Gita sulla strada di ferro da Parigi a San Germano
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Gita sulla strada di ferro da Parigi a San Germano1.
Nella prima domenica dell’aprile dell’anno 1838 un nuovo spettacolo era offerto alla avidissima curiosità dei Parigini. Gli amministratori della strada di ferro da Parigi a San Germano avevano per quel giorno annunziato che sarebbero state aperte le due rotaje l’una per l’andata e l’altra pel ritorno, e avrebbero quindi accolto tutti i viaggiatori che si fossero presentati, ammontassero anche a mille per volta, abilitandoli in tal modo a fare in un sol giorno quel viaggio ben dieci volte.
Io aveva letto un opuscolo che nel dì precedente era stato pomposamente annunziato per tutta Parigi col titolo: Cris de détresse! Les chemins de fer feront la ruine de la France. La lettura di quell’opuscolo accrebbe ognor più la mia curiosità. Io desiderai vivamente di vedere e sperimentare col fatto questa splendida novità delle strade ferrate che far dovevano la rovina della Francia. Postomi quindi in uno degli omnibus diretti verso il quartiere delle Batignolles mi feci alle quattro pomeridiane condurre sino alla piazza dell’Europa, ove ora incomincia la strada ferrata di San Germano. Entrato in una casa di modesta apparenza, mi trovai dalla folla gittato in un labirinto di sbarre di legno che obbligano un galantuomo a fare il giro di una camera ben venti volte, per rompere così l’impeto della gente, la quale nel passare per quella specie di stia, si va rendendo sì umile e rassegnata da diventare tal quale desideravala Orazio, servum pecus, un pecorume servile.
Comperato per un franco e cinquanta centesimi il mio viglietto d’ingresso, venni introdotto in un’amplissima sala divisa in tutta la sua lunghezza da un’alta balaustrata di legno. A sinistra di questa erano ammessi i privilegiati che dovevano correre entro i wagon guerniti, ed a destra i poveracci riservati per i wagon sguerniti. Questa sala aveva tutta l’eleganza di un’aula da teatro: più file di panche tutte coperte di velluto scarlatto, grandi lumiere di cristallo pendenti dalla vôlta e le pareti dipinte a grandi scompartimenti, coi cartocci dorati alla seicento, per seguire la moda parigina del rococò, stravaganza bizzarra che s’accorda col positivo delle strade ferrate, come può accordarsi una bambocciata del Callotta con una Vergine di Raffaello. In mezzo a quelle gagliofferie del gran secolo di Luigi XIV scorsi effiggiati i ritratti dei grandi uomini che produssero le più grandi scoperte dei tempi moderni: fra gli italiani spiccavano Galileo e Volta, fra i tedeschi Scheffer e Guppemberg, fra gli inglesi Watte, Davy e Stephenson, e fra i francesi tutte le così dette illustrazioni scientifiche ed artistiche. Mentre io stava ammirando queste pitture, i miei compagni di viaggio, e soprattutto le signore, stavano leggendo i giornali, ed alcune fra esse, tutte spaurite, raccomandavansi alla memoria le istruzioni a stampa approvate dal Prefetto della Senna pei viaggiatori delle strade ferrate. Queste istruzioni hanno tutta l’imperiosità napoleonica: divieto assoluto di passeggiare per la strada di ferro, di penetrare fra le ruotaje, di uscire dai wagon innanzi tempo e di sporgervi testa, braccia e qualsiasi altra parte del corpo, sotto pena.... della vita. Pena terribile, non intimata da giudici, non eseguita da carnefici, ma fatalmente eseguibile dalla inevitabile macchina a vapore, la quale sulle strade di ferro rappresenta il Dio Fato dei tempi nostri.
Mentre i viaggiatori stavano occupandosi della lettura, al di sotto di essi i macchinisti e gli artieri apprestavano la macchina locomotrice ed i wagon, l’uno in coda all’altro. Il fumo del vapore si sollevava in colonna luogo la facciata della casa ed appannava i cristalli del grande finestrone della sala; quando ad un tratto udissi un fragor sordo e prolungato che fece tremar noi e la sala, ed a cui tenne dietro un suono festoso di trombetta che annunziava l’arrivo dei viaggiatori da S. Germano. Noi tutti ci ponemmo alle finestre per contemplar quello spettacolo, ma fummo delusi: il convoglio s’era fermato sotto il salone e non vedemmo che i viaggiatori sbucare a frotte e salire sur un’ampia gradinata che conduceva agli uffici dei gabellieri e di là partirsene. Un minuto dopo fummo avvisati dal suono sgarbato di una campanella che era venuta l’ora della partenza anche per noi. Si aperse una grande porta a invetriate che dava su una scoperta scaléa, ed i viaggiatori dei primi posti furono pei primi invitati ad uscire.
