Giacomo Leopardi/XXVI. La prosa di Leopardi
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XXVI
LA PROSA DI LEOPARDI
La lettera a Jacopssen, scritta nel ritorno da Roma, il 23 giugno del 1823, a venticinque anni, mostra che tutte le sue idee metafisiche e morali erano già fin da quel tempo non solo presenti allo spirito, ma coordinate ed architettate, sì da fare un solo organismo. La loro presenza è visibile nelle nuove Canzoni, che sono un’alterna vicenda di disperazioni e di entusiasmi su un fondo nero di malinconia. La scissura, che è l’essenza di tutto questo sistema, genera contraddizioni patetiche e momenti estetici, che muoiono senza sviluppo in quel languore della volontà, dinanzi ad un intelletto terribilmente attivo e acuto. Era quel tempo che il corpo era sano e l’animo tranquillo, e il poveromo, ponendo in pratica i precetti di Epitteto, ostentava una indifferenza che mal copriva la scissura interna.
E fu anche in quel tempo, che, datosi perdutamente alle cose filosofiche, o, come dic’egli, allo studio del vero, esprimeva tutto questo flutto di opinioni in pensieri, dialoghi, discorsi e volgarizzamenti, cercando a un tempo con coscienza d’artista quella eccellenza nella prosa che cercava nei versi.
Già fin dalla età più giovane, come s’è visto, scriveva certe prosette satiriche, e pensieri e schizzi, un embrione che fecondato dagli studi veniva ora a maturità. E concepisce il disegno di porre in iscritto tutto quel sistema d’idee, che nel suo insieme gli appariva nuovissimo, e arricchire l’Italia, non solo di un contenuto nuovo, ma di un nuovo genere di prosa. Stimava Leopardi che la prosa italiana fosse lontana ancora dalla sua perfezione, e che in molti generi fosse o mancante in tutto, o imperfetta. E nella sua solitudine, alieno da ogni commercio umano, non gli pareva impossibile di creare con lo studio e con l’ingegno la prosa italiana.
Il suo concetto è giusto. Stimava che la prosa italiana fosse stata efficace senza semplicità, o semplice senza efficacia; ed egli mirava ad una semplicità efficace. La quale efficacia credeva di poter conseguire con quel vigore logico, di cui è visibile il difetto nella nostra prosa, vale a dire, con una forma limpida ed evidente, fondata su di una ossatura solida e intimamente connessa, come in un corpo organico. I nostri prosatori, per conseguire l’efficacia, sogliono aver ricorso a movimenti d’immaginazione e di sentimento, che scoppiettano su di una ossatura fragile e scongegnata, vale a dire a spese della logica. E questo egli doveva notare principalmente in Pietro Giordani e Vincenzo Gioberti, i due suoi migliori amici, mirabili per lo splendore, ma non per la stretta conseguenza dell’ossatura. Ora a Giacomo Leopardi la prosa pareva voce dell’intelletto; e non le si affaceva quello stile immaginoso e patetico, che si conviene a poeta. L’efficacia della prosa egli la cercava nelle qualità intellettuali, accompagnate con la purità e la limpidezza dell’esposizione.
La semplicità e l’efficacia sono le due qualità essenziali dello scrivere in prosa, che Leopardi trovava nella prosa greca e ne’ nostri trecentisti, i più atti, secondo il suo avviso, a rendere quella divina prosa. Perché, se in questi scrittori il pensiero è fiacco, e l’ossatura sconnessa, la forma nella sua mera estrinsechezza ha davvero semplicità ed efficacia; il contenuto è volgare, ma l’istrumento è ottimo.
