indietro, o maledetti, dalla vanità e dalle fantasime; qual è di voi che vuole andare a perdere l’anima ed il corpo?» Il Meschino disse: — Non è niuno di noi che li voglia perdere, o santo padre; io non vado per vanità, nè per superbia, nè per disperazione, ma solo per trovare di che generazione io sono nato; ed ho per questo cercato quasi tutto il mondo, e non l’ho potuto sapere, nè lo saprò, se non vado da questa incantatrice a domandare». Allora serrarono l’uscio, e stettero un poco, poi tornarono da loro ed apersero l’uscio. Entrarono dentro essi ed i loro cavalli, perchè era già sera, ed i romiti seguitavano a pregarli si togliessero dal cuore questo disegno. Per cui Anuello disse: — Non dite a me, che io non voglio andare, ma sono venuto fin qui per compagnia di questo gentiluomo». Guerino cominciò poi a dire, come aveva cercato tutto il mondo per trovare il suo parentaggio, e feceli piangere tutti tre. Nientedimeno lo pregavano che non andasse, e ch’egli vivesse alla speranza di Dio, assegnandogli la ragione come, s’egli moriva, sarebbe dannato a casa del diavolo in anima ed in corpo, dicendogli: — Non fate contra Dio e contra i comandamenti della santa Chiesa». Ma egli rispose di voler andare a tutti i modi, e che non lo impedissero. </noinclude>
Benedissero i romiti la potenza di Dio, e udendo le parole del Meschino si restrinsero tutti insieme, e poi si volsero al Meschino, dicendogli: — O gentiluomo, poichè tu sei disposto d’andare, noi ti daremo ammaestramento alla tua salute; tieni a mente le nostre parole. La prima cosa, se tu vorrai esser sicuro, ella è che tu abbia a mente e nel cuore Gesù Cristo, e che in tutti i tuoi principii, e le tue parole, e in ciò che farai, tu dica il nome di Gesù. Appresso ti conviene esser armato delle quattro virtù cardinali e tre teologali: fortezza, giustizia, temperanza e prudenza, e appresso queste quattro ti conviene avere fede, speranza e carità. E ti conviene guardarti dai sette peccati mortali, e dalla loro vanità, e guardarti dalla superbia e dall’ira, dall’accidia e dall’avarizia, perchè ti mostreranno tutte cose fallaci. Guardati dall’invidia, ma tu vedrai cose per le quali avrai poca invidia, e ti saprai guardare dalle loro false lusinghe; e guardati dal vizio della gola, perchè ti daranno vivande che ti piaceranno, molto migliori delle nostre, le quali sono tutte false; e sopra tutti gli altri peccati ti conviene guardarti dalla lussuria, perchè sono vizii dai quali se non ti saprai guardare, tu correrai pericolo di non tornar via mai più; e non ti lasciare vincere dalle vane e false parole, lusinghe ed atti disonesti; che se pure ti difendi, in sette dì vedrai che cosa esse sono». Rispose Guerino: — Padre mio, quanto debbo stare dentro s’io entro?» Rispose: — Chi vi entra, lì ha da stare tanto che il sole dia la volta compita». Credette il Meschino ch’ei volesse dire un giorno, e disse: — Il sole dà ogni giorno una volta». Rispose il romito: — La volta intiera s’intende 366 giorni e ore 6, e questa è la volta intiera del sole, e in questo tempo cerca tutti i dodici segni, cioè: Ariete che comincia a mezzo marzo, e dura sino a giorni 25 e ore 20 e mezzo d’aprile; e poi comincia Tauro, e dura insino a dì 15 ed ore 9 di maggio; poi comincia Gemini, e dura in sino a dì 14 e ore 10 di giugno; poi comincia Cancro, e dura insino a di 15 ore 6 di luglio; poi comincia Leone, e dura fino a dì 14 ore 9 di agosto; poi comincia Vergine, e dura fino a dì 14 settembre; poi comincia Libra, e dura fino a dì 14 e ore 10 d’ottobre, poi comincia Scorpione, e dura fino al 13 di novembre: poi comincia Sagittario, e dura fino a dì 14 e ore 10 di dicembre; poi comincia Capricorno, e dura in fino a dì 14 ore 17 di gennaio; poi comincia Acquario, e dura fino a dì 14 ore 7 e mezzo di febbraio; poi comincia Pesci, e dura fino a dì 15 e ore 12 di marzo; in ciascheduno di questi segni il sole sta 30 dì e ore 1 e mezzo. Quando il sole ha cercato tutti questi segni, ricomincia l’altra; e questa è la volta che io ti dico, che il sole ha da fare prima che tu possa uscire, e in quel punto stesso che tu entrerai ti conviene uscire, poichè passando quello non potresti mai uscire, e saresti in quello istesso incanto che elle sono. Ma per quelle virtù che le giudica in quel luogo, conviene che per forza tre giorni innanzi, ti sia detto e ricordato se tu vuoi uscire, nè di niente ti possono sforzare, e conviene che elle ti dicano l’ora, e quando che tu vorrai uscire, sarai menato alla porta per dove