Cinquecento viaggiatori privilegiati si spinsero fuori della sala, come un’orda di Tartari: un correre giù per le scale a capitombolo, un tirarsi per le braccia, un sospingersi l’un l’altro, uno stracciarsi d’abiti, uno schiamazzare, un guaìre, come se la terra mancasse sotto i piedi, e come se il ritardo di un minuto secondo avesse a costare la vita. Che volete? In un lampo tutta quella turba si trovava già appollajata nei wagon e chiusavi a chiave dai conduttori. Al tocco di una seconda campana sbucarono per l’opposta scalea gli altri cinquecento ottantotto viaggiatori nei wagon sguerniti, e colla stessa furia dei primi andarono a prender posto su i loro sedili di legno. A me era toccato il penultimo wagon, sicchè non fui dei solleciti ad entrarvi e potei colla mia imperturbabilità da statistico noverare tutti i wagon disposti a partire e il novero fisso d’ogni viaggiatore per wagon. Trentaquattro erano i wagon e trentadue i viaggiatori per wagon: fatta a matita la mia moltiplica, mi risultò la nitida cifra di mille e ottant’otto persone tutte disposte per il tratto di quattordici miglia di farsi bravamente tirare da un pentolone d’acqua bollente equivalente alla forza di centodieci cavalli.
Aveva appena fatto il mio computo che udii dietro a me il conduttore gridare en avant! parola tutta francese e che forma per così dire il riepilogo della intiera nazione. Quella parola fu ripetuta da tutti i conduttori dei wagon sino a che giunse all’ingegnere meccanico posto alla macchina locomotrice. Questi spinse una molla, il vapore andò a muovere gli interni congegni della macchina, e appena questa cominciò a scuotersi, che passò un orrendo frastuono di catene da un wagon all’altro e destò come una specie di sussulto generale. Gli anelli di ferro che congiungevano i wagon si distendevano e comunicavano dall’uno all’altro il principio del moto. Alla perfine il movimento si decise: la locomotrice fu la padrona dei suoi trentaquattro wagon e dei suoi mille viaggiatori e cominciò a tirarseli dietro. Pareva che un guizzo elettrico fosse dalla macchina passato in un lampo sino all’ultimo wagon: era come un corpo esanime che riprendeva la vita: il sangue ricominciava a scorrere dal capo alle estremità e da quelle vi rifluiva di nuovo. In breve il moto si fece sì regolare che una bottiglia d’acqua adagiata sul sedile del wagon non riceveva nel liquido la benchè menoma oscillazione, non era quello un camminare ma un trasvolare.
Fatto un breve tratto di strada ci trovammo ad un tratto all’oscuro. Passavamo per una galleria praticata al di sotto del quartiere delle Batignolles che è lunga quattrocento tre metri, un terzo in circa di miglio. Quando fummo a tre quinti circa di quell’androne di tenebre, ci sentimmo ad un tratto mancare il respiro. Il fumo del carbon fossile che usciva dal tubo della macchina locomotrice, e l’ossigeno consumato dalla fornace del vapore avevano in parte distrutta e in parte invelenita la miglior parte dell’aria respirabile. Una specie di lento soffocamento ci si apprese ai polmoni: ansavamo per respirare e non inspiravamo che un mefitico tanfo: un languore quasi mortale ne assiderava le membra: il soffio della vita andava come spegnendosi. Se quel martirio durava ancora un tre minuti secondi saremmo usciti di là tutti asfissiati: ma alla perfine, al ritornare di un fil di luce, ritornò l’aria atta alla vita. Ci guardammo tutti in viso ed eravamo tutti del colore degli affogati. Un mon Dieu, nous sommes sauvés! uscì dalle labbra di ognuno, e quell’accento ripetuto con poche varianti da mille e ottanta bocche produsse un rumore confuso come quello di un convoglio di feriti che cercano aìta.
Questo primo accidente del viaggio mi pose alquanto di mal umore: se per andar presto, io dissi fra me e me, si deve affogare, è meglio l’andare da tartarughe a mani e piedi. Ma quel mio malcontento fu tosto dissipato dall’assicurazione datami da un mio compagno di viaggio, che era quello l’unico momento di mal essere di tutto il viaggio, giacchè non avremmo più trovato gallerie così lunghe e sì mal fatte. Nè mancò quel mio consolatore di porgermi la notizia, che a questo inconveniente sarebbesi posto rimedio coll’aprire de’ sfori di ventilazione, i quali a modo di sfiatatoi avrebbero immessa l’aria esteriore in quella specie di bolgia infernale.
