Gli amori/Un'equazione morale
Questo testo è incompleto. |
◄ | L'affare dei quattrini | Le cicatrici | ► |
UN’EQUAZIONE MORALE
Mia buona amica,
Precisamente: una punta di volgarità, da parte d’una creatura eletta, ferisce tanto, quanto conforta un senso di delicatezza da parte di un’avvilita creatura. Ella dice ch’è strano? Scusi, perchè? La stessa idea di paragonare una signora con una mercenaria le pare sconveniente e indegna. In generale, sì, ha ragione; ma non mi ha già concesso, altra volta, che vi sono signore delle quali bisogna proprio dire che hanno sbagliato mestiere? Ella mi vorrà da un altro lato concedere che, se la più gran parte, anzi la quasi totalità delle mercenarie meritano il loro avvilimento, ce n’è pure qualcuna che era degna di miglior sorte. Ora, secondo che le signore galanti si degradano e che le mercenarie s’innalzano, la distanza che le separa tende naturalmente a sparire e le differenze si riducono tutte esteriori e trascurabili, fino al punto da giustificare la curiosa impressione che provò una volta il mio amico Raeli. Trascrivo ancora una volta dal suo Giornale di bordo:
«—... Tanto, proprio tanto piacere. Vi avevo già visto altre volte, da lontano, insieme con quel vostro amico, quel magro, biondo — toscano, credo? — e avevo domandato di voi ai comuni conoscenti. Mi rincresce solamente di una cosa: vado via domani! Guardate che assedio: tutta la roba sottosopra. Ma come si fa! Del resto, non conta: c’incontreremo certo in qualche altro posto. Io vado a Milano, per le feste di Maggio: è la stagione brillante. Poi sarò a Genova; in settembre partirò per l’America del sud, dove farò un teatro. Canterò la Carmen, una parte che mi va. L’ho studiata molto, con pazienza, con amore, sotto la direzione del maestro Brunetti: lo conoscete? Fino a ieri avevo ancora il pianoforte, pagavo trenta lire il mese d’affitto. Qui a Roma è tutto d’un caro! Pago centosessanta lire il mese, per questo quartiere: l’anticamera e la sala che vedete, la camera lì, con lo spogliatoio dietro; da questa parte la stanza da pranzo e la cucina, delle quali intanto non so che farmi, perchè vado sempre fuori a desinare. Vorrei farvi sentire qualche cosa, ma come si fa? Avervi conosciuto un poco prima! Non ho una gran voce; oh, proprio no; ma lo studio aiuta tanto; e poi faccio assegnamento sull’azione scenica, sull’espressione drammatica. E’ una parte brillante, elegante, che s’attaglia alla mia natura tutta fuoco e brio. Non vi pare?»
«Io non avevo potuto ancora pronunziare una sillaba, tanta foga metteva nel parlare la mia compagna. Era una creatura alta e bionda — ma d’un biondo innaturale — e di forme vistose, ed anche bella in viso; d’una bellezza tuttavia un po’ dura e forte che rivelava, con l’accattata eleganza dell’abito e degli atteggiamenti, la nativa volgarità. Ma andavo io precisamente in cerca di nobiltà, in quelle camere mobiliate molto più volgari della persona che le abitava?... Benchè fosse giovane, non si poteva giudicare esattamente dell’età di costei: aveva forse venticinque anni, forse trentacinque. Le braccia, nude dal gomito in giù, e le mani spoglie anch’esse dei guanti, erano fresche come quelle d’una fanciulla; ma la carne del viso, troppo matura e quasi macerata, riconosceva dai cosmetici il colorito e la finezza. Sotto l’ala grandissima d’un gran cappello di paglia sontuosamente impennacchiato di rosso, gli occhi grigi, slavati, acquistavano una fattizia vivacità grazie al bistro del quale eran tinte le occhiaie e al nero artificiale delle sopracciglia. Un violento profumo di Jockey-Club sprigionavasi dall’abito rosso e giallo dove le linee del taglio di moda erano esagerate fino alla stravaganza. A ogni moto del capo le grosse buccole di brillanti — o di strass? — mandavano fiamme multicolori.