tu entrasti». Ora quando Guerino ebbe inteso queste parole, rispose: — Santo padre, datemi la vostra benedizione, che è dì chiaro; imperocchè se devono o convengono insegnare, ovvero dire per forza, io tornerò salvo e sano per la grazia del nostro Signor Iddio!» Si confessò, e tutti tre gli diedero la loro benedizione, ed ei li pregò che pregassero Dio per lui. Poi abbracciò Anuello, e pregollo caramente ch’ei facesse bene attendere al suo cavallo, e bene guardasse le sue arme. — Per l’oro e l’argento fa pure il tuo volere, purchè il cavallo e l’arme sieno pronte al mio comando, per la roba poi, io me ne guadagnerei,» e lui molto l’abbracciò piangendo. Il Meschino si cinse la spada, e la saccoccia nella quale era il pane e gli ordigni per accendere il fuoco, e prese le candele legate perchè non si rompessero, e tolse la fiasca del vino, e tolta la benedizione, al suo partire fece ogn’uomo lagrimare, dicendo: — Pregate Dio che mi rimandi a voi sano e salvo!» e uscito fuori del romitorio, essi gli fecero compagnia circa cinquanta braccia, e nel partire disse uno dei romiti: — Abbi in mente Gesù Cristo Nazareno che ti aiuti!» Allora ei prese l’aspra via su per il poggio dell’alpi della fata Alcina con gran fatica.
Partito il Meschino dai tre romiti, poco andò che trovò il fine delle due montagne dov’era questo romitorio. Per mezzo Prese l’aspra via su per il poggio delle Alpi. tra queste due alpi comincia il colle di un sasso vivo, e nel fine di queste due montagne sono sì grandi e sì profondi dirupi che non si può vedere il fondo del gran vallone, e le ripe dove quelle finiscono, giungono sino sopra alle nuvole, e quella montagna dove gli conveniva andare era fatta come un pesce marino, detto Aschi, cioè come la sua schiena, il quale nasce nel mare. Questo poggio aveva da ogni parte un barbacane di muro, che per mezzo era circa un braccio, quindi dove meno, e dove poco più, e nella cima di questa schiena del poggio si aduna la terra di questi dirupi, di cui non si potrebbe dire l’oscurità, di modo che la luce del sole non opra nel fondo alcuna cosa; e tutte queste alpi sono nude d’ogni sorta d’alberi, ma vi è solo sassi e alcune poche erbe. Non si può andare colà se non tre mesi dell’anno, cioè quando il sole è nel segno di Gemini, Cancro e Leone, e quando vi andò Guerino era il sole in Cancro. Quando fu a mezzo questo poggio pose mente dove si era e dove gli conveniva andare, e si fermò e stette tra due pensieri una grossa ora. L’un pensiero lo confortava all’andare, e l’altro a tornar indietro; alla fine riprese cuore, e superò la pietà di sè stesso, e per la mala via andava più con le mani che con i piedi, e quando fu alla fine del poggio, le mani in più luoghi gettavano sangue. Ei si voltò indietro e guardò il poggio, e gli venne ancora pietà di lui, dicendo: «Oh lasso me che vado io cercando!» Pregò Dio su la sua tornata, e disse tre volte: «Gesù Cristo Nazareno, aiutatemi!» poi alzò gli occhi e vide due cime di monti che giungevano al suo parere al cielo. Questa pareva una montagna fessa, e che fosse una cima attaccata all’altra e partita nel profondo, dove per mezzo gli conveniva andare, ed eravi tanto da quel fondo alla cima che appena si vedeva l’aere, e pure vi andò con gran fatica. Eravi grande pericolo per i sassi che stavano per rovinare da tutte le parti, e molti ne erano già rovinati, e avevan cominciato a rompergli il passo. E giunto in un campo vide una largura a modo di piazza quadra, circa cento braccia per ogni quadro, ed erano in ogni lato le rive altissime, per modo che ei non vedeva la fine, ed eravi gran quantità di pietre rovinate, innanzi a cui era una montagna molto maggiore che niuna delle altre. Disse il Meschino ad alta voce: — O maledetto dragone, o laido animale oscuro e brutto, quanto è terribile la coda e quanto sono terribili le tue ale!» Pareva maggiore la testa che l’altro busto. Ei chiamava busto le due montagne dov’era andato, e chiamava testa la montagna che vedeva davanti, su per la quale per certe caverne gli conveniva andare. E vide in questa montagna quattro entrate oscure, e perchè il sole andava sotto, gli convenne dormire quella sera su quei sassi. La mattina quando fu levato il sole, disse i sette Salmi Penitenziali e molte orazioni, e segnossi il viso, e tolse una candela accesa in una mano, e in un’altra tenendo la spada entrò per mezzo una caverna, perchè le caverne erano quattro, ma pur tornavano tutte in una, e disse tre volte: «Gesù Cristo Nazareno, tu mi aiuta!»