Passato questo disagevole tratto di cammino, il nostro viaggio divenne un incanto. Immaginatevi di sognare e di vedere sognando passarvi innanzi allo sguardo tutti i più bei paeselli che la natura o l’arte vi ha in mille occasioni della vita presentato allo sguardo: tale è il prestigio del viaggiare sur una strada di ferro, quando si passa, come su quella di San Germano, in mezzo alle popolose vicinanze di una grande città. Bastivi dire che nel breve spazio di otto miglia si valica due volte la Senna sopra ponti che pajono aerei: si lambiscono i paeselli di Clichy, di Nanterre e di Chatou: si passa sopra due strade regie e sopra sei ad otto vie vicinali: si attraversa la foresta di Vesinel e la picciola Isola di Chiarad contornata dalla Senna. Tutte queste varietà della strada vi sfuggono nell’atto stesso che le scorgete. Appena avete attraversato orti e giardini che vi sorridono nell’occhio, vi trovate fra lande d’arena affatto incolte: sotto la strada or vi passano carri e viandanti, o ve gli vedete penzolare da un ponte imposto a viadotto sul vostro capo. In una sola località la strada di ferro ha dovuto confondersi con una strada di terra che l’attraversa: ivi stanno due barricate che si aprono e si chiudono per lasciar passare chi vuole; e là è dove il pericolo non è sempre inevitabile, giacchè un momento d’incuria nei guardiani della strada, od un po’ di pigrizia in chi l’attraversa, può esporre i viaggiatori ad un urto; urto che non è mai accaduto sinora, ma che potrebbe accadere.
Imponente deve essere lo spettacolo che presenta ai curiosi de’ paeselli e delle ville adjacenti alla strada, un convoglio che passi sulla strada stessa, giacchè voi vedete quella gente a bocca aperta stare attoniti a riguardare quella lunga biscia di carrozze che occupa lo spazio di centocinquanta braccia, e quando siete passati vi battono d’applauso le mani e vi mandano evviva che per giungere sino alle vostre orecchie dovrebbero eguagliare la velocità della luce, giacchè appena sono emesse voi siete già lontano un buon miglio. Questo senso di meraviglia ne’ spettatori bipedi, si tramuta in un deciso spavento ne’ spettatori quadrupedi: i cavalli s’impennano, s’arretrano, sbuffano; i bovi muggono e rinculano a balzelloni; le pecore ed i cani prendono la fuga e corrono qua e là alla sbandata che pajono invasati dallo spirito di Satana; e per evitare il pericolo che si caccino dallo spavento verso la strada, venne questa ai due lati munita di una forte ed alta siepe.
Mentre l’occhio a tale spettacolo inusitato si diverte, potete a vostro bell’agio conversare coi vostri compagni di viaggio, giacchè tranne il lontano mugghio della macchina a vapore nessun rumore di ruote vi rintrona all’orecchio: le carrozze guizzano via silenziose come le barche travolte dalla corrente. Ed io infatti mi accorsi che i viaggiatori, i soli che non parlassero, erano i novizj, i quali come me facevano quel viaggio per la prima volta: noi rimanevamo mutoli per stordimento. In questa specie di contemplazione estatica passarono i trenta minuti che occorrono pel viaggio e ci accorgemmo della fine di questo dal graduale rallentarsi delle carrozze; rallentamento che dura in circa dai due ai tre minuti, e che è anch’esso uno degl’inconvenienti delle strade ferrate, giacchè se non si ha il tempo di fermare la macchina a due minuti di distanza dall’ostacolo che si presenta, il suo cammino non cessa e andate a rischio di rompervi le ossa.
Il suono della tromba ripetuto da tutti i conduttori dei wagon ne annunziò il nostro arrivo, e noi uscimmo salutando la macchina a vapore che scivolando su una ruotaja fatta a cerchio, andava come un destriero vittorioso a riposarsi sbuffando nel suo cantiere. In tre minuti fummo tutti sul ponte della Senna che conduce a San Germano, e vi so dire che quell’improvviso spettacolo di mille e più persone che s’erano in uno stesso momento trovale su un medesimo punto, faceva veramente stupore: pareva che quella intiera popolazione, fosse ad un tratto sbucata da terra: io vedeva ripetersi, come per incanto, la nota favola di Cadmo i cui denti seminati pullulavano uomini.
Questo singolare spostamento di migliaja di persone da un punto all’altro del paese è anch’esso uno dei tanti miracoli di questa prodigiosa invenzione.
La città di San Germano a cui mette capo la strada ferrata, ha la stessa importanza di Monza rispetto a Milano: è abitata da ottomila abitanti con qualche industria, ha molti collegi di educazione, ed una Villa Reale attualmente tramutata in una casa penitenziaria per gli uffiziali dell’esercito. È situata su un altipiano che domina le cento ed una tortuosità della Senna ed è circondata dalla magnifica foresta che sta di prospetto alla villa dei Re di Francia, e nella quale essi usavano un tempo tenervi rumorose caccie di lepri e di cinghiali. San Germano ha veduto in un anno aumentarsi la popolazione di circa duemila persone, per il movimento che vi diede la sola strada ferrata. Io dimorai colà tutto quel tempo che bastava per le disposizioni necessarie a riprendere il viaggio di ritorno sulla strada di ferro, giacchè quello soltanto era l’oggetto della mia gita.
