Gli amori pastorali di Dafni e Cloe/Proemio dell'editore

Proemio dell'editore

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Longo Sofista - Gli amori pastorali di Dafni e Cloe (III secolo)
Traduzione dal greco di Annibale Caro, Sebastiano Ciampi (XVI secolo)
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PROEMIO DELL’EDITORE




Il romanzo di Dafni e Cloe dee leggersi una volta l’anno, diceva Goethe; ma questo romanzo, direm noi, si fa da ciascuno una volta sola nella vita.

È il destarsi dei sensi, l’ingresso all’amore. La casistica cattolica vorrebbe opporsigli; ma con queste sue vive opposizioni spesso, senza volerlo, fa quel che Licenia fece con Dafni.

Il Villemain, con la solita eloquenza, oppone gli amori cristiani di Paolo e Virginia a questi pagani dei due pastori; ma Emilio Montègut gli dimostra bene che gli uni son l’eccezione, gli altri la regola.

Piace tanto il riandare questa nascita del piacere che Leopoldo Burthe, morendo, tratteggiava con ispirito le avventure di Dafni e Cloe, ed Hetzel, morto il disegnatore, giovane troppo, ne ornò una splendida ristampa della versione di Amyot. (Paris, 1862. in foglio). Noi le facemmo illustrare da nostri artisti, meno splendidamente; ma per avventura assai argutamente.

Il Caro condusse la sua versione sopra un testo a penna, e questa è buona ragione per [p. vi modifica]perdonargli più facilmente una parte almeno degli errori in cui possa essere in corso. La cominciò, nota il suo primo editore, l’Innominato o Francesco Danieli di Napoli, nella sua fresca età di forse trent’anni, facendone menzione in una sua lettera a Benedetto Varchi in data del 10 gennaio 1538; età confacente alla letizia di questa storia.

Il Caro aveva una bozzaccia della sua versione di Longo, che si serbava a rivedere e a riscontrare a suo modo col greco, e questa prima copia fu probabilmente il testo della descrizione e meglio trascrizione della favola greca, stampata da Gio. Battista Manzini in Bologna l’anno 1643. Il Napione fu il primo a subodorare il furto mal celato dal ladro, meno fermo ai morsi della coscienza che il giovane spartano a quelli della volpe, ch’avea in seno; Sebastiano Ciampi ne diede le prove, e mostrò che il ladroneccio aveva giovato a qualcosa, conservando sincera la lezione in alcuni luoghi guasti o travisti nel testo che servì alla prima edizione della corretta versione del Caro, presso il Bodoni nel 1786 in 4.° Il Ciampi le correzioni più chiare, somministrate al plagiario, inserì francamente nel testo; le meno segnò in nota, e noi abbiamo fatto come lui.

Pietro Giordani parlò di Longo e de’ suoi traduttori. (Opere, T. XIV, Milano, Sanvito 1863) «Il greco, egli disse, ha un’eleganza artificiosa; graziosissimo brio il Caro; il nostro Gozzi ci ha messo della dignità e dell’armonia. Io più preferisco l’amabile semplicità di Amyot... [p. vii modifica]cinquecentista francioso della stirpe de’ nostri trecentisti. E soggiunse d’Amyot «Di carissima semplicità supera il nostro marchigiano e supera anche il greco.»

Il Giordani non lodava gli arbitrj presi nel condurre questa versione dal Caro, il quale perchè non uscendo dal greco gli tornava cosa secca, l’aveva ingrassata con di molta ciarpa e rimesso e scommesso in molti luoghi. «Io per me, diceva il piacentino retore, i greci e i latini li vorrei tradotti come il Seneca e il Dionigi (volgarizzati da lui!). Non comporto questo volerli slargare, abbellire, commentare, traducendo... oh, quel greco meriterebbe veramente una traduzione fedelissima; e io la farei volentieri!»

Se non che temiamo che non l’avrebbe nè vinta nè impattata col Caro, avendola perduta con lui Gaspare Gozzi, che fu l’erede proprio della festività e gentilezza del suo stile. Nel 1766 per le nozze Barziza e Venier, uscì in Venezia presso Modesto Fenzo la versione del veneziano, che non fece come il Caro, il quale si compiacque negl’ignudi, e rubò alcuna cosa all’immaginazione dell’Aretino per illustrarli, come nella lezione di Licenia, esempio delle moderne nobili attempate spupillatrici — Il Gozzi velò le parti disoneste; il che tuttavia è segno della coscienza di peccati commessi e di tempi rei, se crediamo alla Bibbia; egli poi modificò sì bene, dice il Ciampi, il fatto del parassito Gnatone, che può anche anteporsi all’originale. Se non che l’originale perde così la sua verità greca, che era [p. viii modifica]tutt’altro che gentile; ma alla quale, chi voglia leggere i greci, dee adattarsi, accogliendo le interpretazioni platoniche, per non sentirne stomaco.