«— Io ho sempre avuto, — continuava ella frattanto senza darmi tempo di rispondere un monosillabo, — una grande inclinazione, una vera passione per l’arte. Ah, l’arte! l’arte! Le sublimi impressioni che procura a chi la comprende, a chi vive di essa e per essa! Ma che volete! Se fossi stata libera di fare a modo mio! Volevo dedicarmi al canto sin da ragazza; a quest’ora sarei già innanzi nella carriera, avrei l’avvenire assicurato, non dovrei dipendere da certe persone con le quali non voglio più avere nessun rapporto di nessuna specie. E invece mi tocca litigare, salire e scendere scale, tener conferenze con avvocati e notai: considerate un po’ voi se una donna come me è fatta per queste cose! Eppure bisogna far così, per tutelare i miei interessi, per non passar da stupida agli occhi di mio marito. Del resto io chiedo soltanto ciò che ho diritto di chiedere, e nessun tribunale al mondo potrebbe mai darmi torto. Mio marito mi paga una pensione di duecentocinquanta lire il mese, e per esser puntuale finora è stato puntualissimo; ma posso io correre il rischio di dipendere da lui, di dovergli correr dietro se un bel giorno, per una ragione qualunque, per il gusto di farmi dispetto, per amareggiarmi la vita ora che grazie a Dio non abbiamo più niente di comune, gli saltasse il ticchio di rifiutarsi? Ne è capacissimo: pensate se lo conosco, dopo cinque anni di martirio, di vero martirio vissuti con lui! Un uomo volgare, senza istruzione, senza educazione, incapace di comprendermi; buono per una contadina, adatto a rendere felice una stupida qualunque, non una persona come me. La colpa è tutta della mia famiglia; io non volevo sposarlo; imaginate che fino alla vigilia delle nozze m’ero proposta di risponder di no al municipio e in chiesa; ma come si fa, ero una ragazza di sedici anni, dove potevo prendere tanto coraggio? E ciò che ho sofferto in cinque anni non si può ridire: ci sarebbe da scrivere tutto un romanzo. Una volta m’ero anche messa a buttarne giù le prime pagine. Scrivo un poco, ho dato qualche cosa alla Crisalide; ma come si fa? Anche il direttore del Pensiero voleva che gli mandassi qualche corrispondenza di tanto in tanto, e finora non ho proprio potuto: non ho tempo. Conosco molti letterati, però: il Rampelli, Diego Giostra, la Principessa azzurra. Con quest’ultima siamo intime: facemmo conoscenza ai bagni d’Acqui, due anni addietro: ci siete stato? Una stagione elegantissima. C’era tutta la società piemontese, anche quelli che non avevano bisogno della cura e venivano per semplice diporto: la marchesa Briziè, la contessa Garresio, tante altre signore con le quali si stava sempre insieme. Ce n’erano anche di quelle che facevano le schifiltose, che pareva si contaminassero a stare insieme con gli altri; e poi se ne sentivano delle belle, sul conto di certe santarelline. Ma a me non la danno a intendere, sapete, le così dette donne oneste! Del resto ci siamo divertiti lo stesso; anzi di più; gli uomini erano tutti di scelta compagnia, figuratevi che venne anche Sua Altezza Reale il duca del Monferrato; anzi si fece una volta un gruppo fotografico, tutti insieme: guardate qui sul divano: vedete Sua Altezza? Questa qui dovrei esser io! Poi c’erano molti giovanotti dell’aristocrazia, molti signori francesi, parecchi artisti che per mio conto io preferisco agli altri: tutta gente di spirito, con la quale c’è sempre da apprendere qualche cosa mentre si scherza e si ride. Lì ho conosciuto Balducci, il commediografo Salsi, e Filipponi, il pittore mantovano, sapete?...»
«Il torrente delle sue parole, quando pareva arrestarsi un momento dinanzi a un punto interrogativo o esclamativo, precipitava indi più rapido come, dopo un ostacolo, l’acque scorrenti. E seduto al suo fianco, io restavo immobile e attento quasi pendendo dalle sue labbra, come se quei discorsi m’interessassero fuor di misura. Ma già cominciavo a non più udire, e un sentimento sorgeva dentro di me, un sentimento di curioso stupore.
«— Anch’io disegno un poco: da ragazza facevo qualcosa di non troppo brutto; ma poi ci ho perduto la mano. Disegnavo a pastello e mi ero anche messa all’acquarello e alla pittura a olio giusto poco prima del matrimonio, quando mi fidanzai. Da quel tempo non feci più nulla: appena adesso riprendo il lavoro. Faccio il mio ritratto; aspettate, ve lo voglio mostrare. Dev’essere in questa cartella. Ma che confusione, mio Dio! Non mi par l’ora di sistemarmi a Milano, dove ho già fissato un quartierino in via dei Rastrelli, sapete, vicino alla Posta. E’ vero che non ci resterò più d’un mese, ma come si fa! Dove diamine l’ho ficcato? Doveva essere proprio qui. Ah, eccolo; guardate...
«Era un pastello appena abbozzato; poche linee stentate e qualche ombra; una cosa tutta puerile.