Alle cinque pomeridiane io era già accovacciato nel mio wagon che dal numero penultimo era divenuto il secondo per la stazione che avea conservato nella stessa ruotaja. Al tocco della solita campanella i mille e ottanta miei compagni di viaggio, vennero, benchè un po’ a stento, in cerca del loro posto, giacchè tutti avevano voluto approfittare della mezz’ora di fermata per rosicchiare qualche osso dell’inevitabile gigot (coscia di pecora arrostita) che pei Francesi equivale all’indispensabile rost beef degli Inglesi. Dopo avere la campanella prolungato il suo suono per chiamare i ritardatarj, il macchinista ricevette il segnale della partenza e la macchina ricominciò la sua pena di Tantalo. Quel viaggio di ritorno fu assai più celere dell’andata, perchè la strada ha un leggiero pendìo e la si percorre non più in trenta ma in soli ventisette minuti.
Quando fummo presso a Parigi il giorno tramontava: tutti i wagon erano illuminati da fanali, e la macchina a vapore mandava dal suo fornello di fuoco una vampa rossastra su tutta la strada, mentre le scintille che uscivano dal tubo del fumo strisciavano l’aria di un igneo guizzo. Quel fuoco commisto al fumo che fuori sbucava da quel colosso di ferro, lo assomigliava ad un demone che seco strascinasse un convoglio di anime dannate. Oh! se Dante fosse vissuto nel secolo delle strade di ferro! Avrebbe lasciato quel suo lento portatore nelle ime bolgie dell’inferno, il gigante Gerione, per prendere in vece il gigante inventato da Wathe e Stephenson. E poi si dirà che il secolo delle strade ferrate, non potrebbe essere un secolo Dantesco!
In questo seminotturno viaggio non fui distratto dall’amenità del paese che a stento poteva scorgere fra il nebbiume della sera che lo involgeva: io non vidi più altro che la luce artificiale delle macchine e dei fanali dei wagon, che rischiaravano tratto tratto gli ottanta guardiani della strada che ritti in piedi a fianco della ruotaja, ravvolti nel loro mantello di lana e coperti di un caschetto metallico, indicavano con una mano sul cuore e l’altra distesa che la via era scevra d’ogni ostacolo. Quelle figure immobili, illuminate dal fuoco, parevano tante statue di bronzo che ne augurassero la mala ventura: se io fossi stato un amatore del fantastico alla Hoffmann, ne avrei fatto fuora tante creature malefiche da figurare in un romanzo da paure; ma colla immaginazione e coll’anima rallegrata dalla serenità italiana, non potei in essi veder altro che poveri diavoli che per pochi centesimi al giorno vendevano la loro vita per risparmiare la mia e quella de’ miei compagni. Se io mi fossi trovato su qualche strada d’Italia avrei forse loro gettato il soldo, come si fa co’ paltoni che cercano la carità: ma nel paese della civilisation mi accontentai in vece di numerarli ad uno ad uno per sapere a quanto ammontasse quella legione, e n’ebbi quel numero che già vi ho detto.
Restituitomi sano e salvo a Parigi, ringraziai il cielo di essere sfuggito da ogni pericolo, forse più ricordandomi che poco tempo prima aveva arrischiata davvero la vita correndo a quattro cavalli sulle così dette magnifiche strade postali della Francia.
Ritornato in Italia per raccontare le impressioni di questa mia gita sur una strada di ferro, seppi con piacere che una strada di tal genere si stava già costruendo da Napoli a Castellamare e da Livorno a Firenze, mentre da noi si formano progetti per andare da Milano a Monza, da Milano a Bergamo, da Milano a Sesto, e da Milano a Venezia, sopra strade ferrate; e intanto che l’ansietà pubblica aspetta questi nuovi miracoli del secolo di Napoleone, andai ad apprendere le particolarità tecniche di questa novella invenzione da un buon galantuomo che nei Pubblici Giardini di Milano le va quotidianamente spiegando per una lira a chiunque le vuol conoscere senza viaggiare.
Giuseppe Sacchi
Note
- ↑ Questa breve relazione è tratta da un Viaggio a Parigi nell’anno 1838, opera ancora inedita del nostro collaboratore Giuseppe Sacchi, il quale ha promesso di fornire al nostro giornale varj capitoli di questo suo viaggio.
Il Compilatore