- ↑ Siamo alle Fate o Sibille, la credenza nelle quali caratterizza gran parte del medio evo, voglio dire quei tempi di barbara superstizione nei popoli, alimentata dalla ignoranza di chi li reggeva, quando cioè un grosso nuvolone pregno di vapori poteva esser creduto uno stregone, od uno spirito malefico, se non un diavolo!
- ↑ Norcia o Norza è una piccola città vescovile nello Stato romano, provincia d’Umbria, ai piedi dell’Appennino centrale, e rinchiusa in una valle formata da due alte montagne, ai piedi di cui scorre il Freddura. Poche miglia a maestro da Norcia sorge la così detta montagna della Sibilla, nome che gli deriva da un ampio e profondo antro che apre la fauce verso ostro, che sino da’ più remoti secoli chiamano Grotta della Sibilla.
Questa montagna è qui confusa col monte Norcino, col quale essa confina dalla parte di borea, e dove si credeva che proprio fosse la grotta della sibilla. Nel medio evo era universale la credenza di questa sorta di spelonche misteriose, abitate da sibille, fate o dee che avessero un potere sulle cose presenti, come sull’avvenire. Chi non sa del monte di Venere e della spelonca della Sibilla in Ancona? Pio II, epist. 46, ricorda anch’esso la Sibilla abitante nel monte Norsino; nè posso a meno di scrivere quanto ci lasciò su questo argomento Cresaeto nel suo famoso libro De odio Satanæ. Egli racconta che certo Domenico Mirabello arpinate venne arrestato con alcuni suoi complici e giudicato a Parigi come reo di magia, colto nel momento che era per mandar i libri magici da consecrarsi alle sibille presidi della magia. Costui confessò nel giudicio un suo socio, di nome Scoto, il quale era negromante famoso, e che maravigliosi esperimenti dell’arte sua aveva fatti in presenza di molti principi del suo tempo, essere un dì venuto a visitare quell’insigne Sibilla, che dicono gl’Italiani abitare lo speco di Norcia. Il detto Scoto riferì, che costei era di piccola statura, e che sedeva sopra un umile scranno colle chiome disciolte e pendenti fino a terra, dalla quale egli ricevette un libro consecrato, e il demonio chiuso in un anello che essa portava nel dito, per opera del qual libro e dell’anello egli potesse essere trasportato a qualunque luogo ei volesse, purchè il vento non soffiasse in contrario. Disse inoltre che il Sommo Pontefice collocò all’entrata di questo speco alcuni custodi, i quali debbono impedire che nessuno non entri a consultare la Sibilla, eccetto i maghi, i quali sanno rendersi invisibili. Quando poi alcuno parla con questa Sibilla, sia mago o non mago, pei luoghi circonvicini si suscitano improvvise procelle fra lo scroscio tremendo delle folgori e i lampi dei fulmini. — Queste erano le superstizioni sì profondamente radicate nell’opinione universale, dal che quindi ne nascevano tutte quelle fantasmagorie, quei sogni, e quelle visioni poetiche che furono di bellezze inesauribili argomento a più d’uno di questi scrittori, e che resero immortale il nome d’Ariosto, il vero poeta del medio evo colla sua verga magica agitata nel seno de’ mondi incantati.