«— È cominciato da poco, però non credo che verrà male: il mio amico Marcorati vorrebbe anzi ch’io lo mandassi all’esposizione In arte libertas — ella pronunziò libertàs; — ma ancora è un po’ presto per giudicarlo degno di tanto onore. Lo copio da questa fotografia del Sorgato di Venezia, ma correggo poi dal vero, perchè la mia figura è di quelle che la fotografia non coglie mai bene. Forse dipende anche un po’ dai fotografi, che ordinariamente non capiscono niente e lascian fare alla macchina, senza intelligenza, senz’arte. Non basta mettersi dinanzi al modello; bisogna saperne cogliere l’aspetto più favorevole, più adatto, più caratteristico; perchè il vero può anche non essere verisimile. È quel ch’io predico sempre, a proposito della scuola naturalista, che di questi tempi inonda il campo dell’arte di produzioni dove la verità nuda e cruda non fa palpitare il cuore, non suscita il più piccolo ideale. La verità è certo una gran bella cosa; e nessuno può preferirle in buona fede la menzogna; ma io domando e dico che bisogno c’è di riprodurre la realtà volgare dalla quale siamo circondati? Purtroppo di certe cose e di certi spettacoli non possiamo farne a meno come vorremmo; e se ci disgustano quando sono veri come è possibile gustarne la rappresentazione? Perciò io non leggo più Zola. Riconosco benissimo che è un forte talento, un genio anche, se vogliamo; ma è troppo brutale, urtante, sconveniente addirittura. Quella Terra, per esempio: non ho potuto andare oltre i primi capitoli, ma proprio non ho potuto. E’ una cosa veramente dispiacevole che un’artista di quella forza lì si perda in mezzo al sudiciume. E poi dite quel che vi piace, un libro deve insegnare qualche cosa, deve procurare di renderci migliori. Io non faccio la predicatrice; certamente sappiamo tutti che la vita è quella che è, ma quando uno prende la penna in mano deve venirci a dire qualcosa di diverso, di nuovo, d’interessante. Deve interessare il cuore e divertire lo spirito sopratutto; e che cosa volete? Zola non mi diverte e tanto meno m’interessa. Mentre Ohnet! Ed anche Feuillet! Ma Ohnet specialmente! Quel Padrone delle ferriere! Quella Contessa Sara! Che verità e che fascino! Che scienza del cuore umano! Ecco come tutti dovrebbero scrivere! Ma quando si prende in mano uno di questi libri, io non so: è impossibile più metterli da parte, bisogna andare sino in fondo, sino a perderne il sonno e l’appetito. E il Romanzo d’un giovane povero! Romanzo e commedia, due capolavori! Nella commedia recitai anch’io una volta, in casa Critta, a Bologna: il teatro m’ha sempre affascinata: se non avessi potuto darmi al canto a quest’ora sarei già sulle scene di prosa. Cesare Rossi mi fece l’anno scorso una mezza proposta: non era splendida, naturalmente, per una esordiente; ma l’avrei accettata a ogni modo se non avessi avuto di meglio...»
«Così il discorso svolgevasi, inesauribile, passando da un argomento all’altro, con giri tortuosi, con salti improvvisi; ed io restavo sempre lì, immobile più di prima, ma non più attento, anzi molto lontano, infinitamente lontano da quel luogo e da qu ella donna. Con gli occhi della mente io ne vedevo ora un’altra, l’Idolo dei tempi andati, la creatura della cui perdita non m’ero mai tanto crucciato come un’ora innanzi, quando, in cerca di distrazioni, per uccidere l’immensa noia, per procurarmi un istante d’oblio, avevo seguito costei la cui voce mi faceva ora l’effetto di un confuso ronzio, in mezzo al quale solo di tratto in tratto afferravo un lembo di frase. E non era molto umano il mio cruccio? Il valore da noi attribuito alle cose ed agli esseri non è sempre relativo e tutto dipendente dal reciproco paragone al quale li sottoponiamo? Non mai, pertanto, come in presenza di quella volgare creatura io avevo apprezzato il valore dell’Altra già stimata nobile e rara. Perchè, dunque, superato il primo momento di tristezza e quasi d’ambascia, la meraviglia avea occupato il mio spirito? Perchè mai, soltanto a considerare gli artifizii di eleganza, l’esagerazione del taglio e lo sfoggio di colori nell’abito che la mia compagna indossava; soltanto a esaminare l’affettata ricercatezza delle mosse e dei gesti di costei, già inconsapevolmente il paragone istituitosi nel mio pensiero cominciava a dare risultati diversi dai primi, e dove avevo visto un abisso, vedevo ora simiglianze ed affinità? Disprezzavo tanto l’antico oggetto dell’amor mio fino a giudicarlo poco diverso da questa donna che cercava clienti