Gli scorridori del mare/18. La caccia al pirata

18. La caccia al pirata

../17. Nei mari della Cina ../19. A Borneo IncludiIntestazione 15 gennaio 2022 100% Da definire

17. Nei mari della Cina 19. A Borneo
[p. 120 modifica]

Capitolo XVIII.

LA CACCIA AL PIRATA


La Garonna, spinta da una fresca brezza si dirigeva verso est, con tutte le vele spiegate. All’equipaggio sembrava impossibile essere sfuggito a quel grave pericolo e con tanta fortuna. Ancora alcune ore di ritardo o un poco di inesperienza da parte del capitano e sarebbe stata finita per i pirati, poichè non avrebbero tardato a sentire quanto pesavano le palle delle numerose batterie del Bocatigris.

— Dannazione! — esclamò il capitano, appena si vide in alto mare. — Non so ancora come abbiamo fatto a cavarcela.

— Vedete bene, capitano, quale imprudenza sia quella di non ardere i vascelli predati, — disse il secondo. — Una volta affondati non tornano più a galla, quindi non vi è più il pericolo di averli ad incontrare ancora.

— Avete ragione, ma se mi capita ancora sotto mano quel brigantino, e riesco a riprenderlo, voglio torcere il collo a quell’indiavolato capitano.

— Sarà un po’ difficile incontrarlo ancora.

— Al forte e in fretta.

— Al forte?

— Temo di venire inseguito.

— Ma voi sapete che abbiamo intrapreso questo viaggio anche per fare un’ampia provvista di viveri. Al forte non abbondano.

— È vero, — rispose il capitano. — Dove mi consigliereste di andare ora?

— Non saprei, — disse il secondo, — ma certamente all’isola più vicina.

— Allora rechiamoci a Formosa.

— Sì, andiamo a Formosa, signore.

Il capitano fece bracciare i pennoni e la Garonna, virando di [p. 121 modifica]bordo, risalì verso il nord. Due giorni dopo il bark getava l’àncora a Taivan, la capitale della ricca e fertile Formosa chiamata dai cinesi Thai-Wan. Il capitano, non curandosi delle giunche da guerra che il governo cinese vi mantiene costantemente, discese a terra e cominciò gli acquisti. In fretta ed in furia i viveri furono imbarcati, e nella notte essi levavano silenziosamente l’àncora e costeggiando le rive occidentali dell’isola si diressero verso il sud.

Verso il mattino la nave, che continuava a costeggiare, passava in vista di un bel villaggio posto in riva al mare. La costa era deserta e il villaggio non constava che di una trentina di capanne, ma presso a queste si scorgevano dei cumuli di riso e di the riparati sotto delle tettoie, pronti senza dubbio a esser portati a Taivan.

Il capitano Parry, che se ne stava a prora, vide a colpo d’occhio il profitto che se ne poteva trarre, e volgendosi verso il secondo, disse:

— Guardate, luogotenente, quante derrate vi sono sotto quelle tettoie. L’occasione mi sembra buona per impadronirci di quei depositi, senza attendere che vadano a ingrassare gli abitanti del celeste impero.

— Infatti l’idea non mi spiace, capitano Parry.

— Quaranta uomini basteranno per tenere in rispetto gli abitanti.

Un quarto d’ora dopo due imbarcazioni cariche di uomini armati si recavano alla spiaggia, mentre la Garonna rimaneva in panna.

Gli abitanti del villaggio, vedendo quella banda di armati uscirono dalle loro capanne, ma quando s’accorsero che erano europei, rientrarono nelle loro dimore e vi si rinchiusero.

— Diavolo, non sono molto coraggiosi, — disse il secondo, che comandava la spedizione.

Coi suoi quaranta uomini circondò le tettoie ripiene di the e di riso, e cominciò bravamente il saccheggio. Gl’indigeni visto ciò, cominciarono a urlare, poi delle frecce e delle pietre volarono, insieme a qualche colpo di fucile.

Il secondo divise i suoi marinai; una parte di loro per saccheggiare, l’altra per rispondere alle offese degli abitanti.

I marinai cominciarono il fuoco, senza far gran danno, ma le pietre e le frecce cadevano sempre più fitte, ferendo non pochi uomini. Il secondo, radunati venti dei più arditi, li avventò contro una capanna la quale fu facilmente espugnata, uccidendo parte degli abitanti.

