Gli scorridori del mare/2. La caccia agli schiavi
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Capitolo II.
LA CACCIA AGLI SCHIAVI
Il mattino seguente, appena il negro si svegliò, fu chiamato a bordo dal capitano e invitato a una succulenta colazione, inaffiata da alcune vecchie bottiglie di rack che il monarca trovò, neppure a dirlo, squisitissime.
Tutti e tre, poi, s’imbarcarono nella grande lancia, e scesero a terra per fare lo scambio della mercanzia.
Il negro, già mezzo ubriaco, accompagnò il capitano e il secondo al baracon degli schiavi e colà, dopo aver visitati minuziosamente tutti i capi di mercanzia, fu concluso definitivamente il contratto.
Quando uscirono, un negro armato di una lunga zagaglia, inzaccherato di fango sino alla faccia, e grondante sudore, si presentò a Pembo facendogli comprendere che aveva da fargli una importante comunicazione.
— Cosa mai? — gli domandò il re mettendo la mano sull'azza di guerra e aggrottando le ciglia.
— Ho da parlarti, — rispose il negro senza sgomentarsi della fiera attitudine del monarca, e accennando i due bianchi.
Pembo capì che il negro aveva qualche segreto da confidare e congedandosi dai bianchi rientrò nel baracon assieme al guerriero.
— Cosa diavolo ha da raccontare quel negro? — si domandò il capitano, guardando il secondo.
— Sono certo d’indovinare, — disse questi ridendo a fior di labbro.
— Spiegatevi, signor Parry.
— Vorrà proporgli qualche caccia di schiavi.
Solilach corrugò la fronte, ma non rispose.
Un minuto dopo comparve Pembo. I suoi occhi scintillavano e la sua faccia dimostrava una gioia che non sapeva nascondere.
— Mi sembri molto allegro, beone, — disse il secondo.
— Ho da proporvi un buon affare, ma ci vuole acqua di fuoco, molta, — rispose il negro ridendo ed ammiccando cogli occhi.
— Deve essere una cosa importante per esigere molta acqua di fuoco — disse Solilach beffardamente.
— Datemi cinque botti di quell’eccellente liquore ed io vi svelerò il segreto. Si tratta d’un affare che vi frutterà della mercanzia a buon prezzo, — disse il negro sgambettando attorno ai due bianchi.
— Spiegati meglio, — disse il secondo fermando l’ubriacone.
— Acqua di fuoco, acqua di fuoco prima, — gridò Pembo. — Ve lo dico io, non perderete nulla.
— Sia, — disse il capitano avvicinandosi alla riva per ordinare ai marinai di sbarcare altri cinque barili di acquavite.
Quando il monarca si vide in possesso del tanto desiderato liquore, si affrettò a svelare il segreto.
— Avete veduto quel negro? — chiese egli, accennando l’uomo sudato per la lunga corsa.
— Sì, — risposero il capitano e il secondo.
— Ebbene quello è un guerriero dell’alta Coanza, ed è venuto a dirmi che Bonga, il potente re della tribù dei Cassegna, con un seguito di altri duecento guerrieri, si trova nel villaggio di Upale, miserabile borgata mal difesa, posta a sessanta miglia dal fiume. Credo che per voi sia un buon affare. Un negro erculeo e duecento guerrieri robustissimi, valgono bene cinque barili d’acqua di fuoco.
Il capitano fece un gesto di malcontento.
— Non accetto, — disse. — Non è affar mio dare la caccia ai negri.
— Capitano, credete a me, accettate e guadagnerete trecento o quattrocento schiavi, senza spingervi fino sulle coste Ottentotte, — disse il secondo.
— Non voglio arrischiare i miei marinai in una battaglia e costringerli a lordarsi le mani di sangue libero. Preferisco recarmi sino al Capo.
— Che sangue libero! — esclamò il secondo, ridendo. — Essi sono negri ed i negri sono schiavi!
— Io almeno non guiderò i miei marinai.
