Gli amori/Le cicatrici
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LE CICATRICI
Le nuove pagine del giornale di Ermanno Raeli che ultimamente io le trascrissi non le sono dunque piaciute, incontentabile amica, quanto le prime. Me l’aspettavo. Non vi si parlava di poesia, una signora vi era agguagliata ad una semplice mercenaria: ella quasi ritoglie pertanto alla memoria del povero amico mio la stima che prima gli aveva concessa.
Per vero dire ella si degna di ammettere l’esattezza dell’equazione morale di Ermanno, ma teme che, «secondo il solito,» da un caso particolare io tragga conseguenze troppo generali. Si rassicuri: se un tempo caddi in questo errore, dopo che ella m’ha dato sulla voce starò più attento e andrò più cauto. Io non affermerò, per non farle dispiacere, che quasi tutte le signore galanti somigliano troppo alle mercenarie; dirò invece che, alle volte, c’è delle mercenarie che valgono più delle signore galanti...
Per fortuna, molte centinaia di chilometri ci dividono, e se io le faccio rabbia, sono, come direbbe un artigliere, fuori del tiro della rabbia sua. Il meno che potrebbe capitarmi, se invece di scriverle queste cose glie le dicessi, sarebbe d’esser messo alla porta. Ma forse ella non spingerebbe fino a tanto lo sdegno; come non l’ha finora spinto fino a rimandarmi indietro, senza leggerle, queste mie lettere. Loro signore hanno una passione irresistibile che si chiama curiosità. E’ naturale: poichè non conoscono, e non possono e non debbono conoscere certi fatti umani, i fenomeni sociali troppo tristi, le miserie, le vergogne, le piaghe, tutto il lato della vita che resta nell’ombra e nel mistero, ma del quale presentono l’importanza, sono cupide di saperne qualcosa dagli uomini, la cui molteplice e libera esperienza non ha secreti. Non dico che se la gente sapesse di che cosa le scrivo ella non m’ingiungerebbe di smettere; ma — sia sincera! — poichè nessuno sa gli argomenti delle mie lettere, ella se ne sdegna, va bene, ma poi le aspetta curiosamente.
Già una volta io dovetti parlarle d’un luogo che i chinesi chiamano poeticamente barca di fiori, ma dove di poesia non ce n’è punta. Le vicende di questa nostra discussione epistolare mi fanno andare un’altra volta là dove il grande Poeta di cui non potei dirle il nome fece la veglia dell’arme. Senza dubbio le sciagurate che popolano queste case hanno perduto quasi sempre le ultime vestigia dell’umana dignità e sono oggetto di orrore e di ribrezzo; ma non possono esse talvolta ispirare un altro sentimento, tutto caldo, tutto cristiano, il sentimento della pietà? Quando la loro miseria sembra inguaribile, non possono esse dar prova che erano degne d’un meno infame destino?....
Io le narrerò quel che accadde una volta ad un altro poeta, non grande come l’Anonimo, ma certo non infimo. Ella non dirà così che nelle mie lettere non c’è mai poesia. Quest’altro sognatore, adunque, una sera che i fumi del vino gli avevano annebbiato il cervello, si trovò non solamente incapace di resistere agli incitamenti della chiassosa compagnia con la quale aveva banchettato, ma perfino di giudicare dove fosse e che cosa facesse. Se, nella prima gioventù, arso di amore, egli non aveva troppo badato, come tutti gli altri uomini, al bicchiere nel quale dissetavasi; con gli anni era divenuto molto riguardoso, e le nobili amicizie nelle quali aveva attinto alte ispirazioni lo avevano per sempre distolto dagl’impuri piaceri che un tempo erano per lui amari argomenti di torbidi canti. L’arte sua, da principio degna d’un orgiastra, impudica, satanica, piena di volute reminiscenze baudeleriane, erasi purificata; egli rideva ormai dei suoi antichi atteggiamenti e non comprendeva perfino come avesse potuto trovar materia d’arte — d’un’arte sia pure corrotta — nelle case del vizio. Senza dubbio i ricordi delle letture, le imagini rettoriche delle quali la sua mente era popolata, e non già le dirette impressioni della realtà avevano alimentato la sua antica produzione; mutata ora la disposizione del suo spirito, egli era certo che dove un tempo aveva trovato creature diaboliche, tragiche vittime o dolenti sorelle; dove aveva scoperto l’antitesi della carne impura e dell’anima vergine, dell’oro e del fango, del riso e del pianto, non avrebbe rinvenuto altro che la più vile stupidità. Senza sua volontà, pertanto, anzi a propria insaputa, si destò quella sera accanto a una donna che gli aveva gettato le braccia al collo, una creatura bella e strana ad un tempo, grande, forte, con una testa che pareva sbozzata nel marmo, a larghi tratti, rassomigliante tutt’insieme a qualche animata statua della cacciatrice Diana. Ma la fredda e quasi scultorea espressione del viso era animata dagli occhi azzurri, dolci e ridenti come un celeste spiracolo. I capelli castani, crespi, foltissimi e corti, le mettevano sulla nuca come un casco enorme ed opprimente; una lunga veste azzurra, stretta alla cintura, stretta ai polsi, pudicamente copriva tutto il suo corpo ed era appena aperta intorno all’attaccatura del collo, tanto tuttavia da lasciar scorgere, sulla pelle bianchissima, la riga esile ed ancora un poco più bianca d’una cicatrice.