per le strade?... Certo, la critica nasce quando la fede muore; ed io che avevo un tempo attribuito tutte le bellezze e tutte le grazie a un’indegna, mi trovavo ora in una disposizione d’animo che avrebbe umanamente spiegato la radicale mutazione del mio giudizio; ma questo giudizio nuovo dipendeva tanto poco da considerazioni interessate, che il mio primo movimento, nel ricordare il passato, era stato tutto di rammarico. Il giudizio mi s’imponeva, invece, e derivava interamente dall’esame del quale facevo oggetto la donna che mi stava dinanzi. Come avrei potuto restare indifferente alla rivelazione d’una fisionomia morale che offriva tanti strani, imprevisti riscontri con quella che un tempo m’avea deliziato? Quell’ostentato e così mal corrisposto amore dell’arte del quale la mercenaria faceva sfoggio, quante volte non era stato addotto dall’altra? E, segno più notevole, entrambe quelle donne chiedevano all’arte un contenuto morale, mentre una di esse faceva pubblica professione di immoralità, e l’altra... sì, l’altra s’era posto sotto i piedi tutte le leggi e tutti gli scrupoli?... Avevo però io veramente il diritto di riconoscere queste cose? Non avevo io stesso amato d’un immorale amore, spingendo l’antica amante ad una nuova caduta?... Tuttavia pensavo che c’è una specie di virtù anche nella colpa, come c’è una specie di logica nella pazzia. Perchè dunque la donna che ebbe il fiore del mio sentimento, alla quale io volli esser legato da un legame indissolubile, non se ne contentò e scese ancora per le scale del vizio, se non perchè appunto del vizio ella aveva l’istinto ed il genio?... E negava l’onestà delle altre, come questa — incontro ancora più rivelatore! — e quando aveva riconosciuto la falsità della propria situazione s’era giustificata rigettando la colpa sugli altri, sulla famiglia, sul marito — come questa, ora!... Intanto che la ciarliera continuava a citar nomi di gente nota, ad enumerare le sue relazioni e a giudicar di tutto e di tutti con una vanità e una presunzione più grossolane, ma non essenzialmente diverse da quelle dell’altra; intanto che a furia di rovesciar parole sopra parole ella si contraddiceva, dimostrando a propria insaputa d’aver detto una quantità di menzogne — ed anche l’altra non aveva quest’abito? io non riuscivo a spiegarmi, tanto n’ero stupito, come entrambe quelle donne si fossero lagnate con le stesse precise parole del destino che le aveva unite con uomini indegni di loro: «Una persona sciocca, egoista, volgare, incapace di render felice una donna come me!...» Come me, cioè vana, ingannatrice e falsa, a cominciare dal viso imbellettato e dai capelli tinti, fino al cuor sordo ed alla mente vuota! Come me, cioè perfida, sfrenata ed impudente fino a pretender negli altri le cose delle quali ella era la negazione vivente...
«— Ho troppo sofferto, — udivo dire in quel punto, — e adesso vo’ prender la mia rivincita: non è forse giusto? Sono ancora giovane e piacente, ho ancora molti anni dinanzi a me per compensare quelli passati fra tante angustie. Vo’ conoscer la vita, vivere anch’io, libera come l’aria, arbitra di me stessa: voglio amare, lottare, soffrire anche, che importa? ma vivere!...
«E facendosi vento col grande ventaglio di piume bianche, dalle stecche di tartaruga bionda, che agitava con moto largo e maestoso, s’atteggiava a gran signora, non dimostrava alcuna maraviglia, anzi pareva tutta soddisfatta nel vedere questo strano avventore pendere dalle labbra di lei, chinare il capo in atto ossequente a tutto ciò che ella diceva, senza toccarle la punta di un dito... E dalla tristezza, dal rancore, dalla maraviglia io passavo finalmente a un senso di sottile compiacimento spirituale. Ero venuto a cercare il piacere dei sensi e trovavo quello del pensiero, nel curioso paragone psicologico che s’era imposto alla mia attenzione e mi forniva gli elementi d’una specie d’equazione morale. Come l’esercizio d’uno stesso mestiere e l’influenza d’uno stesso ambiente imprimono nelle persone nativamente più dissimili un carattere di simiglianza, così tra la mercenaria e la dama che in condizioni e a patti diversi vivevano dell’amore, le differenze s’andavano riducendo, per adoperare ancora il linguaggio delle scienze esatte, infinitesimali e trascurabili: la cortigiana nel salire verso la signora, questa nel discendere, tendevano a darsi la mano. Fra quelle due anime si poteva veramente già porre il segno dell’eguaglianza.»
LE CICATRICI
Le nuove pagine del