— Affidate a me l’incarico. Pembo mi darà delle guide, e per mille diavoli, nessun negro della tribù di Cassegna sfuggirà al nostro attacco.
Solilach non rispose, e tornò alla riva per recarsi a bordo, mentre il secondo e Pembo andavano a ubriacarsi nel tembè reale. Il secondo, che era già allegro, spiegava al monarca i suoi piani onde assalire il villaggio senza che nessun abitante potesse sfuggire.
Quando tornò a bordo era notte avanzata, e si reggeva difficilmente sulle malferme gambe.
Il sole non era ancora alzato, che già il secondo era in piedi per i preparativi di partenza.
Cinquanta marinai, i più vigorosi e i più risoluti, furono scelti per formare la banda di cacciatori d’uomini.
I fucili, le accette, le munizioni ed i viveri furono preparati, poi due lance furono messe in acqua, ed i cinquanta marinai poco dopo sbarcarono in mezzo alla folla dei negri.
Il secondo, fiero del comando affidatogli dal capitano, si recò da Pembo perchè gli desse una ventina di negri pratici del paese. Il monarca si guardò bene dal ricusare tale servizio, anzi invitò il suo amico a vuotare un’ultima bottiglia in compagnia.
Una mezz’ora dopo i cacciatori d’uomini lasciavano il villaggio e s’internavano sotto le fitte vòlte di verzura di una folta boscaglia.
I venti guerrieri di Pembo, armati di lunghe zagaglie, dell’azza di guerra e dell’arco, con le frecce tinte nel sottil veleno dell’euforbia, marciavano innanzi, segnando la via ed aprendo il passaggio fra le radici e le liane. I marinai, riuniti a gruppi, li seguivano nel più profondo silenzio.
Dopo due ore di marcia faticosa fra quei giganteschi e svariati alberi, la foresta si diradò a poco a poco, e le successe una lussureggiante prateria, tutta ondulata e sparsa qua e là di zenzeri gialli ed azzurri, di labelie dalla tinta pallida e di orchidee rosse. Alcuni alberi giganteschi crescevano pure qua e là, specialmente lungo i corsi d’acqua. Fra quei vegetali si distinguevano dei fichi sicomori carichi di frutta ovali, grosse quanto le noci di cocco, del salici piangenti dalle foglie lunghissime e brillanti, e dei nopali, dai quali si estrae una gomma tanto ricercata nei mercati europei, ma che i negri di Pembo non apprezzavano affatto.
A volte delle antilopi attraversavano velocemente la vasta prateria e sparivano in mezzo alle folte erbe, senza che i marinai avessero il tempo di porre mano ai fucili.
Quasi tutta la giornata il drappello marciò nella prateria, ma verso le quattro una fitta foresta sbarrò il passo. Dopo alcuni minuti di riposo, vi s’inoltrava guidato dai guerrieri di Pembo.
Colà gli elais, alberi preziosi che danno un olio assai ricercato, crescevano in gran numero assieme agli alberi del cotone, i cui steli legnosi producono un filo lungo quanto quello di Pernambuco.
Verso sera, i marinai, affranti per la lunga marcia, si accamparono sotto un enorme baobab, dai fiori bianchi e dal fogliame scuro. Sotto i suoi rami, un intero reggimento di cavalleria vi si sarebbe accampato senza difficoltà. I marinai accesero i fuochi e si misero a cenare con carne salata e biscotti.
Il secondo, dopo cena, fece chiamare uno dei guerrieri di Pembo, e gli domandò:
— Quanto abbiamo da camminare per giungere al villaggio di Bonga?
— Dobbiamo attraversare tutta la foresta, una grande prateria, e guadare un fiume. Forse fra due giorni vi saremo.
Durante la notte, i fuochi furono continuamente alimentati, precauzione indispensabile in Africa, per allontanare le numerose belve che abitano le foreste. Con tutto ciò, i leoni fecero udire più volte i loro ruggiti e le iene i loro scoppi di risa.
Sei marinai vegliarono costantemente per la sicurezza comune, e parecchie volte dovettero scaricare i loro fucili su vicini troppo imprudenti.
