Giacomo Leopardi/XXV. La morale di Leopardi
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | XXIV. Filosofia di Leopardi | XXVI. La prosa di Leopardi | ► |
XXV
LA MORALE DI LEOPARDI
Conseguenza naturale di una teoria, la cui base è il mistero nelle origini e nella finalità del mondo e dell’uomo, e la vita una illusione e sola realtà la morte o il nulla, non può essere altro che il suicidio. E questa è la conclusione nel Bruto e nella Saffo.
Teorie simili non hanno morale, nulla hanno a dire per la vita pratica. La conseguenza animalesca è l’«edamus et bibamus», godere la vita, perché «post mortem nulla voluptas». Ma questo godere la vita, o, come si dice, il piacere, non è felicità, è anch’esso illusione: e allora che resta? Il morire.
Però a questa conseguenza, che viene diritta da quelle premesse, ripugnano i più eletti spiriti. Sappiamo a quale finezza dové aver ricorso Kant per conciliare la vita pratica con le sue deduzioni speculative.
Anche qui Leopardi s’incontra con Schopenhauer. Il suicidio soddisfa in lui il poeta, e anche l’uomo nel momento buio della vita. Una catastrofe come quella di Bruto sorride alla sua immaginazione quando il poveromo si trova proprio alle strette e non può durare la vita. Ma il filosofo sfugge alla catena del raziocinio, e sa conciliare la vita pratica e morale con quel nulla universale. Perché intendere è altro che volere, e l’uomo fa quello che vuole, e non quello che intende.
La maravigliosa unità dantesca del «posse, nosse, velle» è rotta così in Leopardi, come in Schopenhauer. La vita non appartiene all’intelletto, ma alla volontà; e l’uomo vive e vuol vivere, ancoraché l’intelletto gli scopra la vanità della vita. Finché l’immaginazione e il sentimento sono vivi, nascono nel pensiero care illusioni che ti allettano alla vita, come nei popoli e negli uomini giovani. E anche quando le care illusioni sono dileguate al soffio malefico della scienza o del vero, la vita rimane intatta, quando ci sia la forza d’immaginare, di sentire e di amare: che è appunto il vivere. Dice l’intelletto: — L’amore è illusione, sola verità è la morte — . E io amo, e vivo, e voglio vivere. Il cuore rifà la vita che l’intelletto distrugge. Perciò amore e morte sono forze fraterne; l’una finisce nell’altra. La vita vuol morire. E la morte vuol vivere. Dalla vita si genera la morte e dalla morte rinasce la vita.
Poiché il cuore aiutato dall’immaginazione si ribella all’intelletto, e corre appresso alla vita, pur conoscendola cosa vana, è possibile una morale o una vita pratica.
La cui base è questa, che l’uomo, e come individuo e come essere collettivo, dee fare ogni opera a ristaurare le illusioni che ci rendono cara la vita, e trattarle come cosa salda, ancorché innanzi all’intelletto sieno chiarite ombre. A ciò si richiede una educazione ginnastica del corpo e dello spirito, che serbi integre le forze dell’immaginazione e della sensibilità, vale a dire le forze della vita.
Nella infelicità universale il primo sentimento umano è la compassione reciproca, essendo tutti vittima della matrigna natura, o piuttosto del Fato; perché è da natura che abbiamo le dolci illusioni, che c’incoraggiano a vivere. Onde nasce il concetto della fratellanza universale o della solidarietà umana, l’unione di tutti contro il Fato, nemico di tutti.
Queste sono le aspirazioni morali di Giacomo Leopardi, tirate co’ denti, non dedotte bene, anzi in contraddizione con le premesse. Si vede in questo processo quella scissura della volontà e dell’intelletto, che è pur la base del suo edificio poetico. La sua utopia morale è una confederazione umana di mutua assicurazione contro l’azione malefica dell’intelletto o della scienza. Al che si riesce con rinvigorire le forze vitali, renderle atte alla resistenza opponendo il sentimento all’intelletto. La vita ha quel valore che le dà l’immaginazione e il sentimento, e più queste forze sono educate e sviluppate, più cresce quel valore, ancorché sappiamo che sia tutto un’illusione.
Queste conclusioni morali sono la scappatoia, per la quale Leopardi sfugge alle strette mortali del suo intelletto. Lo chiamavano un misantropo, un nemico del genere umano. Ed egli può con questa scappatoia rientrare in grembo dell’umanità ed esservi tollerato.
Se non fosse una scappatoia, certo inconsapevole, ma fosse una persuasione efficace, Leopardi metterebbe il suo ingegno a’ servigi di questa causa, e sarebbe un potente apostolo di fratellanza e di solidarietà umana. Ma queste idee egli le fa valere nelle lettere agli amici, ai quali bisogna pur parlare un linguaggio umano, soprattutto nella lettera a Jacopssen, e le usa qua e là come attenuanti della sua dottrina fatalistica. In fondo il suo pensiero è questo, che così è il mondo, e così è l’uomo, e non c’è rimedio. Ammette in astratto gli effetti salutari di una buona educazione fisica e morale e di una confederazione umana, ma non ci ha fede, non crede possa avvenire, e non ci mette di suo che la tesi, una semplice enunciazione così di passaggio.