Ed egli lo ha saputo adoperare egregiamente ne’ volgarizzamenti che andava facendo de’ moralisti greci. Nelle sue traduzioni, massime del Manuale di Epitteto e degli Avvertimenti morali di Isocrate e della Favola di Prodico, la lingua del trecento esce fuori propria e semplice, in uno stile vigorosamente intellettuale, che le dà evidenza senza bisogno di colorito o di movimenti sentimentali. L’efficacia è conseguita non da altro che da questa evidenza, che investe tutto l’organismo e te lo rende visibile nella sua integrità, senza che occorra sforzo d’immaginazione o di sentimento. Perciò qui non trovi né ellissi, né contrasti, né frasi scultorie, tutto ciò che solletica l’immaginazione e provoca il suo intervento. Al contrario, hai la ossatura completa, non solo tutte le giunture, ma tutte le ripiegature ed i particolari accidenti; sicché, senza veruno tuo lavoro, le cose ti vengono innanzi esse medesime in modo immediato, quasi non ci sia trapasso del pensiero nella parola. Il traduttore che ne’ suoi versi condensa, ed abbrevia e scolpisce, sollecitando la immaginazione e il sentimento a riempire gli spazii vuoti, qui occupa lui tutto lo spazio, e ti offre all’occhio i minimi accidenti.
Si può dire che è il testo greco che lo istrada a questa maniera di prosa, nella sua pienezza così semplice e insieme così efficace. Se non che questa forma particolare di prosa diviene per lui tipica, vale a dire l’esemplare della prosa. E la trovi nei Pensieri, nella Storia del genere umano, nel Parini, ne’ Detti di Filippo Ottonieri. È la sua prosa, il modo col quale concepisce la prosa.
Voglio dare un esempio di questa prosa, e lo tolgo da’ Detti memorabili di Filippo Ottonieri:
I libri per necessità sono come quelle persone che stando cogli altri, parlano sempre esse, e non ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che il libro dica molto buone e belle cose, e dicale molto bene; acciocché dai lettori gli sia perdonato quel parlar sempre. Altrimenti è forza che così venga in odio qualunque libro, come ogni parlatore insaziabile.
La novità e la giustezza di questo pensiero, illuminato da un raffronto nuovo ed evidente tra il libro ed il parlatore, attira subito l’attenzione. Del qual pensiero qui non hai che la semplice ossatura con le sue commessure ben rilevate, e con un collocamento di vocaboli proprii, accomodato alla diversa importanza delle proposizioni. I legami ci sono tutti, e la struttura è perfetta, e tutto ti si pianta nello spirito naturalmente, quasi per uno svolgimento spontaneo e diretto di esso pensiero. Mancano colori, immagini, impressioni; è il nudo scheletro, congegnato con tanta esattezza di articolazioni e con così chiara esposizione, che ti ci stai contento e non desideri altro.
Questo tipo intellettuale di prosa era anche il tipo di Niccolò Machiavelli; se non che certe abitudini letterarie, non potute in tutto sradicare, e certe durezze di espressione gl’impedirono di conseguire quella limpidità e quella uguaglianza, che si ammira nella prosa leopardiana.
A Giordani e agli altri letterati poté parere quella prosa un deserto inamabile, e più uno scheletro che persona viva. Ed è chiaro che a questi tempi di fiori posticci e di salse piccanti, quella prosa dee parere arida e insipida. Sicuro, la non è che lo scheletro; ma era lo scheletro appunto che mancava alla prosa italiana, e nella esatta e solida formazione dello scheletro si vede quella virilità intellettuale, e quel vigor logico che, se non unica, è parte principalissima della buona prosa.
Leopardi volle fare così, fittosi in mente quel suo esemplare di prosa, e vi spiegò una assoluta padronanza della lingua e un insolito vigore intellettuale. Ne uscì fuori un monumento classico, di molta perfezione, a linee severe. Gli spettatori dicono subito: — Gli è un bel monumento, ma non ci si sente noi — .
Questo è il difetto. Fondo greco, lingua del trecento, una famigliaritá elegante di uomo superiore, appartato dalla moltitudine, elementi cavati dalla letteratura, e plasmati e fusi da una serietà intellettuale, che si afferma con pregiudizio delle altre qualità dello spirito: ecco un lavoro finito, degno di ammirazione, ma senza eco e senza effetto letterario, perché frutto d’ingegno solingo, e sente di biblioteca, e non esce di popolo.