Alle quattro del mattino, sebbene la pioggia cominciasse a cadere, il secondo fece levare il campo, ed i cinquanta marinai con venti guerrieri alla testa si misero in marcia, attraverso una boscaglia così folta e così intralciata da liane da paragonarla all’attrezzatura di una gigantesca nave. I marinai dovevano lavorare di accetta per aprirsi un passaggio fra quei sarmenti spinosi. Talune volte però trovavano dei sentieri aperti dagli uomini o dagli animali, probabilmente dai giganteschi elefanti.
Il secondo faceva allora raddoppiare il passo, premuroso di giungere al villaggio desiderato, prima che il re negro lo abbandonasse.
— Sperate voi di giungere in tempo, — gli domandò l’ufficiale, avvicinandosi al signor Parry.
— Sì, — rispose questi, — i negri me lo hanno assicurato.
— E se Bonga avesse già preso il largo?...
Il secondo stava per rispondere, quando vide i guerrieri di Pembo fargli un gesto, come per invitarlo al silenzio, quindi nascondersi in mezzo alle folte liane.
Tutti i marinai lo imitarono senza saperne il perchè. La foresta non era più così fitta come prima, e si poteva scorgere qualche cosa ad una ventina di passi, ma nè il secondo nè i suoi uomini nulla videro e nulla udirono.
— Che abbiano veduto dei negri? — mormorò l’ufficiale volgendosi verso il secondo.
— Cosa succede? — gli domandò il secondo.
— Non saprei; spero però che ci diranno qualche cosa, — e abbandonando l’ufficiale strisciò presso il negro più vicino e lo toccò.
Il guerriero si volse, e lo invitò a rimaner immobile.
— Abbiamo udito dei rami spezzarsi dinanzi a noi. Certamente laggiù, in mezzo a quella folta macchia, vi sono dei negri, — rispose il guerriero.
— Manda due dei tuoi in ricognizione. All’occorrenza siamo qui noi coi nostri fucili.
Il negro fece un cenno affermativo col capo, chiamò un compagno, ed entrambi, nascondendosi fra le erbe e fra le radici, si misero a strisciare verso la folta macchia.
I marinai, accovacciati fra le liane, coi fucili armati e pronti a qualunque evento, aspettavano ansiosamente. Il secondo, coll’occhio attento, seguiva le mosse dei due negri, tenendo le mani sui calci delle sue pistole.
— Ascoltate, — gli soffiò vicino l’ufficiale.
Il secondo tese gl’orecchi e udì dei rami spezzarsi, poi un grido rauco, inarticolato, ma che aveva qualche cosa di umano, echeggiò. Tutti spianarono i fucili in direzione della folta macchia. Senza dubbio dei negri vi si erano imboscati.
Ad un tratto un acuto sibilo si udì in aria, poi un grido terribile rimbombò e si vide uno dei guerrieri di Pembo tornare indietro, gettando all’intorno degli sguardi smarriti.
I marinai balzarono fuori dai cespugli. Nel medesimo istante dalla fitta macchia sorsero improvvisamente quattro negri.
Scagliate alcune frecce, sparvero salutati da quattro fucilate andate però a vuoto.
— Circondiamoli, — gridò il secondo. — Cerchiamo che non ci sfuggano!
I marinai si spinsero verso la macchia, coi fucili fra le mani ed i coltelli fra i denti.
Uno dei negri di Pembo giaceva al suolo colpito in pieno petto da un colpo di lancia, però nessuna traccia si scorgeva dei suoi uccisori.
— Penetriamo nella macchia, — gridò il secondo.
— Adagio, entriamo con precauzione, — disse l’ufficiale.
Dieci marinai e dieci negri scostarono i cespugli col ferro delle lance e con le canne dei fucili, entrando arditamente nella macchia.