— Che è questo? — domandò il poeta quando si fu liberato dall’abbraccio e per vincere in qualche modo l’imbarazzo al qual’era in preda.
— Non vedi? — rispose ella con un forte accento esotico sgraziato a udire ma che si traduceva plasticamente in un vezzoso atteggiamento delle labbra ed era, insomma, una stranezza di più. — Non vedi? Una cicatrice. E’ stato un colpo di coltello: potevo morirne. Trapassò il polmone; quando fui guarita stetti tanto tempo tossendo. Il mio amante mi fece questo, per gelosia; mi voleva bene!
E mettendo tratto tratto una mano sulla spalla del suo cliente, costringendolo a prestarle attenzione, esclamando: «E senti!... e ascolta!...» narrò la storia. L’amante suo, al quale non faceva senso la rivalità di tutta la folla, aveva impeti di cruccio violento se ella accordava un sorriso o se rivolgeva più spesso la parola o se stringeva più forte la mano a qualcuno, al primo venuto. Le voleva proibire di muoversi, di parlare, di guardare! Proibirlo a lei che s’era ridotta a quella vita per non aver potuto tollerare l’obbedienza, che aveva abbandonato il marito per non soffrire il suo dominio, per esser libera di fare quel che le pareva?... E, da principio, l’amante non se la prendeva tanto con lei quanto con gli uomini dei quali era geloso: metteva mano alle armi per impaurirli e indurli a smettere. Quando ebbe dato e ricevuto molti colpi di bastone e di rasoio, s’accorse che sbagliava strada, che non doveva prendersela con gli altri ma con lei stessa. E allora cominciarono le minaccie terribili di morte e di sfregio. Non le parlava più se non con il coltello in mano, tenendola afferrata per il collo, facendole sentire il freddo della lama sulle guance, sulla gola, sul seno, alzando continuamente il braccio in atto di ferire. Ed ella esclamava: «Su, vediamo se sei buono!... Andiamo, presto!... Ma su!...» E poichè egli non riusciva a compiere le minacce, ella gli consigliava compassionevolmente: «Vattene, piuttosto, e non ci tornare più... Non è affar tuo!... M’hai seccato, insomma!...» Finchè un giorno che le aveva ingiunto con più furore di smetterla e che ella gli aveva risposto con maggiore durezza: «No! Vattene, se non ti piace! Ammazzami, se sei buono!...» egli aveva gettato un grido, affondando l’arma con tutte le sue forze. Subito dopo s’era messo a fare come un pazzo e a piangere come un bambino, credendola morta; ma ella lo aveva costretto a fuggire, a nascondersi; e aveva asserito d’essersi ferita cadendo, e lo aveva salvato dalla galera e dalla fame, togliendosi il pane di bocca per sovvenirlo nel rifugio da lei stessa procuratogli.
La narrazione di questo amore fatta con grande volubilità, divagando, sorridendo, cantilenando, procurò un gran senso di freddo al poeta, il quale, interamente tornato in sè, avrebbe pagato qualche cosa per essere fuori di quel luogo e lontano da quella creatura. Come doveva esser mostruosa, se l’amore non l’aveva redenta!... Ma imbarazzato più d’un adolescente alla sua prima scappata, egli non sapeva ancora come fare per andarsene, quando la donna, credendo esaurita la curiosità di lui, si mise a cantilenare:
Amour, mystérieux oiseau?
e cominciò a slacciarsi il corpetto. Allora egli scorse, sulla mammella destra, in prossimità del capezzolo, un’altra riga più piccola, un’altra cicatrice più bianca, più sbiadita, appena notabile sull’avorio della pelle; la cicatrice d’un’altra ferita meno grave ma molto più antica.
— E questo? — domandò, punto da una malsana ma prepotente curiosità dinanzi a quella turpe carne crivellata. — Un altro colpo di coltello?
La donna rispose, sorridendo un poco:
— Oh, no! Un’operazione dolorosa, un taglio che dovettero farmi, al primo latte.
— Hai avuto figliuoli?
— Due.
