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siamo, il quale in ogni sua parte veramente festinat ad eventum, ove che quello del Caro divaga, nè mira così dritto allo scopo, contenendo soltanto una serie d’azioni isolate, che poco o niente si riferiscono all’intreccio ed allo sviluppo di tutta la favola, che ha condotta ed unità, e non pecca tanto nel maraviglioso, nella complicazione degl’incidenti, e nel ricercato, come i più degli altri erotici romanzi greci.

Notò bene il Montégut che nel libro di Longo si mescolano la pastorale e la commedia mezzana; i campi e la città, e che i campi vi fanno miglior figura. Difatti i cittadini espongono i propri figli; i contadini raccolgono ed allevano gli altrui; i contadini lavorano ed ammassano; i cittadini vanno a rubare l’ammassato; Dorcone e Lapo eccedono nell’amar la Cloe; ma l’uno fa buona emenda, l’altro rapisce a buon fine; ma quel vile e sozzo parassito di Gnatone è un prodotto della città, e le sue sconce voglie fanno stupore nell’innocenza dei campi. Anche la Licenia è una Crezia rincivilita; ha imparato la corruzione in città. Che è mai quel Dionisofane comparato al vecchio Fileta, Nestore campagnuolo, e che mai quell’Astilo allevato in città al Dafni che per ventura fu esposto e tirato su tra i pastori, dalla cui vita e costumi non si sa dipartire fatto ricco e nobile? Longo ha certamente voluto mostrare il contrasto delle due vite, e non ebbe bisogno di andare in Germania come Tacito per far arrossire i romani, perchè i romani avevan corrotto anche i campi.