Un negro, armato d’una lunga zagaglia, seminascosto dietro il tronco di un albero, si teneva pronto a contendere il passo. Vedendo i marinai gettò un grido acuto, spiccò un salto da far invidia ad un’antilope, e si slanciò su un marinaio, cercando di colpirlo. L’assalito parò il colpo col calcio del fucile, poi afferrata vigorosamente la zagaglia, la spezzò in due. Il negro impugnò allora l’azza di guerra; il marinaio lo affrontò col coltello in pugno, ma sdrucciolò sull’umido terreno, e cadde.
Il negro aveva già alzato l’azza, pronto a spaccargli il cranio, quando una fucilata risuonò.
Il povero selvaggio, colpito dalla palla dell’ufficiale, cadde colla faccia innanzi, rimanendo immobile.
— Avanti! — comandò il secondo. — Laggiù vi sono degli altri negri! Attenti onde nessuno possa fuggire; devono essere le sentinelle avanzate della tribù.
Aveva appena dato quel comando, quando un secondo sparo rintonò.
Uno dei marinai aveva scorta la testa di un altro negro, sorgere fra i cespugli, ed aveva fatto fuoco. Però non era sicuro della riuscita del colpo, e temeva averlo mancato.
— Bisognerà frugare la macchia, — disse l’ufficiale, scostando i cespugli.
— Avanti, entriamo tutti in massa, — gridò il secondo.
I marinai e i guerrieri lo seguirono. La macchia fu frugata, circondata, e visitata minutamente, ma non fu trovato nulla. Alcuni alberi grossi, dei fichi sicomori, crescevano in mezzo alla macchia. Tutti gli occhi si volsero lassù, scrutando invano il fogliame.
— Dove sono fuggiti quei dannati negri? — si chiese il secondo con rabbia.
— Eccoli! — gridò un marinaio indicando alcune forme brune che sparivano fra i cespugli dalla parte opposta.
Sette od otto fucilate scoppiarono. Si udì un grido poi uno dei fuggitivi rotolò al suolo.
Tutti i marinai si diedero ad inseguire i superstiti e li videro sparire in una nuova macchia.
Alcune frecce partirono, ma il secondo coi suoi circondarono la macchia, la quale era assai vasta. Fra i fogliame si vedevano di tratto in tratto apparire qualche zagaglia, qualche braccio e qualche arco.
— Fuoco là in mezzo, — gridò il secondo, scaricando le sue pistole, nel più folto delle piante.
I marinai ubbidirono, però nessuno rispose a quella grandine di palle. Pareva che i negri fossero o morti o scomparsi nuovamente. I marinai si preparavano a stringere il cerchio, allorquando tre negri balzarono fuori improvvisamente, cercando di forzare le linee. Uno fu ucciso con un colpo di accetta, un altro fu afferrato da un marinaio e atterrato, l’ultimo però fuggì rapidamente scomparendo fra gli alberi.
Il prigioniero si dibatteva vivamente, digrignando i denti con furore. Il secondo diede ordine che lo legassero solidamente, poi comandò di rovistare la macchia per cercare anche il fuggiasco. I marinai si misero ad esplorare gli alberi ed i cespugli, senza alcun successo però. Avevano solamente trovato una zagaglia che doveva appartenere al fuggitivo.
Senza dubbio il suo proprietario aveva guadagnato il bosco o si era nascosto su qualche albero.
— Aspettate, — disse un marinaio. — Vedo lassù, seminascosta, fra le foglie, una massa nera. Che sia il nostro uomo?
— È il negro! — gridò un gabbiere, e puntando il fucile fece fuoco.
Si udì uno schianto fra i rami, ma con grande meraviglia di tutti, il negro non cadde e non fu visto.
— È ancora lassù! — gridarono i negri di Pembo.
— È nascosto fra i rami, — gridò un marinaio.
Una diecina di fucili tolsero di mira il negro che cercava salire sui rami superiori, dieci spari risuonarono, ed il disgraziato cadde in mezzo ai marinai.
Aveva ricevuto quattro palle nel petto.
— Maledizione! — esclamò il secondo. — Tanta fatica per uno schiavo solo!
E diede il segnale della fermata.