Tra gli strepiti e i fulgori napoleonici una macchia d’inchiostro in un codice laurenziano, già dei Monaci della Badia di Firenze, mise a rumore la Francia e l’Italia. Paolo Luigi Courier, che come il nostro Foscolo accoppiava gli studj della greca erudizione e della guerra, scoperse in quel codice il frammento desiderato di Longo, e vi versò poi su, diceano gl’italiani, un inchiostro indelebile per essere il primo e l’ultimo a leggerlo. Il Del Furia, che aveva avuto lungamente per mano quel libro, ed alluciatovi soltanto alcune favolette antiche imprecò forse al francese quella morte che egli incontrò poi nei suoi campi, per ire borboniche, clericali od uxorie. Se non che il francese crivellò di facezie il Del Furia, che si dovè contentare di alcune varianti che il famoso pâté d’encre, impallidendo talor di pietà, gli concesse.

Per la versione del ritrovato frammento di Longo, noi con tutti i recenti editori prescegliemmo quella del Ciampi, sebbene l’Arcadia di Roma, al concorso tenutosi per opera del Courier assegnasse la corona ad Alessandro Verri, all’enfatico autore delle Notti romane, come più vicina allo stile del Caro. L’Arcadia non aveva l’oro, ma aveva l’orecchie di Mida.

Il supplimento del Caro, dice il Ciampi, non presenta nè quel sentimento, nè quella relazione col tutto, che nel supplimento originale [p. ix modifica]ravvisiamo, il quale in ogni sua parte veramente festinat ad eventum, ove che quello del Caro divaga, nè mira così dritto allo scopo, contenendo soltanto una serie d’azioni isolate, che poco o niente si riferiscono all’intreccio ed allo sviluppo di tutta la favola, che ha condotta ed unità, e non pecca tanto nel maraviglioso, nella complicazione degl’incidenti, e nel ricercato, come i più degli altri erotici romanzi greci.

Notò bene il Montégut che nel libro di Longo si mescolano la pastorale e la commedia mezzana; i campi e la città, e che i campi vi fanno miglior figura. Difatti i cittadini espongono i propri figli; i contadini raccolgono ed allevano gli altrui; i contadini lavorano ed ammassano; i cittadini vanno a rubare l’ammassato; Dorcone e Lapo eccedono nell’amar la Cloe; ma l’uno fa buona emenda, l’altro rapisce a buon fine; ma quel vile e sozzo parassito di Gnatone è un prodotto della città, e le sue sconce voglie fanno stupore nell’innocenza dei campi. Anche la Licenia è una Crezia rincivilita; ha imparato la corruzione in città. Che è mai quel Dionisofane comparato al vecchio Fileta, Nestore campagnuolo, e che mai quell’Astilo allevato in città al Dafni che per ventura fu esposto e tirato su tra i pastori, dalla cui vita e costumi non si sa dipartire fatto ricco e nobile? Longo ha certamente voluto mostrare il contrasto delle due vite, e non ebbe bisogno di andare in Germania come Tacito per far arrossire i romani, perchè i romani avevan corrotto anche i campi.

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Anche notò il Montégut che Dafni e Cloe son due essere viventi e pur tipici; e che i moderni ne avrebbero fatto o due individui particolari o due esseri allegorici e freddi. Il più monello come il più santo giovinetto si ravvisa in Dafni e ogni casta giovinetta nella Cloe, che tace solo a Dafni il bacio di Dorcone per mostrare che ogni donna, e sia la più ingenua, ha da celare qualcosa.

Il Caro (n. 1507, m. 1566, e Jacopo Amyot n. 1513, m. 1593), furono dello stesso secolo, o son de’ pochi che ebbero fama, anche presso gli stranieri, con le traduzion in propria lingua (perché i lavori originali del Caro, sì idiomatici, sono più inaccessibili agli stranieri che la sua Eneide). Il Montégut disse che l’Amyot aveva versato il liquor greco non già in un’anfora di stecchita eleganza, ma in un bel vaso smaltato del Risorgimento. Del Caro si può dire il medesimo; senonchè la lingua francese del secolo decimosesto essendo caduta d’uso, Amyot pare più ingenuo. Il Caro non ha l’ingenuità dell’arcaismo; ha più raffinamento d’Amyot, come in quell’approdò in seno alla Cloe che piaceva e spiaceva al Giordani; ma egli ha preso l’oro greco e ne ha cesellato un vaso da farne invidia al suo amico Benvenuto; e il Longo è una di quelle sue traduzioni per cui egli fu uno degli scrittori più originali e più diletti d’Italia.

Carlo Téoli.