I marinai allora vi appiccarono fuoco e le fiamme, alimentate dal vento, in breve tempo si comunicarono alle altre dimore, mettendo in grave pericolo l’intiero villaggio.

Gli abitanti, temendo di morire arrostiti, abbandonarono precipitosamente le case, inseguiti da una ventina di marinai. [p. 122 modifica]

Ad un tratto lo squillo d’un corno si fece udire, e subito dopo una turba d’isolani, armata di lancie e di mazze, comparve improvvisamente sul margine d’un bosco, caricando con impeto irresistibile i saccheggiatori. Il secondo vide a colpo d’occhio che la partita era perduta. Radunò tutti i suoi uomini e difendendosi a fucilate, li guidò fino alla spiaggia, dove cominciò confusamente l’imbarco. Prima però che fosse terminato gl’isolani furono loro addosso, e tre marinai, che erano rimasti ancora sulla spiaggia, vennero atterrati dalle mazze dei selvaggi.

Le due imbarcazioni malgrado la pioggia di sassi e di freccie poterono raggiungere la Garonna la quale veniva già loro incontro. In un baleno tutti furono a bordo, e il capitano Parry, furibondo per lo scacco toccato e per rivendicare la morte dei suoi, fatta avvicinare la nave più che potè alla costa, fece scaricare i suoi più grossi cannoni carichi a mitraglia. Gl’isolani, benchè decimati, risposero bravamente con un nuvolo di sassi e di freccie, poi si ritirarono imboscandosi in mezzo ai cespugli, lasciando però non pochi morti dinanzi al villaggio.

— Tutte le imbarcazioni in mare, — comandò Parry.

I marinai già stavano per eseguire quel comando, quando si udì un gabbiere gridare:

— Capitano! due vele! due vele!

Il capitano Parry volse uno sguardo sul mare, e scorse, ad una distanza da quindici o diciotto miglia, due velieri che parevano due grossi vascelli. Imprecando, fece ritirare le imbarcazioni, fece bracciare le vele e lanciò la sua nave verso il sud, abbandonando quella costa pericolosa.

Appena vide che la Garonna teneva il vento, prese il cannocchiale, s’inerpicò sull’albero di maestra, e giunto in crocetta puntò lo strumento. Alcuni minuti dopo lo si vide abbandonare rapidamente il posto e ridiscendere o meglio lasciarsi scivolare fino sul ponte.

— Gran Dio, cosa avete? — chiese il secondo. — Mi sembrate assai inquieto.

— Vi sono delle bruttissime nuove. Credo che questa volta sia finita per noi.

— E perchè?

— Perchè due fregate c’inseguono. Se non le vinciamo in celerità, ci manderanno sott’acqua con poche bordate.

— E come sapete che sono due fregate? A questa distanza è impossibile riconoscerle.

— La loro velatura è altissima e poi ho scorto gli sportelli delle batterie. Vedrete che fra poco la fiamma rossa si svolgerà sui loro alberi di maestra. A quanto mi sembra, camminano anche più di noi. [p. 123 modifica]

— Maledetta spedizione, tutto congiura contro di noi! — esclamò il secondo con collera.

— A Canton hanno saputo che siamo pirati e chi sa quante navi si sono slanciate sulle nostre tracce.

— Ebbene, vengano pure; noi avremo palle e polvere per tutte.

— È vero, ma vorrei evitare un incontro, — disse il capitano, risalendo in crocetta.

Poco dopo discendeva: la sua fronte era corrugata e la sua faccia abbuiata.

— Diavolo, sono veramente due fregate, — disse il secondo. — Esse l’hanno proprio con noi. Mi sono già accorto che guadagnano via.

— Povera Garonna, — mormorò il secondo. — Comincia a diventare vecchia e quindi pesante e più lenta. Al tempo del capitano Solilach era ancora una delle più rapide navi.

Il capitano Parry, per consolare il danese, fece aggiungere alcuni coltellacci alla velatura della Garonna, facendole prendere un’andatura più rapida.

Durante l’intera giornata la nave corsara continuò a fuggire, sempre inseguita dalle due fregate. Quando però venne notte, queste ultime sparvero fra la nebbia della sera. Il capitano Parry cercò di approfittarne per dirigere la nave corsara verso le Filippine, sperando d’ingannare gl’inseguitori. All’indomani la Garonna si trovava in vista dell’isola di Luzon e seguitava la corsa verso il sud.