E riprese a narrare. Uno l’aveva avuto col marito, dieci anni addietro; il secondo dopo. Suo marito era matto per quel bambino, ed anche per lei; a segno che, dopo la sua prima fuga con un ufficiale, la riprese in casa quando costui la lasciò. Ma ella era insofferente del giogo coniugale, e la rischiosa avventura e il perdono ottenuto, invece di persuaderla a restarsene tranquilla, la spinsero a ricominciare. E una seconda e una terza volta il marito innamorato la riprese con sè, la sottrasse alla fame, all’ultima perdizione. Si stava bene in casa di lui; era un armatore inglese venuto a stabilirsi a Marsiglia, e faceva molti affari; non le lasciava mancar nulla. Ma qui a bu boira, n’est-ce pas? ed una volta ancora ella scappò, facendo però in modo da non poter essere più rintracciata. Venne in Italia sotto falso nome, errò di città in città, ebbe amanti d’un anno e d’un giorno; finchè, piena di debiti, sul punto d’ammalare d’inedia, cadde in mano degli sfruttatori.
— E tuo marito, — domandò il poeta, — non sa più dove sei?
— Mai più.
— Se lo sapesse?
— Verrebbe a riprendermi.
— Perchè non glie lo dici?
— Per non tornare con lui.
— E i tuoi figli?
— Morti.
Il poeta non domandò più nulla. Il senso di freddo gli serpeggiava più acuto per il corpo. Quella creatura era stata madre, e neppure la maternità era valsa a salvarla! I suoi bambini vivi non l’avevano trattenuta sulla via dell’abbiezione, la memoria degli innocenti morti non la faceva neppure arrossire. A che punto era dunque discesa? E preferiva l’orrore di quella vita al perdono del marito, alla pace della famiglia!... Ma che marito! Ma che figli! Il poeta se la prendeva con sè stesso per l’ingenua e sciocca credulità della quale aveva dato prova. Esisteva un uomo capace di perdonare tante volte, di pensare ancora a quel mostro in forma umana? Non era tutta un’invenzione suggerita dall’idea d’interessar la gente, di farsi credere meno ignobile e infame, ma che otteneva invece il risultato precisamente opposto? Non sapeva egli che non bisogna credere neppure una parola di tutto ciò che queste donne dicono? Come s’era lasciato prendere dalla spudorata menzogna? Ed aveva anche creduto la storia della coltellata per gelosia, della romantica rinunzia alla vendetta e degli aiuti prestati all’assassino! La coltellata era vera, poichè esisteva la cicatrice; ma chi sa in qual rissa glie l’avevano data, per qual rifiuto di pagamento!...
Tutto ciò, frattanto, invece di scemare la curiosità del poeta, l’aveva accresciuta. Persuaso dell’infamia di quell’essere, egli voleva vedere, giacchè c’era, fin dove arrivava. E poi, da esatto ragionatore, egli avvertiva una mancanza di logica in tutta quella storia. Ella aveva detto che in casa del marito stava bene; riconosceva dunque che adesso stava male? Ed asseriva d’aver affrontato tante miserie per amore della libertà; ma non era invece riuscita a piombare nella soggezione più vile?... E poi, quegli occhi dolci e ridenti mentivano anch’essi? La nobiltà quasi di statua divina di quella figura mentiva anch’essa?... Allora, quantunque si fosse proposto di non domandare più nulla, si decise a fare un’altra domanda — l’ultima, a suo giudizio.
— Sei dunque contenta di quel che hai fatto?
Subitamente, negli occhi della donna che il curioso mirava, passò qualche cosa; la loro limpidezza s’offuscò come uno specchio d’acqua s’intorbida per un’agitazione improvvisa.
— Sei contenta di esserti ridotta qui? — ripetè egli giacchè non otteneva risposta.
— Piango tutti i giorni, — ella disse.
Ma la sua voce era calma, uguale a quella con la quale aveva detto le altre cose, forse appena più sommessa; e il poeta, incerto un momento se credere o no, fece come per alzare le spalle. Che sciocco! Come mai gli era venuto in mente di fare simili domande? Non gli restava in verità che mettersi a predicare per convertire la pecorella smarrita e dirle, a mo’ d’esempio: «Figlia mia, pensa alla vita eterna, e pentiti!...» Ed a quell’idea fu preso da una voglia matta di ridere.
La donna frattanto, senza dir nulla, s’era sbarazzata del corpetto; le braccia bianche, delicate ed esili come quelle d’una fanciulla, apparvero nude. Subitamente il poeta fece un atto di raccapriccio, esclamando:
— Che è questo?
Il braccio sinistro era tagliato in due punti da due orribili cicatrici, un poco più su del polso e dalla parte del gomito: due tagli larghi ed irregolari, che pareva fossero stati fatti con uno strumento dentato, o poco tagliente, o tenuto con mano tremante; due ferite a stento rimarginate, simili a due rozze cuciture sulla viva carne, ed ancora accerchiate da due grandi chiazze paonazze.
— Chi ti ha fatto questo? — ripetè il poeta inorridito e impietosito ad un tempo, sentendosi finalmente stringere il cuore da un moto d’umana simpatia dinanzi a quella creatura che aveva esaminata con la nauseata freddezza d’un medico dinanzi a un cadavere.
La donna rispose, sorridendo un poco di quell’orrore e di quella pietà:
— Nessuno; mi sono tagliata da me. Volevo segarmi le vene, e non ci sono riuscita. Vuol dire che questo è il mio destino.