Giambi ed epodi/Ripresa
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XV.
I.
Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone!
L’aspra tua chioma porgimi, ch’io salti anche in arcione,
Indomito destrier.
A noi la polve e l’ansia del corso, e i rotti vènti,
E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti
6L’urlo solingo e fier.
I bei ginnetti italici han pettinati crini,
Le constellate e morbide aiuole de’ giardini
Sono il lor dolce agon:
Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori,
La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori
12De le fanfare al suon;
E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso,
Il picciol collo inarcano e masticando il morso
Par che rignino — Ohibò! —
Ma l’alfana che strascica su l’orlo de la via
Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia
18D’un corpo che invecchiò,
Ripensando gli scalpiti de’ corteggi e le stalle
De’ tepid’ozi e l’adipe de la pasciuta valle,
Guarda con muto orror.
E noi corriamo a’ torridi soli, a’ cieli stellati,
Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati,
24Dietro un velato amor.
Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico!
Non vedi tu le parie forme del tempo antico
Accennarne colà?
Non vedi tu d’Angelica ridente, o amico, il velo
Solcar come una candida nube l’estremo cielo?
30Oh gloria, oh libertà!
II.
Ahi, da’ primi anni, o gloria, nascosi del mio cuore
Ne’ superbi silenzi il tuo superbo amore.
Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
Mi sfolgorâr da’ gelidi marmi nel petto un raggio,
Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
36E i lampi de’ bianchi omeri sotto le chiome d’òr.
E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
Io ’l diedi per un impeto lacrimoso d’affanni,
Per un amplesso aereo in faccia a l’avvenir.
O immane statua bronzea su dirupato monte,
Solo i grandi t’aggiungono, per declinar la fronte
42Fredda su ’l tuo fredd’omero e lassi ivi morir.
A piú frequente palpito di umani odii e d’amori
Meglio il petto m’accesero ne’ lor severi ardori
Ultime dee superstiti giustizia e libertà;
E uscir credeami italico vate a la nuova etade,
Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade,
48E il canto, ala d’incendio, divora i boschi e va.
Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata!
Co ’l tuon de l’arma ferrea nel destro pugno arcata,
Gentil leopardo, lanciasi Camillo Demulèn,
E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia,
Per rivelarti a’ popoli, con le taurine braccia,
54O repubblica vergine, l’amazonio tuo sen.
A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli,
Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli,
Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior
Ti rideva da l’anima la fede, allor che il bello
E biondo capo languido chinavi, e te, fratello,
60Copria l’ombra siderea di Roma e i tre color;
Ed al fuggir de l’anima su la pallida faccia
Protendea la repubblica santa le aperte braccia
Dritta in fra i romulei colli e l’occiduo sol.
Ma io d’intorno premere veggo schiavi e tiranni,
Ma io su ’l capo stridere m’odo fuggenti gli anni:
66— Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol?
Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente
E quel che vive e s’agita nel mondo egli non sente — .
O popolo d’Italia, vita del mio pensier,
O popolo d’Italia, vecchio titano ignavo,
Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo;
72E de’ miei versi funebri t’incoroni il bicchier.
III.
Avanti, avanti, o indomito destrier de gl’inni alato!
Obliar vo’ nel rapido corso l’inerte fato,
I gravi e oscuri dí.
Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto
I falchi salutarono augurando ne l’alto
78E il bufolo muggí?
Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano,
Ove china su ’l nubilo inseminato piano
La torre feudal
Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi
Veglia de le rasenie cittadi in mezzo a’ boschi
84Il sonno sepolcral,
Mentre tormenta languido sirocco gli assetati
Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati
Verdi tra il cielo e il mar,
Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno
Saliva, le fenicie rosse vele nel seno
90Azzurro ad aspettar?
Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera
Torre di Donoratico a la cui porta nera
Conte Ugolin bussò
Con lo scudo e con l’aquile a la Meloria infrante,
Il grand’ elmo togliendosi da la fronte che Dante
96Ne l’inferno ammirò?
Or (dolce a la memoria) una quercia su ’l ponte
Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte
Novella il cacciator
Quando al purpureo vespero su la bertesca infida
I falchetti famelici empiono il ciel di strida
102E il can guarda al clamor.
Là tu crescesti, o sacro destrier de gl’ inni, meco;
E la pietra pelasgica ed il tirreno speco
Fûro il mio solo altar;
E con me nel silenzio meridïan fulgente
I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente
108Veníano a conversar.
E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada
Che ne’ solchi de i secoli aperti con la spada
Dal console roman
Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava;
Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava,
114Comune italïan,
Tra le germane faide e i salmi nazareni
Esultava nel libero lavoro e ne i sereni
Canti de’ mietitor.
Chi di quell’orzo pascesi, o nobile corsiero,
Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero
120Nel sano petto il cor.
Dammi or dunque, apollinea fiera, l’alato dorso:
Ecco, tutte le redini io ti libero al corso:
Corriam, fiera gentil.
Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti,
De’ mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti;
126E a noi rida l’april,
L’april de’ colli italici vaghi di messi e fiori,
L’april santo de l’anima piena di nuovi amori,
L’aprile del pensier.
Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta
Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta
132Cavallo e cavalier,
O ch’io discenda placido dal tuo stellante arcione,
Con l’occhio ancora gravido di luce e visïone,
Su ’l toscano mio suol,
Ed al fraterno tumolo posi da la fatica,
Gustando tu il trifoglio da una bell’urna antica
138Verso il morente sol.
- ottobre 1872.