Le due fregate erano riapparse all’alba. Inseguivano con ostinazione, veleggiando a otto miglia di distanza. Durante la notte pareva avessero guadagnato solamente qualche nodo.

Tre giorni trascorsero così, sotto un vento impetuoso del nord. La Garonna si trovava allora nelle acque di Mindanaco con le due fregate a tre miglia soltanto. Il quarto giorno cioè il 5 luglio, il capitano Parry decise di fare, durante la notte, rotta falsa.

Il momento era propizio, essendosi il cielo coperto di nuvoloni. Dopo il tramonto del sole, le tenebre erano diventate così fitte da non potere discernere una costa od un isolotto alla distanza di duecento passi. Tutti i lumi furono spenti a bordo della nave pirata, poi verso la mezzanotte essa virò di bordo dirigendosi verso la Cocincina.

Tutta la notte la Garonna veleggiò verso quella terra, e già i pirati si rallegravano di aver giuocate le due fregate, quando al mattino, con loro grande disperazione, le videro a meno di due miglia di distanza. I capitani delle due fregate, senza dubbio due esperti lupi di mare, avevano indovinata la rotta falsa del pirata e si erano avvicinati, tagliando in linea retta invece dell’angolo descritto dalla Garonna.

Però il capitano Parry non si perdette d’animo, e decise giuocare il suo ultimo colpo. [p. 124 modifica]

La Garonna virò di nuovo e tornò al vento fuggendo verso l’isola di Palavan. Le due fregate eseguirono la stessa manovra e l’inseguimento ricominciò con maggior accanimento.

Verso sera la Garonna si trovava a poche miglia dalla punta meridionale dell’isola. Il capitano Parry, invece di volgere la nave verso sud, mosse diritto verso le innumerevoli isolette che si stendono in quella direzione. I capitani delle due fregate, credendo che il pirata trovandosi alle strette, cercasse sbarcare, aggiunsero alle loro navi alcuni velacci per accelerare la corsa e giungere così in tempo per mandare a picco nave e pirati. Il capitano della Garonna aveva però tutt’altro pensiero che quello di sbarcare: egli giuocava il suo ultimo colpo.

Conosceva a perfezione l’isola di Palavan e sapeva che fra la punta estrema di questa, le scogliere, l’isolotto e l’isola di Balalah si estendeva un lungo banco di sabbia, a soli quattro metri sotto il livello d’acqua, il quale congiungeva tutte quelle isolette e quelle scogliere.

Egli prese il partito di avventare la sua nave sul banco, certo che l’avrebbe superato senza incagliarsi, mentre le due fregate, essendo la loro immersione assai maggiore, difficilmente avrebbero potuto farlo.

L’inseguimento continuò con foga senza pari; la Garonna volava verso il banco, mentre le due fregate la seguivano.

Alle nove la nave corsara non distava che trecento metri dalla secca; le due fregate ne distavano appena seicento. Il capitano Parry afferrò la ribolla del timone, avventò la sua nave verso il banco di sabbia, e lo sorpassò come un dardo. La Garonna era felicemente passata, non avendo tracciato che un leggero solco fra le sabbie.

Quasi subito a bordo della prima fregata si udirono delle urla di terrore, poi avvenne uno schianto terribile: alberi ed attrezzi eran caduti sul ponte, mentre urla di rabbia e di dolore si levavano fra l’equipaggio.

L’altra fregata aveva però avuto il tempo di virare di bordo evitando la catastrofe.

Vedendo che la Garonna era ancora a portata di cannone, le scaricò addosso tutte le artiglierie di babordo, spezzandole una parte dei pennoni e delle murate.

La nave corsara rispose tosto con una bordata non meno tremenda, poi continuò la corsa, lasciando che le due fregate si salvassero alla meno peggio.

Durante la notte i pirati si occuparono a sbarazzare il ponte dai cadaveri e dai rottami dell’alberatura, poi esaminarono i danni sofferti.