Nondimeno, anche ammessa nella sua crudità irrimediabile quella sua vanità del tutto, una certa condotta morale nella vita pratica è possibile. Qui gli soccorrono i greci, massime gli stoici, la cui morale intendeva appunto a sostenere l’uomo in mezzo ai mali e alle vicende di un mondo corrotto che si disfaceva lentamente.
Quando Leopardi si trova in momenti bui, proclama l’irrimediabile e il fatale con la disperazione di Bruto. Ma quando si accheta e si assuefà alla vita, trova la medicina nella morale stoica: «sustine et abstine». Il suo specchio sono i moralisti greci appartenenti a quella gradazione, e li volgarizza, e di là estrae pensieri e osservazioni.
S’è visto ch’egli pregò e strapregò lo Stella a pubblicargli que’ suoi volgarizzamenti, venuti poi in luce dopo la sua morte. Gittando un’occhiata sulle osservazioni ch’egli vi aggiunge, si può vedere quali erano le sue idee morali in quel periodo relativamente tranquillo della sua vita. Quelle idee morali sono appunto la filosofia, o, come egli dice, la pratica filosofica di quel genere di vita che allora menava, quando, esaurite le prime disperazioni giovanili, s’era acconciato a vivere come tutti quanti, cioè in modo ordinario e volgare. Egli nota che gli uomini forti desiderano la felicità negata dal Fato, e contrastano ferocemente alla necessità, come i Sette a Tebe di Eschilo, e gli altri magnanimi degli antichi tempi. La morale stoica che raccomanda la tranquillità dell’animo e uno stato libero di passione, e non darsi pensiero delle cose esterne, non è fatta per quelli, ma per gli uomini deboli, facilmente rassegnabili.
Io, che dopo molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo medesimamente ad esecuzione.
Il sugo di questa morale stoica praticata da Leopardi e inculcata a tutti, è in questo, che, sendo negata all’uomo la felicità, lottare contro il Fato non vincibile, e consumarsi di desiderii vani, è stoltezza; e per contrario uno stato di pace e quasi di soggezione dell’animo e di servitù tranquilla, quantunque niente abbia di generoso, è pure conforme a ragione, conveniente alla natura mortale, e libera da una grandissima parte delle molestie, degli affanni e de’ doveri, di che la vita nostra suol essere tribolata. «Non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice»: qui è la cima e la somma sì della filosofia d’Epitteto, e sì ancora di tutta la sapienza umana.
Si capisce ora perché gli era così caro il Manuale di Epitteto, e stimava il suo volgarizzamento come il suo lavoro più importante, e si dava con amore anche alla traduzione d’Isocrate. Trovava lì quella sua morale di tranquillità e di rassegnazione al Fato di cui egli medesimo era esempio. Il Manuale di Epitteto finisce con queste parole:
Menami o Giove, e con Giove tu o Destino, in quella qual si sia parte a che mi avete destinato; e io vi seguirò di buon cuore. Che se io non volessi, io mi renderei un tristo e un da poco, e niente meno a ogni modo vi seguirei.
Con questa filosofia pratica di Epitteto concorda la morale cristiana, la quale ha per base la rassegnazione ai voleri divini imperscrutabili. Quello che in Epitteto è il Savio, nella morale cristiana è il Santo. Idee simili pullulano in tempi guasti e tristi, nei quali all’uomo non rimane che ritirarsi in sé stesso tranquillamente e fuggire le perturbazioni dell’animo. Nell’uso volgare seguire la filosofia o essere un filosofo si dice appunto in questo senso.
Leopardi, che nella sua giovinezza si dibatte contro il destino, finisce in questa quietudine raccomandata da Epitteto e da Isocrate, non senza qualche momento di ribellione suicida in giorni tristi.
Accanto a questa filosofia della consolazione e della rassegnazione ci ha una morale eroica e virile che predica la lotta contro il male e, come dice Leopardi, contro il Fato e la Natura. Questa lotta era possibile negli antichi tempi, quando l’intelletto non era ancora adulto, e gli uomini si governavano con l’immaginazione e col sentimento, e popolavano di felici errori il mondo. Ma la lotta oggi non ha senso, appunto perché l’intelletto divenuto adulto giudica errori ed illusioni quei nobili fini che gli antichi seguivano nella vita, come virtù, gloria, sapere. La lotta non può avere altro scopo che di ravvivare le forze dell’immaginazione e del sentimento, le quali ci allettino a quei fini, posto pure che sieno mere illusioni.
Questa morale eroica, fondata sull’affratellamento di tutti gli uomini contro il destino, quantunque rimanga astratta e sia contraddittoria ed impotente, è la parte piú originale e altamente poetica del pensiero leopardiano.