La bordata della fregata era stata disastrosa pel povero veliero del capitano Solilach. L’albero di mezzana, offeso in più parti, era [p. 125 modifica]pericolante; il cassero, le murate e il ponte di comando erano stati distrutti, il timone danneggiato da due palle minacciava di mancare da un momento all’altro, e dodici uomini mancavano all’appello.

I danni causati da quella pioggia di ferro erano così gravi, da chiedere una pronta riparazione, cosa però difficilissima, giacchè era impossibile ritirarsi in un porto fornito di cantieri. Il capitano e il secondo si trovavano imbarazzati.

— Per mille tuoni! — esclamò Parry. — Ove dirigerci ora? Su quale porto appoggiare?

— Non pensate ai porti, — disse il secondo. — Ci sarebbe troppo pericolo a cercare rifugio in qualche città marittima, dopo l’inseguimento delle due fregate.

— Lo so, ma dove trovare un luogo abbondante di legname, che sia deserto e sicuro.

— E bisogna trovarlo anche subito, capitano Parry, poichè il timone può mancare da un istante all’altro e non ne abbiamo un altro per surrogarlo. E poi, pensate cosa accadrebbe della Garonna, se una burrasca ci cogliesse.

— Sarebbe perduta. Ah!... So dove recarci per avere legname in abbondanza.

— Siamo lontani da quella terra?

— Non molto.

— Per dove faremo rotta adunque?

— Per l’isola di Borneo.

— La scelta è buona, capitano. Borneo è un’isola in gran parte deserta, ricca di foreste superbe che possono dare eccellenti legnami da costruzione e poi le coste settentrionali non sono lontane.

Pochi minuti dopo la Garonna virava di bordo dirigendosi verso quell’isola, della quale si cominciava già a intravedere il gigantesco Kini-Belu, un altissimo monte, la cui vetta è quasi sempre coperta di nubi. La nave che filava a non più di tre nodi all’ora non distava dall’isola più di quaranta miglia ed i pirati già contavano di giungervi felicemente, quando le nubi che nascondevano il picco di Kini-Belu cominciarono a coprire il cielo, mentre il vento quasi di colpo raddoppiava di violenza facendo diventare il mare gonfio.

La Garonna, vivamente sbattuta e inondata da tutte le parti a causa delle sue murate infrante, penava a tener la buona direzione, mentre il timone, da un momento all’altro minacciava di spezzarsi.

Pure durante l’intera notte tenne abbastanza bene il mare, però verso il mattino, quando non distava dall’isola più di quindici miglia, si udì ad un tratto la voce del timoniere gridare:

— Capitano, il timone è scomparso!

A quel grido, tutto l’equipaggio si precipitò a poppa per accertarsi coi propri occhi della grave disgrazia. La rottura del timone è [p. 126 modifica]il peggior malanno che possa toccare ad una nave, e i pirati ben sapevano ciò.

Lo spavento cominciò a infiltrarsi negli animi di tutti, vedendo l’isola di Borneo cinta da irte scogliere, le quali parevan correre incontro alla nave. Anche il capitano Parry era diventato preoccupato non sapendo in qual modo surrogare il timone. La situazione poteva diventare spaventosa; il pericolo incalzava vivamente. Due uomini soli parevano contenti e soddisfatti: questi erano Banes e il negro Bonga. Speravano che l’ora della vendetta fosse vicina, però fu una speranza di breve durata. Il capitano Parry che fino allora non aveva pronunciato una sola parola, ad un tratto gridò con voce energica ed imperiosa:

— Ai vostri posti! Se il timone si è spezzato ne faremo un altro che governerà quanto il primo.

Ordinò che si portasse sul ponte un pennone di fortuna ed a una delle estremità vi fece inchiavardare due larghi pezzi di legno, in maniera da formare una specie di lungo remo.

Alla pala vi fece appendere qualche palla di cannone poi la fece spingere in mare, facendo legare l’estremità alla murata di poppa.

Un giuoco di boscelli attaccati alle due murate era sufficiente per far agire il remo sia verso babordo, che a tribordo, a seconda che si voleva dirigere la nave. Terminato così l’ingegnoso apparecchio, il capitano Parry ne fece la prova e con sua viva soddisfazione vide che la Garonna virava di bordo colla solita facilità.

A quella vista un applauso prolungato scoppiò fra l’equipaggio il quale non si aspettava di certo un così felice risultato che lo salvava da una certa catastrofe.